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La precisazione delle concl.

LA UDIENZA DI PRECISAZIONE DELLE CONCLUSIONI

La questione

La fissazione di un'apposita udienza per la precisazione delle conclusioni è momento necessario del processo civile? In cosa consiste e a quali effetti rileva la precisazione delle conclusioni? Perché la prassi riserva ad essa la fissazione di un'udienza ad hoc?

La risposta in sintesi

Il codice di rito prevede che, quando il giudice istruttore rimette la causa in decisione, quest'ultimo inviti le parti a precisare davanti a lui le conclusioni. A tal fine la prassi riserva la fissazione di una udienza ad hoc, peraltro non necessaria.

Il momento della precisazione delle conclusioni rileva a diversi (e importanti) effetti. Ad esso si fa coincidere il referente temporale del giudicato sostanziale per ciò che attiene alla quaestio facti (con conseguente preclusione del dedotto e del deducibile), nonché il termine di riferimento per “bloccare” una volta per tutte le richieste definitive e specifiche da sottoporre al giudice, sulla base delle quali valutare la soccombenza agli eventuali fini impugnatori. Sicché risulta oltremodo importante stabilire quali novità sia possibile dedurre in sede di p.c., e come si sviluppa il meccanismo delle istanze non riproposte ma nemmeno espressamente oggetto di rinuncia al momento della precisazione delle conclusioni.

Per una rilevante parte della dottrina e per la giurisprudenza sembra che la precisazione delle conclusioni possa rivestire un ruolo fondamentale nella dinamica processuale e, in particolare, nella determinazione definitiva del thema decidendum. Ed il vero problema non è tanto la fissazione di un'udienza specifica di p.c. non prevista espressamente dal codice, quanto il fatto che spesso essa venga disposta a notevole distanza di tempo dal momento della rimessione. In sostanza, la udienza di precisazione delle conclusioni non è necessaria anche ad avviso della giurisprudenza, tuttavia per i giudici la sua fissazione è fondamentale e immancabile.

Una possibile chiave di lettura è quella secondo la quale la prassi tende a disporre a distanza anche di anni la udienza di p.c., che potenzialmente secondo l'attuale regime rappresenta l'ultima udienza prima della emanazione della sentenza, per consentire medio tempore la stesura della motivazione della decisione, vero motivo di “ritardo” nei tempi processuali.

Qualifica personale

Francesco Campione, abilitato alla professione di avvocato e dottorando di ricerca presso la LUISS Guido Carli di Roma

L'approfondimento

La precisazione delle conclusioni: inquadramento generale

Il codice di procedura civile, all'art. 189, comma 1, stabilisce che “il giudice istruttore, quando rimette la causa al collegio, a norma dei primi tre commi dell'art. 187 o dell'art. 188, invita le parti a precisare davanti a lui le conclusioni che intendono sottoporre al collegio stesso, nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o a norma dell'art. 183. Le conclusioni di merito debbono essere interamente formulate anche nei casi previsti dall'art. 187, secondo e terzo comma”. Analogo meccanismo opera anche nei procedimenti ove il tribunale decide in composizione monocratica (art. 281 quinques, comma 1) nonché, ex art. 321 c.p.c., nelle cause di competenza del giudice di pace.

Sicché l'invito alle parti a precisare le conclusioni (anche di merito) viene effettuato dal g.i. in tutti i casi in cui la causa viene rimessa al collegio (rectius, in decisione): quando non si dà luogo ad istruttoria perché magari la controversia è di puro diritto ovvero soltanto documentalmente istruita; quando, al contrario, l'istruttoria è eseguita e si ritiene raggiunta la prova dell'esistenza o inesistenza del diritto oggetto di giudizio; quando l'istruttoria è eseguita ma viene anzitempo interrotta a causa del sopraggiungere di una questione (preliminare di merito o pregiudiziale di rito) idonea a chiudere il giudizio. A questo proposito la Corte Suprema ha affermato che il giudice (anche di pace), il quale intenda pronunciarsi sulla competenza (o sulla giurisdizione) ai sensi dell'art. 187, comma 2, deve invitare le parti a precisare le conclusioni anche di merito, e ciò pure a seguito del mutamento della forma del relativo provvedimento ad opera della Legge 18 giugno 2009, n. 69. In mancanza dell'invito a precisare le conclusioni, l'ordinanza emessa è meramente ordinatoria, non statuendo sulla competenza e non determinando, quindi, alcuna efficacia preclusiva, e inoltre la sua eventuale impugnazione mediante regolamento di competenza è da dichiarare inammissibile. In sostanza in tal caso entra in gioco un provvedimento che bensì pronuncia sulla competenza ma non statuisce: a quest'ultimo fine è necessaria la previa precisazione delle conclusioni, e solo la successiva ordinanza sarà impugnabile con regolamento di competenza (Cass. Civ. Sez. VI, 27 maggio 2011, n. 11751; Cass. Civ. Sez. VI, 28 febbraio 2011, n. 4986).

