La relazioneLa revocatoria fallimentare
di Claudio Cecchella
(Relazione al Convegno “La riforma del diritto fallimentare”
Perugia, 11-12 aprile 2008)
Sommario: 1. L’intervento attenuato della riforma sull’inquadramento tradizionale dell’azione revocatoria fallimentare. 2. La persistente ratio di tutela della par condicio dell’azione revocatoria fallimentare comparata con la ratio indennitaria dell’azione revocatoria ordinaria. 3. La cessione dell'azione revocatoria. 4. Le esenzioni dall'azione revocatoria. 5. Le rimesse in conto corrente. 6. Gli atti tra coniugi e l’abrogazione della presunzione muciana. 7. Il carattere residuale della revocatoria ordinaria e i riflessi del concorso. 8. Lo scampato pericolo di un rinvio al rito camerale.
1. L’intervento attenuato della riforma sull’inquadramento tradizionale dell’azione revocatoria fallimentare.
La riforma dell’azione revocatoria è dovuta, oltre al d. lgs. n. 5 del 2006 e in parte minimale al d. lgs. n. 169 del 2007, soprattutto alla legge n. 80 del 2005.
L’intervento, contrariamente alle aspettative di alcuni interpreti, sostenitori della teoria c.d. indennitaria, tesa ad assimilare l’azione fallimentare a quella ordinaria in un'unica ratio di tutela della garanzia patrimoniale contro i danni ad essa provocati dagli atti di disposizione dell’imprenditore (“eventus damni”), la quale aveva enormi difficoltà di radicarsi su solide basi positive nel recente passato, non ha sovvertito l’inquadramento dogmatico e sistematico dell’istituto, il quale continua, anche dopo le novelle susseguitesi nel tempo, a contraddistinguersi per la sua specialità rispetto all’omologo di diritto comune.
L’intervento della riforma ha forse limitato le conseguenze estreme della c.d. teoria antidennitaria, che prescinde nell’inquadramento della fattispecie postulata dall’azione da un pregiudizio alla garanzia patrimoniale, investendo l’istituto della sola ed esclusiva tutela della par condicio creditorum, bene che pone su un piano di totale irrilevanza l’eventus damni, ma non introduce una disciplina positiva da cui possa prendere le mosse una soluzione di continuità nell’inquadramento tradizionale, particolarmente dovuto all’esperienza giurisprudenziale.
Infatti il legislatore della riforma si limita:
- ad intervenire sull’art. 67, 1° e 2° comma, dimezzando i “periodi sospetti” all’interno dei quali il perfezionamento dell’atto è passibile di inefficacia, come risultato dell’accoglimento dell’azione costitutiva;
- ad introdurre nella citata disposizione, nel suo 3° comma, una serie di specialissime esenzioni la cui ratio è variamente espressa, dalla tutela di creditori “deboli” come gli acquirenti della prima casa o i lavoratori; alla tutela della autonomia (concordati stragiudiziali e giudiziali) come modalità alternativa per la risoluzione della crisi dell’impresa; alla diminuzione degli effetti perversi dell’azione quando ha ad oggetto le rimesse nel conto corrente bancario o i pagamenti nei termini d’uso (quest’ultima soltanto, come vedremo, nella direzione di un’attenuazione degli effetti estremi della teoria antindennitaria);
- a coordinare la previsione di una disciplina fallimentare dei patrimoni separati con gli effetti dell’azione revocatoria, art. 67 – bis;
- ad abrogare la c.d. presunzione muciana (art. 70) e a riscrivere la disposizione sugli atti di disposizione tra i coniugi (art. 69), in coerenza con un trentennio di giurisprudenza che ha tentato di coordinare la disciplina fallimentare con la riforma del diritto di famiglia;
- a regolare decadenze e prescrizioni, innanzi alla lacuna del recente passato, art. 69 – bis;
- a far trasmigrare la disposizione sugli effetti della revocatoria per il terzo contraente, oggi inserita nell’art. 70, e non più nell’abrogato art. 71.
Altre disposizioni si rinvengono nella disciplina dei concordati (art. 124, 4° comma) e della liquidazione dell’attivo (art. 106) e regolano la cessione dell’azione revocatoria, istituto peraltro già noto nel regime previgente e che sarà trattato autonomamente (cfr. par. 3).
Si tratti di interventi, che per un verso traducono e razionalizzano orientamenti consolidati in giurisprudenza (la disciplina degli atti tra e dei coniugi; la disciplina di decadenze e prescrizioni) oppure tutelano valori e principi nuovi, come la tutela dell’acquisto della prima casa oppure del pagamento dei lavoratori oppure, ancora, di una risoluzione privata della crisi dell’impresa, ma che intervengono in modo assai attenuato sui valori sottesi alla disciplina positiva dell’azione dovuti all’impianto originario, come dicevamo, solo per attenuare gli effetti estremi della teoria antindennitaria, escludendo dalla revocatoria i paganti nei termini d’uso e le rimesse in conto corrente che non riducono in modo consistente e duraturo l’esposizione e limitando comunque le conseguenze di un suo accoglimento oppure riducendo i periodi “sospetti”.
Si deve infatti dire che il persistente inquadramento speciale dell’azione revocatoria fallimentare, volta a tutelare in via esclusiva il bene della proporzionalità degli effetti dell’insolvenza sul ceto creditorio, nella disciplina previgente poteva condurre a risultati perversi, destinati a minare le residue basi di risanamento dell’impresa innanzi ad una crisi ancora reversibile, laddove venivano colpiti anche atti ordinari di conduzione dell’impresa come i pagamenti e il periodo sospetto si prolungava nel tempi sino a due anni dalla dichiarazione di fallimento, minando le basi di sicurezza dei rapporti contrattuali dell’imprenditore e l’affidamento del contraente (non si dimentichi ad esempio che in Germania il periodo sospetto si riduce a tre mesi con esclusione degli atti ordinari di gestione; e nei paesi di common law a sei mesi).
Poi i rischi discendenti dagli effetti perversi della revocatoria delle rimesse in conto corrente, in termini, per l’ipotesi più favorevole, di controllo rigido della banca sugli sconfinamenti o, per quella meno favorevole, di “gestioni” del conto destinate a prolungare nel tempo l’agonia dell’impresa verso un decesso certo, sono scongiurati dalla attenuazione dei presupposti ed effetti dell’azione, anche se qualche commentatore ideologicamente orientato ha interpretato l’intervento solo come un favore verso l’impresa bancaria.
2. La persistente ratio di tutela della par condicio dell’azione revocatoria fallimentare comparata con la ratio indennitaria dell’azione revocatoria ordinaria.
Pertanto devono essere ribadite le specialità dell’azione, se comparate con la tutela del creditore fuori dall’insolvenza.