La precisazione delle conclusioni rappresenta un momento che, propriamente, non può essere considerato di trattazione o istruzione, presupponendo che l'istruttoria sia esaurita ovvero non (più) necessaria perché la causa è pronta per essere decisa, mentre è pacifico che la trattazione trova il suo fisiologico termine nell'udienza ex art. 183 c.p.c. o tutt'al più nel “prolungamento” scritto secondo il meccanismo delle memorie di cui al medesimo articolo; né tantomeno è ascrivibile alla fase decisoria, perché precisare le conlcusioni serve proprio a definire quello che in concreto viene chiesto al giudice, il quale solo nell'ulteriore fase (per l'appunto, decisoria) emetterà il suo verdetto. Lo si può ritenere un momento di raccordo tra la fase di trattazione e quella di decisione. Una funzione di raccordo che, in concreto, si rende evidente soprattutto nella cause a decisione collegiale.

L'udienza di p.c. e il problema della sua fissazione a lungo termine

La prassi riserva alla precisazione delle conclusioni di parte un'apposita udienza. Invero quest'ultima non risulta affatto necessaria: da un lato, infatti, l'art. 189 c.p.c. si limita a prevedere che il g.i. inviti le parti a precisare davanti a lui le conclusioni, cosa che potrebbe realizzarsi anche all'esito dell'ultima udienza istruttoria; dall'altro lato, la Legge 26 novembre 1990, n. 353 ha abrogato l'art. 110 disp. att. c.p.c., che regolava la fissazione di una nuova udienza di trattazione una volta che il g.i. avesse dichiarato chiusa l'assunzione della prova. Tuttavia in dottrina si è segnalato che l'abrogazione da ultimo segnalata nulla innova, in punto di fissazione dell'udienza di p.c., rispetto al sistema precedente, poiché in tale articolo si contemplava un'ulteriore udienza di trattazione a cui costantemente seguiva la udienza di p. c., e non già un'udienza in cui avesse sede la precisazione delle conclusioni (DAMIANI, “La precisazione delle conclusioni e il “collo di bottiglia” nel processo civile”, in Riv. trim. dir. e proc. Civ., 2005, 4, 1313).

La non necessità della fissazione di un'udienza ad hoc per la precisazione delle conclusioni è sostenuta da sempre in giurisprudenza. Ha infatti specificato la Corte Suprema che la rimessione in decisione non è subordinata al fatto che abbia luogo una udienza apposita, e che l'omissione dell'invito a precisare le conclusioni non cagiona nullità alcuna, tutt'al più una mera irregolarità che non inficia l'ulteriore corso del giudizio, poiché tale invito non è per l'appunto previsto a pena di nullità e la sua mancanza non lede, di regola, il principio del contraddittorio, rimanendo comunque possibile per i litiganti precisare le proprie conclusioni prima dell'invio della causa al collegio (Così Cass. Civ. Sez. I, 10 novembre 2006, n. 24041). Analoga impostazione era seguita anche in base al vecchio rito (Cfr. Cass. Civ. Sez. I, 10 gennaio 2003, n. 142).