Se il rapporto obbligatorio si colloca nel contesto di una relazione tra privati non imprenditori oppure corre con un imprenditore non insolvente, il principio della parità dei creditori nel soddisfacimento del credito con l’escussione del patrimonio del debitore resta sullo sfondo della tutela giurisdizionale che è abbandonata all’iniziativa dei singoli creditori, i quali possono giovarsene soltanto se si attivano mediante atti di impulso individuale, nelle forme del processo cautelare conservativo o di condanna esecutiva oppure utilizzando i mezzi di tutela della garanzia patrimoniale innanzi all’inerzia del debitore nell’esercizio dei diritti (azione surrogatoria) o alla attività del debitore pregiudizievole per la garanzia patrimoniale (azione revocatoria).
La riprova scaturisce dalla disciplina degli interventi tempestivi e non tempestivi dei creditori nell’esecuzione singolare, che presuppongono una tutela esecutiva o cautelare del credito (art. 499 c.p.c.), e negli effetti del sequestro conservativo e dell’azione revocatoria ordinaria, limitati al creditore che agisce e di cui non possono giovarsi gli altri creditori.
Quando si perfeziona invece la fattispecie che da origine alla applicazione del diritto concorsuale, ovvero il rapporto corre con un imprenditore insolvente, la cui insolvenza è accertata giudizialmente, il principio della par condicio assurge a ragione esclusiva del sistema, il quale assume, ancora una volta, una regola dalla scienza economica, secondo la quale, per la stabilità del mercato e del sistema economico, è opportuno che l’insolvenza dell’imprenditore si distribuisca in maniera equa e proporzionale sul patrimonio di tutti i creditori.
Si tratta di un principio di ordine pubblico, che necessita di un'effettività che prescinde da un'iniziativa spontanea del creditore.
Nel diritto concorsuale l’attuazione del trattamento paritario dei creditori infatti non è più abbandonata all’impulso individuale, ma costituisce la finalità principale dell’azione dell’organo fallimentare e giustifica istituti come il divieto di azioni individuali o la partecipazione necessaria al riparto, ma incide particolarmente sulla disciplina e la ratio dell’istituto dell’azione revocatoria, esercitata dal curatore e di cui si possono giovare tutti i creditori.
L’azione revocatoria ordinaria, la cui disciplina comune l’interprete trae dagli artt. 2901 e ss. c.c., ha lo scopo di reintegrare la garanzia patrimoniale dalle aggressioni che hanno matrice negli atti di disposizione del debitore (quando l’atto di disposizione non è ancora perfezionato l’effetto di preservare il patrimonio del debitore è da ricercare nell’azione cautelare del sequestro conservativo e, qualora il creditore sia già munito di un titolo esecutivo, nell’azione esecutiva mediante pignoramento).
L’azione presuppone, pertanto, che attraverso l’atto di disposizione si rechi pregiudizio al creditore ovvero si alteri qualitativamente o quantitativamente la garanzia patrimoniale. Sotto il primo profilo perché le componenti del patrimonio si modificano rendendo anche solo più difficile l’azione del creditore (ad esempio un bene immobile viene sostituito con denaro, meno facilmente aggredibile perché occultabile all’escussione del creditore). Sotto il secondo profilo perché le componenti del patrimonio sono diminuite per l’alienazione di un diritto oppure per l’acquisizione di un obbligo (il legislatore esemplifica mediante le prestazioni di garanzie, anche a favore di terzi, cfr. l’art. 2901, 2° comma, c.c.).
Si tratta del danno patrimoniale (“pregiudizio alle sue ragioni”, art. 2901, 1° comma c.c.), il cui onere della prova, come fatto costitutivo, è a carico del creditore che agisce, all'origine del diritto di privare di effetti, mediante sentenza costitutiva, l’atto di disposizione del debitore, nel senso di riaprire per il creditore la prospettiva di una aggressione esecutiva sul suo oggetto (art. 2902, 1° comma, c.c.). Il creditore è titolare di un diritto potestativo, il cui esercizio è tuttavia mediato da un provvedimento giudiziale avente natura costitutiva (ovvero non può escutere il bene oggetto dell’atto di disposizione senza la declaratoria giudiziale).
Se l’atto di disposizione è dovuto, perché costituisce l’adempimento di un rapporto obbligatorio, come nel caso del pagamento di un debito scaduto (art. 2901, 3° comma, c.c.), è escluso dall’ambito di applicazione dell’azione revocatoria, perché incide legittimamente sul patrimonio del debitore (questa è la riprova di quanto la par condicio non sia, fuori dell’insolvenza dell’imprenditore, principio a cui l’ordinamento attinge in via esclusiva). Così è da ritenere un atto di disposizione di un bene il cui ricavato è destinato integralmente a soddisfare creditori muniti di prelazione e garantiti dal bene compravenduto.
Naturalmente l’illecito perfezionato mediante l’atto di disposizione, come ogni altro illecito, accanto ad un elemento materiale deve manifestarne uno soggettivo, che la legge (art. 2901, 1° comma, n. 1 c.c.) traduce in un dolo generico, ovvero nella semplice consapevolezza di arrecare pregiudizio e, nel caso di atto a titolo oneroso perfezionato anteriormente al sorgere del credito, in un dolo specifico (la preordinazione dolosa).
Il legislatore correttamente si pone anche dal punto di vista di chi contrae con il debitore, tutelando l’affidamento ed escludendo dagli effetti della revocatoria i terzi inconsapevoli che ignorano il pregiudizio arrecato dall’atto di disposizione (art. 2901, 1° comma, n. 2 c.c.). Tale tutela tuttavia si arresta innanzi al carattere non oneroso dell’atto di disposizione (è il caso degli atti di liberalità, ove è irrilevante lo stato soggettivo del terzo). Invece nel caso degli atti a titolo oneroso, oltre al dolo del debitore, come elemento costitutivo del diritto è richiesta la consapevolezza del pregiudizio o la partecipazione alla dolosa preordinazione (nel caso in cui il credito insorga successivamente all’atto di disposizione).
E’ ugualmente tutelata la buona fede dell’avente causa del terzo contraente, i cui elementi coincidono con lo conoscenza del carattere revocabile dell’atto del suo dante causa, buona fede da escludersi, nel caso di alienazione di beni immobili, quando la domanda revocatoria del creditore è trascritta anteriormente alla trascrizione dell’atto di disposizione (art. 2902, 2° comma, c.c.).
Il terzo contraente, ad ulteriore riprova della minore attenzione verso la par condicio, ancorché abbia subito delle diminuzioni patrimoniali aventi causa nell’atto di disposizione e sia quindi titolare di un diritto alle restituzioni a seguito dell’accoglimento dell’azione revocatoria, non è trattato come un comune creditore e vede la sua situazione collocata in una posizione deteriore, potendo soddisfarsi esclusivamente all’esito dell’azione del creditore (art. 2902, 2 comma c.c.).