Invero, soprattutto con riferimento al regime dell' (omissione dell')invito a precisare le conclusioni, la giurisprudenza appariva poco compatta. Così, in un primo momento la Suprema Corte, dopo aver ribadito che non era affatto necessaria un'apposita udienza di p.c., ha ritenuto che l'omissione dell'invito (momento che logicamente si colloca prima dell'eventuale udienza di p.c.), se considerata come fattispecie di nullità della sentenza, si sarebbe atteggiata a motivo d'impugnazione della decisione (Cass. Civ. Sez. I, 23 ottobre 1992, n. 11574). Successivamente, la Corte di legittimità ha sostenuto la tesi della nullità della sentenza emessa in assenza di invito alla precisazione delle conclusioni, sempre convertibile in motivo d'impugnazione ex art. 161, comma 1, c.p.c., ma soltanto se la parte avesse dato dimostrazione del pregiudizio al diritto di difesa inferto dall'omissione stessa (Cass. Civ. Sez. I, 30 giugno 1997, n. 5837).

Con riferimento alla disciplina del rito nelle cause di competenza del giudice di pace, recentemente la Cassazione ha confermato la non necessità della fissazione di un'udienza ad hoc, aggiungendo che la sentenza emessa in mancanza di invito alle parti alla precisazione delle conclusioni è nulla per violazione del diritto di difesa. Inoltre, se di tale nullità si ravvede il giudice d'appello (ovviamente previa proposizione della questione con il mezzo d'impugnazione), egli deve accogliere la doglianza e decidere nel merito rinnovando l'attività illegittimamente omessa dal giudice di primo grado, non essendo tale ipotesi di nullità inquadrata tra quelle tassativamente indicate dall'art. 354 c.p.c. per i casi di rimessione al giudice di prime cure (Cass. Civ. Sez. II, 23 dicembre 2011, n. 28681).

Il maggior rigore della giurisprudenza che, in parte qua, pare mergere rispetto al rito dinanzi al giudice togato, è probabilmente dovuto alla più accentuata elasticità, in punto di allegazioni e preclusioni, del giudizio davanti al magistrato onorario, sicché possa risultare più importante, a tutela del diritto di difesa, cristallizzare le richieste definitive in sede di p.c.

Tra l'altro, la S.C. ha avuto modo di affermare che, se dopo la udienza di p.c. venga sostituito il g.i. da altro magistrato nei confronti del quale sia stata presentata istanza di ricusazione, e tale istanza sia stata dichiarata inammissibile, non deve essere fissata una nuova udienza di precisazione delle conclusioni (Cass. Civ. Sez. III, 13 novembre 2009, n. 24047).

Detto questo, la pratica di fissare tale udienza trova allora la sua legittimazione normativa nel generale potere di direzione del procedimento, previsto in capo al g.i. dall'art. 175 c.p.c. A questo proposito è possibile ricordare che qualche anno fa è stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 352 c.p.c. “nella parte in cui non prevede, o perlomeno non consente, la fissazione di una nuova udienza di precisazione delle conclusioni per contrasto con gli artt. 3, comma 1°, 24, comma 2°, 111, comma 2° (come modificato dalla legge cost. 23 novembre 1999, n. 2) della costituzione". La risposta della Corte costituzionale, sancendo l'inammissibilità della questione, è andata nel senso che l'art. 352 c.p.c non si ponga in contrasto col generale potere di direzione del procedimento previsto in capo al giudice, per l'appunto dall'art. 175, non esprimendo alcun divieto di fissazione di una specifica udienza di p.c.

Ora, il problema principale è che il più delle volte i giudici fissano tale udienza a notevole distanza di tempo da quella in cui viene disposta la rimessione, con aggravamento dei lunghi tempi dell'attività giurisdizionale civile. Sicché è lecito interrogarsi, attesa la non indispensabilità di tale udienza, circa la effettiva utilità della precisazione delle conclusioni, la sua rilevanza e le ragioni della sua destinazione (a lungo termine) ad un'udienza apposita.

Le novità deducibili in sede di precisazione delle conclusioni

L'art. 189 c.p.c. si esprime nel senso che la precisazione delle conclusioni deve svolgersi nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o alla prima udienza di trattazione o, ancora, nelle memorie scritte ex art. 183, comma 6. Quindi, ai sensi dell'art. 189 c.p.c., l'attività prevista è quella della sola precisazione delle conclusioni, mentre in base alla disciplina dell'art. 183 per le parti, non solo in prima udienza ma anche nella prima memoria del comma sesto dello stesso articolo, è possibile precisare e modificare anche domande ed eccezioni (c.d. ius poenitendi).