A seguito della dichiarazione di fallimento, che accerta l’insolvenza dell’imprenditore commerciale, la par condicio assume un ruolo assolutamente centrale e l’ordinamento, come regola di ordine pubblico, distribuisce su tutto il ceto creditorio le conseguenze dell’insolvenza, non potendo tollerare che alcuni creditori possano avvantaggiarsi rispetto ad altri, in un’accezione assai lata del ceto creditorio, ricomprendendovi anche il terzo contraente, che a seguito dell’accoglimento dell’azione revocatoria diventa titolare di un credito alla restituzione della prestazione.
Ne risulta, come effetto dell’applicazione del diritto concorsuale alla fattispecie dell’imprenditore commerciale insolvente, la modifica degli elementi costitutivi e quindi inevitabilmente della ratio dell’azione revocatoria.
Quest’ultima non attinge più alla esigenza di reintegrare la garanzia patrimoniale nelle sue componenti qualitative e quantitative originarie, che è obiettivo assolutamente sullo sfondo della tutela, essendo prioritario lo scopo di ristabilire la parità ovvero l’equa distribuzione degli effetti dell’insolvenza presso i debitori.
La prova di tale intensa modificazione dell’azione revocatoria è nella estensione della tutela, che non trascina nella sfera dell’inefficacia i soli atti che inducono un pregiudizio alle ragioni dei creditori, ma anche gli atti che alterano la par condicio e che non sarebbero revocabili secondo la disciplina comune. Ad esempio i pagamenti di debiti scaduti (art. 67, 2° comma) o gli atti di disposizione ancorché destinati a soddisfare integralmente i creditori che hanno garanzia sul bene di cui si è disposto. Anche gli atti della gestione ordinaria dell’impresa, ovvero le vendite o acquisti a prezzo pieno, benché astrattamente inidonei ad alterare la garanzia patrimoniale perché nell’ipotesi peggiore conservano la dimensione originaria del patrimonio, se compiuti dall’imprenditore insolvente poi dichiarato fallito sono revocabili. Neppure la previsione dell'art. 67, 3° comma, di un'esenzione dalla revocatoria fallimentare dei pagamenti nei termini d'uso (quindi dei soli pagamenti e non delle vendite o degli acquisti), inficia il ragionamento.
L’azione, quindi, non rinviene tra i suoi elementi costitutivi quel pregiudizio alla garanzia patrimoniale che invece è presupposto del diritto a rendere inopponibile l’atto al creditore nella revocatoria di diritto comune. La tutela al contrario muove dal semplice compimento dell’atto di disposizione in una situazione di insolvenza e prescinde o relega in una posizione di mera irrilevanza l’eventus damni.
Ha invece rilievo un altro presupposto: il perfezionamento dell'atto quando l'imprenditore è insolvente, perché quello è il momento in cui si realizza il disegno di alterare la par condicio, non essendo più l'imprenditore libero nelle sue manifestazioni di autonomia ma costretto dalla necessità di far fronte alla sua crisi di liquidità, alla impossibilità di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni.
Tuttavia il momento in cui l’impresa entra in stato di insolvenza è evento incerto e la dichiarazione di fallimento sopravviene in un tempo indefinito senza che l’accertamento, compiuto nel procedimento che la precede, individui il tempo in cui può definirsi temporalmente l’insorgere dei primi sintomi di insolvenza (secondo il diverso modello di diritto comparato dell’esperienza francese e belga). Per questa ragione il legislatore ha preferito, per esigenze di certezza, individuare in modo preciso i periodi sospetti, ovvero i periodi nei quali con presunzione iuris et de iure si è manifestata l’insolvenza dell’imprenditore (in una sorta di retrodatazione, ai soli effetti dell’azione revocatoria, degli effetti della dichiarazione di fallimento). I periodi sospetti inoltre, che variano da due ad un anno o a sei mesi dalla dichiarazione di fallimento, sono diversamente regolati in funzione della natura dell’atto di disposizione e del maggior o minor grado di incidere sulla par condicio (cfr. artt. 64, 65, 67 ).
Nel caso di consecuzione di procedure concorsuali, la pratica ha posto il problema del termine in coincidenza del quale matura a ritroso il periodo sospetto. La giurisprudenza di legittimità non ha fatto decorrere il termine soltanto dalla dichiarazione di fallimento, ma dal primo atto di ammissione alla procedura diversa che ha anticipato il fallimento: il decreto di ammissione all’amministrazione controllata (oggi non più esistente) oppure al concordato preventivo.
Era invero più convincente una tesi intermedia che anticipava il termine al solo decreto di ammissione al concordato preventivo il quale a sua volta presupponeva, come il fallimento, lo stato irreversibile di insolvenza (a differenza dell’amministrazione controllata che lo negava e presupponeva la temporanea difficoltà).
Oggi che il concordato preventivo non ha più come presupposto esclusivamente l'insolvenza, bensì la crisi dell'impresa, che è concetto più lato, si pone seriamente il problema di una valutazione indentale del giudice adito con l'azione revocatoria se all'epoca della domanda di concordato fosse o meno già evidente un profilo di insolvenza.
Il legislatore avrebbe potuto più opportunamente chiarire.
Se l’ordinamento regola i criteri legali per la individuazione del momento dell’insorgenza dell’insolvenza, con i criteri poc’anzi enunciati, conservandosi l’esigenza di assicurare la par condicio per tutta la durata del processo concorsuale e sino al suo esaurimento, nulla diceva invece nella disciplina previgente in ordine al termine ultimo di natura prescrittiva o decadenziale, entro il quale l’azione deve essere esercitata (a differenza della regola comune ove l’azione si prescrive in cinque anni dal compimento dell’atto, art. 2903 c.c.).
Nessun diritto tuttavia è destinato a conservarsi nel tempo senza che venga esercitato; in mancanza di una previsione espressa in favore di una prescrizione breve non restava che ipotizzare una prescrizione decennale.
La giurisprudenza si era invece pronunciata per un’applicazione analogica dell’art. 2902 c.c., e quindi riteneva che l’azione si prescrivesse in cinque anni.
Correttamente invece individuava il dies a quo del termine non tanto nel perfezionamento dell’atto di disposizione, quanto nel deposito della sentenza che dichiara il fallimento, poiché in mancanza di quest’ultima non può dirsi ancora perfezionata la fattispecie per l’esercizio dell’azione revocatoria (che presuppone un insolvenza accertata).