Nel sistema ante riforma del 1990, invece, era possibile la modificazione delle domande e delle eccezioni nel corso del processo sino all'udienza di p.c. (c.d. emendatio libelli), ed inoltre le Sezioni Unite erano arrivate ad avallare anche la proposizione, in tale sede, di domande nuove (c.d. mutatio libelli), laddove la controparte accettasse rispetto ad esse il contraddittorio (Cass. Sez. Un., 22 maggio 1996, n. 4712). È evidente che, sulla base della disciplina processuale scaturita dalla riforma del 1950, la precisazione delle conclusioni rivestiva un ruolo tutt'altro che trascurabile nella dialettica tra le parti e nella definizione del thema decidendum.

Tale utilità sembra essersi perduta a seguito della Legge 26 novembre 1990, n. 353, da cui l'attuale formulazione dell'art. 189 c.p.c. Ed in dottrina ci si è espressi sia nel senso di ritenere la precisazione delle conclusioni un momento processuale ormai del tutto svuotato, sia nell'ottica di mantenere una ragion d'essere dell'istituto (per i vari riferimenti, si rinvia a DAMIANI, cit.).

Attualmente, all'udienza di p.c. non deve essere svolta alcuna attività di allegazione di fatti non precedentemente inseriti nel processo (nel senso che l'attività di precisazione, essendo un quid minus rispetto alla modifica, non comporta di regola l'allegazione di fatti nuovi si veda Cass. Civ. Sez. II, 4 novebre 1993, n. 10930), né di (nuove) richieste istruttorie, giacché ci si limita ad intervenire sulle conclusioni, ossia sulle richieste specifiche (anche di prove) che le parti presentano al giudice in base alle rispettive domande ed eccezioni, così come plasmate nella dialettica processuale dalla fase introduttiva a quella ex art. 183 c.p.c.

Infatti, l'attività di modifica consentita consiste, in linea generale, quanto alle domande nella deduzione di nuovi fatti storici principali non individuatori del diritto fatto valere (finanche un'ulteriore fattispecie costitutiva, in caso di diritti c.d. autoindividuati, quali i diritti reali) o in interventi qualitativi o quantitativi sul petitum (salvo valutare se solo in diminuzione, o se anche in aumento); quanto alle eccezioni, nell'allegazione sia di fatti semplicemente modificati sia di fatti nuovi (purché si tratti di eccezioni rilevabili d'ufficio, atteso l'onere di rilevazione dell'eccezione in senso stretto nella comparsa di risposta e salva l'ipotesi eccezionale della proposizione di un'eccezione in senso stretto oltre i termini della comparsa per esigenze di contraddittorio), ché, tanto, per definizione la portata oggettiva dell'eccezione è ricompresa nell'ambito del diritto fatto valere, sicché non si verifica un ampliamento oggettivo del giudizio (in questo senso LUISO, Diritto processuale civile, II, Milano, 2007, 38; contra CECCHELLA, Il nuovo processo civile, Il Sole 24 ore, 2009, 50, secondo il quale non sembra ammissibile l'allegazione di una eccezione di diversa natura, legittimando l'attività di modifica solo la deduzione di un nuovo fatto solo quando esso sia già ricompreso in quello già allegato. Secondo BALENA, Elementi di diritto processuale civile, II, Bari, 2006, 61, la modifica di un'eccezione consiste nella deduzione di un diverso fatto solo se si tratti di eccezione riconvenzionale relativa ad un (contro)diritto autoindividuato).

L'attività di precisazione di domande ed eccezioni consiste invece nella allegazione di fatti secondari (contra CECCHELLA, cit., 50, secondo il quale l'allegazione di fatti secondari atterrebbe all'attività di modifica) o comunque nella specificazione delle circostanze relative ai fatti e al petitum già dedotti, lasciando intatti quest'ultimo e la causa petendi.

Peraltro non è affatto semplice tracciare la linea di confine tra modifica e precisazione, aspetto che però esula dall'oggetto specifico del presente scritto.

Con riguardo alle conclusioni, l'attività è quella vòlta per così dire ad aggiustare il tiro, a meglio specificare le richieste fatte al giudice sulla base dei progressivi interventi modificativi e di precisazione sulle domande ed eccezioni.

Pertanto è entro i limiti così tracciati nella dinamica del processo che è possibile precisare le conclusioni prima del passaggio alla fase decisoria.

Per coloro che ritengono che la precisazione delle conclusioni ex art. 189 c.p.c. mantenga una propria utilità in punto di interventi di parte sul thema decidendum, è possibile dare rilievo ad alcune attività non trascurabili in sede di p.c., nei limiti di quanto dedotto ex art. 183 c.p.c.: ad esempio, rinunciare a qualche richiesta, ridurre il petitum (in senso quantitativo e qualitativo, come nel caso del passaggio da una domanda di condanna ad una di mero accertamento), qualificare gli stessi fatti con una diversa prospettazione giuridica (v. DAMIANI, cit.).

Senonché, si è rilevato, queste stesse attività ben potrebbero essere poste in essere mediante lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica ex art. 190 c.p.c. In quest'ottica, poi, si configurerebbe a fortiori come attività priva di senso la precisazione delle conclusioni appello, basandosi il giudizio di gravame su domande, eccezioni e conclusioni già presentate nella fase precedente. E analogo discorso, del resto, dovrebbe muoversi circa la precisazione delle conclusioni nel giudizio di rinvio, ove ex art. 394, comma 3, non possono essere formulate conclusioni diverse da quelle precisate nel giudizio in cui è stata emessa la sentenza cassata (v. ancora DAMIANI, cit.).

Invero, con riferimento alle modifiche concernenti il quantum oggetto di petitum, in dottrina pare non sia pacifico il profilo relativo a quello che, per così dire, potrebbe essere definito il raggio d'azione della parte rispetto alle variazioni quantitative del petitum. Per alcuni all'udienza di p.c. è possibile effettuare variazioni sia verso il basso sia verso l'alto (LUISO, cit., 165); per altri, invece, è ammessa solo la riduzione del quantum richiesto (BALENA, cit., 179; secondo MANDRIOLI, Diritto processuale civile, II, Torino, 2006, 149, è possibile aumentare la somma richiesta nal caso di sopravvenienza di norme o di fatti).

La Suprema Corte, negli ultimi anni, ha avuto modo di affermare e ribadire che le variazioni puramente quantitative del petitum, anche in aumento, sono ammissibili perché non determinano alcuna violazione del principio del contraddittorio, né menomazione del diritto di difesa dell'altra parte, laddove non modifichino i termini sostanziali della causa e non siano veicolo d'introduzione di nuovi temi d'indagine (Cass. Civ. Sez. II, 20 gennaio 2009, n. 1373; Cass. Civ. Sez. III, 24 agosto 2007, n. 17977). Tale impostazione è stata in qualche modo confermata allorché la Cassazione ha sostenuto che la formula “somma maggiore o minore ritenuta dovuta” o altra equivalente che accompagna la richiesta di condanna ad una certo importo, in linea generale, non è formula di stile quando l'ammontare della prestazione non è facilmente determinabile (per es. in caso di danno di difficile liquidazione), ma lo diventa se ripetuta in sede di precisazione delle conclusioni accanto all'importo originariamente richiesto, senza menzionare la maggior somma nel frattempo accertata anche mediante espletamento di CTU (Cass. Civ. Sez. II, 16 marzo 2010, n. 6350). Pertanto è possibile aumentare in sede di precisazione delle conclusioni il petitum, purché in maniera specifica, adattandolo alle risultanze istruttorie del processo.

Secondo autorevole dottrina, è possibile poi intervenire sul petitum immediato, all'udienza di p.c., modificando il tipo di provvedimento richiesto al giudice (LUISO, cit., 165).

È interessante poi una pronuncia del giudice della legittimità in materia di regolamento di confini. In tale arresto si afferma che, nell'azione di regolamento di confini, l'attore non è tenuto a proporre un'espressa domanda di rilascio della porzione di terreno occupata dalla controparte, essendo questa implicita nell'azione. Quindi, se la richiesta di rilascio è avanzata in sede di p.c. non si configura una domanda nuova inammissibile (Cass. Civ. Sez. II, 22 febbraio 2011, n. 4288).

Inoltre, la precisazione delle conclusioni ex art. 189 c.p.c. costituisce l'ultimo momento utile per presentare la domanda di danni per responsabilità aggravata a seguito di espressioni sconvenienti e offensive (Cass. Civ. Sez. III, 11 maggio 2007, n. 10840).