Oggi il tema, dopo la novella del 2006, è oggetto di disciplina espressa nell'articolo 69-bis, che contempla il termine di tre anni dalla dichiarazione di fallimento o comunque di cinque anni dal compimento dell'atto. Il chiarimento non può non essere valutato positivamente, ma la perplessità si appunta sul dies a quo del secondo termine, poiché non ha senso ipotizzare un suo decorso prima ancora che l'avente diritto possa giuridicamente esercitare l'azione (che necessita della dichiarazione di fallimento); non può escludersi un profilo di incostituzionalità ex art. 24 Cost della previsione.
Ma anche l’elemento soggettivo dell’illecito si modifica: la consapevolezza del pregiudizio da parte dell’imprenditore è in re ipsa e nasce dalla coscienza dell’insolvenza che l’imprenditore non può non avere. Lo stato soggettivo del terzo corrispondentemente non ha più ad oggetto la generica consapevolezza o la specifica preordinazione dolosa dell’eventus damni (che, abbiano veduto, è irrilevante), ma ha ad oggetto la insolvenza, che, abbiamo veduto, costituisce la ragione d'essere dell’azione revocatoria. Il creditore o il terzo che è stato parte di un atto di disposizione gode di una tutela dell’affidamento che non oltrepassa la soglia della generica consapevolezza che l’imprenditore versasse in stato di insolvenza: se ha trattato con un imprenditore insolvente e ne è cosciente o la sarebbe stato con l'ordinaria diligenza sulla base di indici sintomatici che costituiscono la base di un ragionamento presuntivo, vedrà privare di effetti l’atto di cui è destinatario e sarà allineato agli altri creditori.
Per taluni atti, come quelli a titolo gratuito o, ad essi molto prossimi, come ad esempio i pagamenti di crediti non scaduti e scadenti dopo la dichiarazione di fallimento, la tutela dell’affidamento non ha neppure luogo e innanzi all’intollerabile vantaggio del creditore o del terzo l’ordinamento impone sul piano oggettivo l’inefficacia dell’atto compiuto in stato di insolvenza (artt. 64 e 65), ma qui il regime della revocatoria ordinaria non è dissimile (art. 2901, 1° comma, c.c.).
Per altri atti, c.d. anormali perché non rientrano negli atti che un imprenditore solvente compie e la cui stessa natura è perciò indice di insolvenza, la legge presuppone lo stato di insolvenza, caricando il creditore o il terzo contraente dell’improbo onere di provare la mancanza della scientia decoctionis, è il caso dei contratti a prestazione sproporzionate, dei pagamenti con mezzi anomali, come datio in solutum, e infine delle garanzie non acquisite contestualmente al sorgere del credito, bensì in relazione ad un credito preesistente (cfr. l’ art. 67, 1° comma nn 1, 2, 3 e 4).
Infine, per gli atti c.d. normali, come i pagamenti di debiti scaduti o la costituzione di garanzie contestuali al credito (art. 67, 2° comma), come fatto costitutivo della domanda la prova della scientia decoctionis grava l’attore, ovvero il curatore.
L’analisi delle fattispecie costitutive dei diritti potestativi volti ad inficiare gli effetti dell’atto di disposizione non può non evidenziare, dopo che la insolvenza sia dichiarata con la sentenza di fallimento o con il relativo accertamento nel caso di liquidazione coatta, la diversità dell’azione revocatoria in seno al fallimento rispetto all’azione revocatoria di diritto comune. Ma la diversità non può non avere un significativo riscontro anche sul piano degli effetti, ove ancora sono le esigenze della insolvenza ad imporre la diversa regolamentazione.
Si è insistito sulla riferibilità dei risultati della revocatoria ordinaria al solo creditore agente o al massimo ai creditori intervenuti; nel fallimento al contrario degli effetti della revocatoria esercitata dal curatore si giovano, in forza delle leggi sul concorso, necessariamente tutti i creditori.
Anche il terzo contraente che dall’accoglimento della revocatoria vede costituirsi il diritto di natura obbligatoria alle restituzioni e ai rimborsi è trattato – in contrasto con la diversa disciplina della revocatoria di diritto comune ex art. 2902, 2° comma, c.c. – come un comune creditore e in forza della par condicio partecipa al concorso e perciò può insinuare il relativo diritto al passivo fallimentare (tenore previgente dell'art. 71; norma oggi inserita nel secondo comma dell'art. 70). Questa disposizione più di ogni altra giustifica la diversa ratio della revocatoria fallimentare, fondata sulla par condicio creditorum.
Gli effetti della sentenza che accoglie l’azione revocatoria fallimentare, volti a restituire il bene alla massa attiva del fallimento agli effetti della liquidazione concorsuale, muovono da una sentenza costitutiva e quindi si producono con il suo passaggio in giudicato. La curatela non potrà acquisire in via immediata il possesso e la disponibilità del bene mediante le misure di cui all'art. 25 n. 2 (salvo che rinvenga nel possesso del fallito il bene, che perciò potrà essere oggetto di apposizione dei sigilli e inventariato e l’azione esercitata in via riconvenzionale o mediante eccezione nel giudizio di rivendicazione promosso dal terzo ex art. 103) e dovrà esperire necessariamente l'azione revocatoria.
In caso di accoglimento dell'azione revocatoria non sarà necessario un espresso capo condannatorio alla consegna o al rilascio, a fronte di una corrispondente domanda del curatore, e il curatore potrà fare uso degli strumenti speciali concessi dal concorso, come il decreto di acquisizione ex art. 25 , pur in difetto di tale capo.
Oltre alla restituzione del bene alla liquidazione fallimentare (cui il terzo può ovviare esclusivamente mediante corresponsione di una somma pari al valore del bene al momento dell’atto di disposizione), il soccombente – a partire dalla domanda secondo i principi generali – dovrà restituire i frutti e gli interessi. Qualora non possa essere rilasciato o consegnato il bene, perché perito o ceduto ad un terzo in buona fede, il soccombente sarà tenuto a restituirne il valore al momento dell’atto di disposizione (trattato come debito di valore e non di valuta, da maggiorarsi con la rivalutazione monetaria sino al momento dell’effettivo pagamento). In quest’ultimo caso sarà però necessaria la espressa formulazione di una domanda giudiziale da parte del curatore, il quale chieda il pagamento dell’equivalente.
Ancora sul piano degli effetti, la legge fallimentare tace in ordine al subacquirente, avente causa del terzo che è parte dell’atto di diposizione del fallito. Non vi è ragione per non applicare l’art. 2901, 4° comma, c.c., per il carattere universale della regola ivi contenuta volta a tutelare il principio di affidamento.
La diversità si colloca invece sul piano dell’oggetto della mala fede del subacquirente, che coincide con la conoscenza degli elementi costitutivi della revocatoria fallimentare e non della revocatoria ordinaria (anche il subacquirente, oltre alla natura dell’atto perfezionato con il fallito dal suo dante causa, dovrà conoscere lo stato di insolvenza in cui versava il primo al momento del compimento dell’atto). Tuttavia, in difetto di diversa previsione, il curatore nella prova della mala fede non potrà godere dei benefici probatori discendenti dalle presunzioni semplici dell’art. 67, 1° comma.
Dovrà essere integralmente richiamato il regime delle trascrizioni, per cui la trascrizione anteriore della domanda con cui il curatore esercita l’azione revocatoria rende l’atto di acquisto del subacquirente inopponibile e in tal caso egli viene assoggettato al giudicato sulla revocatoria tra curatore e suo dante causa.
Le modifiche imposte all’azione dal diritto concorsuale non riguardano esclusivamente i suoi presupposti ed effetti, ma anche alcune fondamentali regole processuali.
Anzitutto la esclusiva legittimazione ad agire del curatore, non surrogabile dai creditori, i quali non sono ammessi neanche ad un intervento adesivo dipendente in causa.
Poi la competenza attrattiva del tribunale fallimentare ex art. 24 , trattandosi per definizione di azione che deriva dal fallimento (al di fuori del fallimento, con i caratteri veduti, non è concessa ai creditori). Per il principio della perpetuatio iurisdictionis è ipotizzabile una conservazione della competenza del tribunale ordinario esclusivamente in sede di revocatoria ordinaria esercitata dal curatore in riassunzione di un giudizio già avviato dal creditore (mentre non è neppure astrattamente ipotizzabile l’esercizio di un’azione revocatoria fallimentare del creditore cui possa subentrare il curatore al di fuori del fallimento).
Il curatore deve essere espressamente autorizzato all’esercizio dell’azione, con autorizzazione specifica (diversificandosi le azioni in corrispondenza dei diversi elementi costitutivi della fattispecie, così l’azione ordinaria da quella fallimentare o la fallimentare per i vari casi postulati dagli artt. 64, 65 e 67, 1° comma o 2° comma), artt. 25, n. 6 e 31, 2° comma. Al difetto di autorizzazione il curatore potrà tuttavia ovviare con le modalità di cui all’art. 182, 2° comma c.p.c., in corso di causa, purché non sia nel frattempo maturata una decadenza o prescrizione, operando la sanatoria con efficacia ex nunc. L’autorizzazione non è invece richiesta se la revocatoria viene esercitata in via di azione o eccezione come mezzo riconvenzionale nel giudizio di opposizione allo stato passivo o di rivendicazione (peraltro ai fini del rigetto di tali domande formulate da creditori o terzi il curatore non ha l’onere di esercitare espressamente l’azione revocatoria).
Poiché il giudice delegato in sede di autorizzazione opera come organo dell’ufficio esecutivo è difficilmente sostenibile la legittimità della sua partecipazione nel collegio che decide sulla revocatoria fallimentare, ma questa era tesi dottrinale, per lo più respinta dalla giurisprudenza che non intravedeva incompatibilità rilevanti sotto il profilo della ricusabilità ex art. 51 c.p.c. o motivi di incostituzionalità ex art. 111 Cost (per un approfondimento, v. par. 8.4).
Oggi il tema è risolto favorevolmente dal legislatore che all'art. 25, 2° comma, esclude che il giudice delegato autorizzante possa essere giudice del giudizio revocatorio.
L’ambito oggettivo del giudicato si estende ai casi di pregiudizialità logica, per cui l’ammissione al passivo del diritto di credito o l’accoglimento della domanda di rivendicazione impediscono che gli effetti del rapporto principale possono essere inficiati dall’accoglimento di un’azione revocatoria, poiché il giudicato non stabilizza solo il singolo effetto, ma la esistenza, validità ed efficacia in genere del rapporto giuridico che ne costituisce un prius logico: perciò l’ufficio fallimentare ha l’onere di respingere la domanda di insinuazione al passivo o di rivendicazione di diritto incompatibile per lasciare inalterate le prospettive di accoglimento dell’azione revocatoria.
Essendo il provvedimento richiesto in accoglimento dell’azione revocatoria di natura costitutiva, risultano inutilizzabili prime e nel corso del giudizio i provvedimenti anticipatori coincidenti con ordinanze di condanna esecutiva, come il decreto o l’ordinanza ingiuntiva, l’ordinanza a chiusura dell’istruttoria (dubitativamente invece l’ordinanza di condanna al pagamento delle somme non contestate). Il diritto alla consegna o al rilascio è comunque tutelabile in via cautelare mediante sequestro giudiziario o in via d’urgenza, ma su tale possibilità.
3. La cessione dell'azione revocatoria.
L’art. 124, 4° comma, disciplina la cessione delle azioni pertinenti la massa, tra le quali la revocatoria, a favore di terzi che si fanno promotori della proposta del concordato fallimentare, purchè già autorizzate. L'art. 106, dopo la riforma, regola, tra le modalità di liquidazione del patrimonio, la cessione delle azioni revocatorie autorizzate e già pendenti.
Queste disposizioni sono dense di implicazioni sistematiche. Pur conservando i presupposti che la contraddistinguono, dopo che è giudizialmente accertata l’insolvenza dell’imprenditore, e quindi tutti i suoi elementi costitutivi, può dubitarsi, quanto alle finalità, che una volta che è esercitata dal cessionario, terzo proponente della proposta di concordato o acquirente in vendita forzata, l’azione abbia una funzione più vicina ad un’azione di invalidità piuttosto che ad un'azione di inefficacia relativa in funzione della liquidazione e del riparto su base paritetica a favore dei creditori (l’azione non sarebbe più destinata a favorire la par condicio con un’esecuzione sul bene di cui il debitore ha disposto, ma consentirebbe il trasferimento della proprietà del bene al cessionario, non essendovi più astrattamente un problema di liquidazione e di riparto essendosi esso esso già risolto "a monte" con la cessione appunto dell'azione revocatoria).
Questi dubbi devono essere fugati, conservando l’azione anche le finalità che le sono proprie.
Il terzo, a seguito del passaggio in giudicato della sentenza che omologa il concordato o della liquidazione mediante cessione forzata dell'azione, acquista la titolarità di un diritto appartenente al patrimonio del fallito (e non di un'azione in senso stretto), di un diritto condizionato sospensivamente dall'accoglimento dell’azione revocatoria. E' corretto ritenere che la cessione non abbia ad oggetto l’azione, bensì il diritto che scaturisce dal suo accoglimento.
Tale diritto, invero, una volta che il bene è riacquisito all’attivo fallimentare resta il diritto di liquidare il bene mediante esecuzione fallimentare, con l’unica particolarità che si tratta di liquidazione a favore del cessionario medesimo.