La rilevanza della p.c. e il problema della rinuncia e della riproposizione di istanze

Per quanto riguarda la rilevanza della precisazione delle conclusioni, com'è noto ad essa si fa coincidere il referente temporale del giudicato di merito con riferimento alla quaestio facti (con relativa preclusione del dedotto e del deducibile fino a tale momento), nonché la “piattaforma” delle richieste definitive delle parti sulla cui base determinare la soccombenza, ai fini dell'eventuale impugnazione. E circa quest'ultimo aspetto, emerge il problematico profilo relativo alla rinuncia delle domande in sede di p.c.

In linea generale, la soluzione adottata dalla giurisprudenza è nel senso che la mancata riproposizione di istanze all'udienza di p.c. legittima una mera presunzione di abbandono delle stesse, dovendo il giudice del merito, a cui spetta interpretare la volontà della parte e il contenuto specifico delle istanze, accertare se, in base alla condotta processuale delle parti o dalla connessione tra la domanda (ri)proposta e quelle non reiterata, sia possibile individuare una volontà non equivoca di confermare le istanze non esplicitamente ripresentate (Da ultimo, Cass. Civ. Sez. III, 3 febbraio 2012, n. 1603). Tale presunzione peraltro non opera se il g.i. invita a precisare le conclusioni in ordine ad una questione preliminare di merito o pregiudiziale di rito (Cass. Civ. Sez. III, 28 giugno 2006, n. 14964).

L'accertamento operato dal g.i. circa l'effettiva volontà della parte in punto di rinuncia o mantenimento di istanze non espressamente riproposte all'udienza di p.c., è insindacabile in sede di legittimità, se sorretto da congrua e logica motivazione (Cass. Civ. Sez. I, 16 maggio 2007, n. 11315).

La mera presunzione di abbandono, inoltre, vale anche per l'eventuale giudizio di rinvio, ove è bensì esclusa la possibilità per le parti di formulare domande ed eccezioni nuove, ma è fatta salva la possibilità di reiterare o meno tutte le conclusioni in precedenza rassegnate (Cass. Civ. Sez I, 26 gennaio 2007, n. 1754).

In ordine al cumulo oggettivo in materia di danni, la Suprema Corte ha affermato che, in caso di proposizione di più domande risarcitorie ritenute connesse, laddove queste abbiano ad oggetto fattispecie di illecito effettivamente diverse, da accertare mediante indagini diversificate, la mancata richiesta, in sede di p.c., dell'accertamento di tutte le illiceità in precedenza denunciate, consente di presumere l'abbandono delle istanze non riproposte (in assenza di condotte che rendano evidente una volontà di avviso contrario), salvo che la connessione tra le domande sia tale che la decisione di una presupponga, in fatto, l'accertamento anche sull'altra (Cass. Civ. Sez. II, 14 agosto 2007, n. 17683).

Relativamente al comportamento del difensore della parte, se quest'ultimo non si presenta all'udienza di p.c. o, presentandosi, si limita a precisare le conclusioni in modo generico (se non addirittura a non precisarle), opera la presunzione secondo la quale la parte ha voluto tenere ferme le istanze precedentemente avanzate, a nulla valendo che poi, nella comparsa ex art. 190 c.p.c., alcune di esse non siano menzionate, in quanto la natura meramente illustrativa della comparsa conclusionale non consente di poter legittimamente ragionare in termini di presunzione di abbandono delle conclusioni precedentemente formulate (Cass. Civ. Sez. III, 12 gennaio 2006, n. 409). D'altro canto, laddove il procuratore precisi le conclusioni in maniera specifica, le domande e le eccezioni non riproposte, quando non si riconnettano strettamente con altre reiterate o dalla condotta della parte non risulti l'inequivoca volontà di tenerle ferme, si intendono rinunciate, sussistendo in capo al difensore il potere di rinunciare ad un singolo capo della domanda o di riduzione delle domande originarie. Trattasi di rinuncia ben differente da quella rilevante ai sensi dell'art. 306 c.p.c., la quale può provenire dalla parte soltanto (Cass. Civ. Sez. II, 8 gennaio 2002, n. 140).