E' come se l'acquisizione del diritto alla esecuzione e la esecuzione medesima si dovessero compiere in un solo momento o con un unico atto.
Non ne è implicata, come qualcuno ha osservato, un’invalidazione dell’atto di disposizione contro l’effetto normale di inficiarlo ai soli effetti dell’esecuzione, perché il terzo che subisce la revocatoria non può opporre legittimamente il pagamento del credito onde evitare l’esecuzione e quindi paralizzare gli effetti della revocatoria, nel caso di revocatoria fallimentare con il pagamento dell’intero passivo fallimentare, poiché il concordato fallimentare e la vendita forzata costituiscono una modalità di liquidazione già perfezionata all'atto della cessione dell'azione revocatoria. La finalità è perciò nella sostanza ancora quella liquidatoria, pur con modalità in un caso non forzate ma consensuali, essendo l’intero patrimonio collocato presso il terzo proponente, come potrebbe esserlo a seguito di una vendita con incanto.
Ugualmente, come un comune creditore, il terzo contraente che dopo l’accoglimento della revocatoria fallimentare vede trasformare il suo diritto in una situazione creditoria, non può impedire la cessione della proprietà sul bene a beneficio dell’assuntore o dell'acquirente in vendita forzata, adducendo la capienza del patrimonio dell’imprenditore ai fini dell’esecuzione del concordato o il soddisfacimento dell’intero passivo fallimentare. Egli, ancora come creditore, subisce gli effetti dell’accoglimento della proposta concordataria da parte della maggioranza dei creditori prevista dalla legge e dopo il giudicato sull’omologa anche gli effetti della definitiva acquisizione del diritto di proprietà sul bene oggetto dell’azione revocatoria come risultato della liquidazione concordata (ciò che giustifica una sua reazione alla convenienza e opportunità della proposta di concordato in sede soltanto di opposizione alla omologa). Oppure, nel caso di vendita forzata, gli effetti della liquidazione fallimentare.
La cessione delle revocatorie, secondo una prassi giurisprudenziale previgente, deve ammettersi anche nel caso di concordato con cessione dei beni ai creditori, quando in coincidenza con la cessione dell’intero patrimonio è espressamente contemplata nella proposta. In tal caso conserva in modo ancor più evidente la funzione recuperatoria di un bene alla liquidazione. L'ipotesi è oggi codificata dall'art. 124, 1° e 2° comma.
L’impossibilità, invece, che la cessione sia disposta a favore dell’imprenditore insolvente (non essendo egli terzo proponente né potendo essere acquirente in vendita forzata) è tutta nella iniquità di ammettere chi abbia dato luogo all’atto di disposizione ad un’iniziativa unilaterale per inficiarlo (arg. art. 120, 2° comma).
Le azioni revocatorie, per essere validamente cedute, devondo essere autorizzate (nel caso di concordato fallimentare) e addirittura introdotte (nel caso di cessione forzata), questo per consentire al terzo cessionario di valutare la vantaggiosità della cessione medesima (dovendosi accollare l'alea degli esiti del giudizio) e per evitare strumentalizzazioni e pressioni sui terzi destinatari potenziali e non attuale di azioni revocatorie.
4. Le esenzioni dall'azione revocatoria.
La novella del 2006 ha introdotto, nell'art. 67, 3° comma, alcune importanti esenzioni all'azione, che hanno condotto il legislatore a far prevalere la tutela di beni giuridici corrispondenti ad interessi e valori anche di rango costituzionale rispetto alla tutela della par condicio:
- gli interessi di categorie deboli che dal fallimento subiscono pregiudizi gravi, come i lavoratori o prestatori d'opera per i pagamenti ricevuti (lett. f);
- nella stessa direzione le vendite di immobili ad uso abitativo, a giusto prezzo, destinati a costituire l'abitazione dell'acquirente o dei familiari, parenti o affini (estendendo la disciplina originariamente prevista solo per il preliminare di edificio da costruire); con la novella del 2007 la tutela è stata estesa ai preliminare trascritti i cui effetti non siano ancora cessati ai sensi dell'art. 2645 - bis, 3° comma, c.c. e aventi ad oggetto gli stessi beni (lett. c);
- gli interessi dell'impresa, in quella logica di salvaguardia dei suoi valori che prevade la novella, in relazione ai pagamenti effettuati nei termini d'uso (la novità è invero attenuata perché riferita ai soli pagamenti e non invece ai rapporti di scambio di prodotti e servizi); è poi da sottolineare il limite dei "termini d'uso", da intendersi per pagamenti adempiuti nei tempi previsti dalla pratica commerciale e con modalità ordinarie anche in relazione alle specificità del rapporto (lett. a);
- la tutela degli accordi tra imprenditore e creditori di ristrutturazione dei crediti ex art. 182-bis oppure perfezionati nel contesto di un vero e proprio concordato preventivo, o di piani di risanamento predisposti dallo stesso imprenditore (purché l'idoneità a risolvere la esposizione debitoria e ad assicurare il riequilibrio finanziario sia attestata da un professionista che può rivestire la qualità di curatore ai sensi dell'art. 28, secondo la nuova previsione della novella del 2007, e sia certificato da esperto individuato ai sensi dell'art. 2501 - bis, 4° comma. In tal caso gli atti esecutivi, i pagamenti, la costituzione di garanzie previste negli accordi o nel piano non sono revocabili (lett. d, e). Il legislatore ha poi voluto dare espressamente rilievo anche alla esclusione dalla revocatoria dei compensi ai professionisti impegnati nella assistenza necessaria (stesura delle relazioni che certificano l'idoneità e opportunità del piano offerto ai creditori oppure assistenza legale nella fasi stragiudiziale e giudiziali) o aventi titolo in generale nella "prestazione di servizi strumentali all'accesso alle procedure concorsuali" (lett. g).
Le rimesse su conto corrente bancarie meritano un approfondimento maggiore nella sede opportuna, v. par. 5 che segue.
5. Le rimesse in conto corrente.
L’inquadramento tra i pagamenti di crediti scaduti delle rimesse in conto corrente ha suscitato dubbi interpretativi, risolti negli anni ottanta con un orientamento poi consolidato del giudice della legittimità delle leggi.
Le questioni non sorgono ovviamente per il caso di conto corrente attivo, quando il versamento del correntista o di terzi sul conto ha solo lo scopo di integrare la provvista per successive operazioni che l’imprenditore svolge mediante mandato alla banca (in questo caso l’impresa bancaria non è creditrice, semmai debitrice dell’imprenditore, e si propone al massimo la revocabilità dei singoli pagamenti che la banca effettua a favore di terzi, attingendo dalla provvista costituita sul conto).