Inoltre, ad avviso della giurisprudenza integra gli estremi della domanda nuova (come tale inammissibile nell'attuale regime processuale) l'istanza precedentemente rinunciata in sede di p.c. e

successivamente, a seguito di remissione in istruttoria, riproposta nelle conclusioni definitive (Cass. Civ. Sez. I, 7 marzo 2007, n. 5215).

In punto di istanze istruttorie, la Cassazione ritiene che la parte debba espressamente riproporre, all'atto della precisazione delle conclusioni, le istanze di prove già rigettate dal g.i., poiché in caso contrario le stesse si considerano abbandonate e divengono non più riproponibili in appello, a nulla valendo ogni indagine sull'effettiva volontà della parte interessata (Cass. Civ. Sez. III, 27 aprile 2011, n. 9410).

Più in generale, è alla udienza di p.c. che le parti devono riproporre al giudice (collegiale o monocratico) tutte le questioni decise con ordinanza revocabile (Cass. Civ. Sez. II, 14 aprile 2004, n. 7055).

Sembra emergere, da questa ultima breve rassegna giurisprudenziale, che la precisazione delle conclusioni (e, di fatto, la relativa udienza) rivesta invero un ruolo centrale, una sorta di fondamentale momento spartiacque tra la fase di trattazione e la fase decisoria. Pare cioè che tale momento processuale sia per la giurisprudenza non così irrilevante come parte della dottrina sostiene, sia per ciò che attiene alle possibili variazioni apportabili al thema decidendum, sia per quanto concerne la determinazione definitiva delle istanze (anche istruttorie) su cui il giudice dovrà decidere e sulle quali misurare, in seguito, l'eventuale soccombenza a fini impugnatori.

D'altro canto, sempre secondo l'orientamento della S.C., le comparse conclusionali hanno la mera funzione di illustrare le ragioni di fatto e di diritto sulle quali si basano le domande e le eccezioni in precedenza proposte, sicché non possono in alcun modo contenere elementi nuovi che comportino un ampliamento del thema decidendum, a nulla valendo l'accettazione del contraddittorio rispetto alla eventuale formulazione, nelle comparse di cui all'art. 190 c.p.c., di domande nuove (Cass. Civ. Sez. III, 14 marzo 2006, n. 5478).

Le possibili ragioni della fissazione dell'udienza di p.c. a lungo termine

Ma perché la prassi continua a prevedere per la precisazione delle conclusioni la fissazione di un'apposita udienza (quasi sempre) a notevole distanza di tempo dalla rimessione?

Nell'ottica di dare una possibile risposta al quesito, in dottrina (DAMIANI, cit.) si è proposto un ragionamento il cui percorso comincia valutando quello che avveniva prima della riforma del 1990. Anteriormente alla novella di cui alla Legge 26 novembre 1990, n. 353, infatti, i giudici erano soliti fissare a lunga distanza temporale la udienza di discussione collegiale, ossia l'ultima udienza prima della decisione. Da lì decorrevano poi i 30 giorni entro i quali doveva essere depositata la sentenza. Si è così rilevato che, in tale sistema, la fissazione a lungo termine della udienza collegiale era strumentale alla preparazione della sentenza, in particolare alla stesura della motivazione, vero e autentico “collo di bottiglia” nella tempistica della definizione delle controversie civili.

Con la riforma del 1990, la udienza di dicussione è divenuta eventuale e facoltativa, tuttavia ciò non ha risolto le problematiche che si erano venute a creare in precedenza, giacché il “collo di bottiglia” continuava ad essere rappresentato dalla stesura della motivazione. Sicché i giudici, potendo non sapere affatto - fino alla precisazione delle conclusioni - se le parti avrebbero o meno richiesto la fissazione dell'udienza di discussione, hanno optato per la disposizione a lungo termine della udienza di p.c., (possibile) ultimo momento d'incontro tra i soggetti in lite e il magistrato prima della emanazione della decisione, dato che da essa decorrono poi i 60 giorni per il deposito delle comparse conclusionali, più altri 20 per le memorie di replica, più ulteriori 60 (o 30, in caso di decisione monocratica) per il deposito della sentenza, termine oltre il quale al giudicante non è dato andare, potendo altrimenti incappare in una fattispecie di responsabilità disciplinare.

Ecco perché, in fondo, i giudici preferiscono rinviare a distanza (sovente) di diversi anni la udienza di precisazione delle conclusioni.