Diverso è il caso di un rapporto di conto corrente bancario passivo, poiché in tal caso la banca ha la veste di creditore e il versamento può essere astrattamente inquadrato come pagamento.
La giurisprudenza distingueva tra conto corrente “passivo” e conto corrente “scoperto”, collocando il discrimine delle due ipotesi sull’affidamento concesso dalla banca nel contratto di apertura di credito, ovvero sul limite consentito all’imprenditore per attingere alla necessaria provvista ai fini delle operazioni di pagamento.
Ora sin tanto che l’imprenditore opera nei limiti dell’affidamento, i versamenti sul conto hanno il solo scopo di costituire la necessaria provvista per ulteriori operazioni bancarie e quindi come tali non sono pagamenti revocabili.
Al contrario, quando l’imprenditore opera oltre i limiti dell’affidamento, la banca è costretta ad anticipare somme e il versamento ha lo scopo di estinguere i crediti nascenti dalle anticipazioni extra fido operate dall’impresa bancaria, per cui ha funzione estintiva del relativo debito ovvero integra pagamento di credito scaduto.
A tale orientamento la dottrina vicina al sistema bancario ha tentato di opporre l’esistenza nelle concrete fattispecie di un affidamento tacito, non formalizzato per patto scritto, sulla scorta del quale l’imprenditore viene abilitato grazie ad una tolleranza protratta nel tempo ad operare oltre il livello di affidamento concordato al momento dell’apertura di credito. Tale tentativo di arginare le conseguenze, spesso assai gravose per le imprese bancarie, della revocatoria fallimentare, è stato paralizzato dal t.u. delle leggi bancarie, che impone la forma scritta ad ogni operazione di credito, tra le quali quelle dell’affidamento su apertura di credito.
Si deve, poi, aggiungere anche che il limite dell’affidamento oltre il quale la rimessa ha la natura del pagamento deve intendersi riferito esclusivamente all’affidamento sull’apertura di credito (esso soltanto ha la funzione di mettere a disposizione somme ai fini delle operazioni di conto corrente per il tramite della banca), mentre sono irrilevanti le altre agevolazioni consentite, come l’ammontare dei titoli scontabili o delle anticipazioni su operazioni di esportazione o importazione, tutte operazioni destinate a produrre un credito dell’imprenditore verso la banca sin tanto che, mediante il buon fine dei titoli oppure il pagamento delle forniture, questo non si estingua.
Qualificato pertanto come pagamento revocabile la rimessa su conto corrente volta ad estinguere lo sconfinamento dall’affidamento concesso dalla banca al momento del perfezionamento (scritto) del contratto di apertura di credito, resta il problema di individuare quale sia il saldo passivo di riferimento, poiché i movimenti sul conto corrente risultano contabilizzati nel c.d. saldo contabile, ma tali movimenti non attestano ancora l’effettiva disponibilità della somma relativa (si pensi all’accreditamento di somme in relazione allo sconto di effetti operato salvo buon fine del medesimo) e quindi non possono ancora attestare l’avvenuto pagamento revocabile.
Se il saldo contabile non può – ai fini della revocatoria – avere rilievo, se non come documentazione a futura memoria dell’accreditamento a valere dal momento in cui lo sconto avrà buon fine, è certamente il saldo “disponibile” che attesta l’effettiva disponibilità dell’accreditamento ad avere rilievo e che può seguire cronologicamente in un tempo più o meno lungo (esiste poi un saldo di valuta, rilevante soltanto nei rapporti tra banca e cliente, ai fini del conteggio degli interessi riconosciuti).
Poiché le variazioni del saldo possono sopravvenire in ogni istante ed è difficile operare tanti saldi quanto sono i momenti di versamento sul conto, la giurisprudenza ha dato rilievo ai singoli saldi giornalieri che peraltro corrispondono alle modalità di conduzione del rapporto di conto corrente tra banca e cliente, sommando le rimesse globali giornaliere destinate a ridurre l'esposizione extra fido.
Su tale assetto, derivante da un orientamento ormai consolidato della giurisprudenza, è intervenuta la riforma del 2006 (ancora 3° comma dell'art. 67, lett. b).
Secondo le nuove disposizioni non sono revocabili le rimesse in conto corrente purché non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l'esposizione (dove il legislatore va controcorrente rispetto alla giurisprudenza, che aveva adottato il modello della sommatoria delle rimesse giornaliere su conto corrente scoperto ovvero presentante un passivo oltre i limiti del fido - anzi la distinzione tra conto passivo e conto scoperto è oggi irrilevante -, per adeguarsi al diverso criterio del massimo scoperto, valutando l'apice massimo della esposizione e il suo ammontare residuo alla data del fallimento, ma escludendo dalla revocatoria le rimesse che abbiano semplicemente ridotto l'esposizione in maniera non consistente e durevole, ovvero le rimesse che manifestano un andamento assolutamente normale del conto in funzione di un riutilizzo, ancorché segnato da sconfinamenti non patologici del fido).
Con la novella del 2007, che è intervenuta sul 3° comma dell'art. 70, si conferma l'interpretazione offerta all'art. 67, 3° comma, lett. b, che precede includendo i rapporti di conto corrente bancari tra i rapporti continuativi e reiterati, per i quali in caso di accoglimento dell'azione revocatoria "il terzo deve restituire una somma pari alla differenza tra l'ammontare massimo raggiunto dalle sue pretese e l'ammontare residuo delle stesse, alla data in cui si è aperto il concorso".
6. Gli atti tra coniugi e l’abrgazione della presunzione muciana.
Il legame dei coniugi costituito dall’unione matrimoniale è all’origine di complicità ed iniziative tra le più insidiose e pregiudizievoli per i creditori e rende ragione della maggiore severità di disciplina dovuta soprattutto alla più evidente consapevolezza della insolvenza dell’imprenditore da parte del coniuge.
La legge ne prende atto nell’art. 69, 1° comma.
Secondo tale disposizione, da un lato, la conoscenza dello stato di insolvenza è presunto per tutte le ipotesi dell’art. 67, ivi comprese quelle che ai sensi del 2° comma onerano della relativa prova il curatore e, dall’altro, non ha più rilievo il periodo sospetto: per l’intero tempo di durata del matrimonio, dal momento in cui il fallito ha iniziato ad esercitare un’impresa commerciale (fermo restando la prescrizione dell’azione revocatoria secondo le regole generali) gli atti di disposizione con il coniuge possono essere inficiati.
Al curatore è sufficiente provare che l’atto è stato compiuto quando il fallito già esercitava l’impresa e in costanza di matrimonio; tutte le ulteriori circostanze di fatto rilevanti devono essere provate dal convenuto e particolarmente la mancata conoscenza dello stato di insolvenza (ovvero la sua insussistenza all’epoca in cui si è perfezionato l’atto di disposizione).
Il richiamo originariamente del solo art. 67 , rendeva applicabili al coniuge del fallito gli artt. 64 e 65 della stessa legge, con un regime incomprensibilmente più favorevole dovuto all’applicazione del periodo sospetto (i due anni dalla dichiarazione di fallimento). Ne è conseguito un intervento della Corte costituzionale (sentenza n. 100 del 19 marzo 1993), la quale ha attratto anche tali disposizioni nell’orbita dell’art. 69. Oggi dopo la novella del 2006 il richiamo è espresso, discendone tuttavia ancora un agevolazione per il coniuge, che si avantaggia dalla possibilità di fornire la prova contraria, prova esclusa invece dagli artt. 64 e 65 che com'è noto non offrono rilevanza alla conoscenza dello stato insolvenza.
E' stato invece abrogato l’istituto della presunzione muciana (vecchio tenore dell'art. 70) nato storicamente nel diritto romano con tutt’altro significato (quello di rimuovere i sospetti sulla provenienza delle somme usate dalla moglie per l’acquisto, che si presupponevano perciò dono del marito, in un contesto di evidente disparità tra i coniugi), mal conciliabile con i principi del nuovo diritto di famiglia, dovuti alla riforma del 1975 (legge 19 maggio 1975, n. 151). Tanto che, alla luce della più recente giurisprudenza, poteva già dirsi rimosso dal nostro sistema giuridico.
Infatti era ormai prevalente l’indirizzo di un’abrogazione per incompatibilità, sia che il principio fosse confrontato con il regime della comunione patrimoniale tra i coniugi, sia con quello della separazione dei beni.
La presunzione muciana dell’art. 70 induceva a ritenere che gli acquisti del coniuge durante il matrimonio si presumessero effettuati con denaro dell’imprenditore poi fallito, salvo la prova contraria (che è prova non agevole, non essendo sufficiente dimostrare la disponibilità di somme all’epoca dell’acquisto, ma il loro effettivo impiego nell’acquisto medesimo).
Invero i principi che hanno ispirato il legislatore nell’introdurre come ordinario il regime della comunione (art. 159 c.c.), ovvero l’assicurazione di una tutela per il coniuge economicamente più svantaggiato, particolarmente se privo di un reddito di lavoro, trovavano una stridente soluzione di continuità nell’istituto in esame. Infatti in forza del regime della comunione, qualunque sia la provenienza delle disponibilità necessarie per l’acquisto in costanza di matrimonio (quindi offrendo irrilevanza a quanto invece la presunzione muciana da rilievo), il bene viene sempre fatto cadere nella comunione (art. 177, lett. a, c.c.). Se a tale risultato si accompagna la regola che ispira la presunzione muciana (regola invece che offre rilievo alla provenienza del denaro necessario), il coniuge dell’imprenditore fallito sarà per definizione escluso dalla comunione, per quota pari alla metà in virtù dell’art. 177 cit. e per l’altra quota in applicazione dell’art. 70, con un risultato assolutamente inaccettabile alla luce dei principi che hanno ispirato la riforma e particolarmente il regime della comunione dei beni.
Ma l’incompatibilità non era meno evidente anche in relazione al regime della separazione. In tal caso il legislatore della riforma del diritto di famiglia intende, seppure con un’opzione espressa che i coniugi devono esprimere al momento del matrimonio o in apposita convenzione successiva (art. 162 c.c.), preservare l’autonomia dei patrimonio, rendendo il patrimonio dell’uno del tutto insensibile alle iniziative dell’altro e assicurando l’effettività degli acquisti personali come manifestazione dell’autonomia di reddito di chi ne fosse autore. Beni giuridici assicurati anche con l’art. 193 c.c. che sancisce la separazione giudiziale dei beni nel caso di cattiva amministrazione dei beni della comunione o di disordine negli affari di uno dei coniugi, ovvero quando di norma il coniuge entri in stato di insolvenza. Pertanto il principio di autonomia e la conseguente tutela del coniuge dagli atti dell’altro confligge pure esso in modo irrimediabile con i principi fallimentari e giustifica anche in questa diversa prospettiva l’abrogazione per incompatibilità.
Il giudice di legittimità autore di tale condivisibile orientamento aveva tentato anche la via della incostituzionalità, che la Corte tuttavia aveva respinto ritenendo che le opzioni sui regimi patrimoniali della famiglie e sulle loro ricadute in ordine ai creditori di uno dei coniugi dovesse essere lasciato alla libertà del legislatore (cfr. Corte Cost., 29 giugno 1995, n. 286).
La norma sulla presunzione muciana è stata definitivamente abrogata con l'intervento di riforma sull'art. 70.
La tutela dei creditori verso gli atti di disposizione del coniuge del fallito è oggi assicurata esclusivamente da disposizioni come l’art. 69 o dalle ordinarie azioni sulla simulazione dei contratti.
7. Il carattere residuale della revocatoria ordinaria e i riflessi del concorso.
In difetto dei presupposti dell’azione revocatoria fallimentare, ovvero delle circostanze di fatto (periodo sospetto, scientia decoctionis) che costituiscono il diritto di privare di effetti l’atto di disposizione, al curatore, come precisa l’art. 66, 1° comma, è aperta la prospettiva dell’azione revocatoria di diritto comune “secondo le norme del codice civile”.
L’azione revocatoria ordinaria esercitata dal curatore conserva, per richiamo espresso del legislatore, gli elementi costitutivi regolati dal codice civile, differenti dall’azione fallimentare, e particolarmente l’eventus damni costituito dal pregiudizio alla garanzia patrimoniale, nonché il consilium fraudis ovvero la coscienza di originare un pregiudizio alla garanzia patrimoniale, del debitore e, per gli atti a titolo oneroso, del terzo contraente.
Non è invece possibile distinguere tra un dolo generico e un dolo specifico in corrispondenza alla anteriorità o posteriorità del credito, essendo la tutela rivolta alla massa indistinta dei creditori, sia quelli anteriori sia quelli posteriori all’atto di disposizione; prevale inevitabilmente sempre un dolo generico.
Il richiamo alla disciplina codicistica esclude, poi, la revocabilità dei pagamenti per debiti scaduti (3° comma dell’art. 2901 c.c.).
Se gli elementi costitutivi e l’ambito oggettivo dell’azione ordinaria coincide con quelli del diritto comune, l’esercizio nei confronti dell’imprenditore dichiarato fallito subisce tuttavia inevitabili mutamenti di regime imposti dalle regole del concorso.
Anzitutto è già stata evidenziata la legittimazione del (solo) curatore, con esclusione della legittimazione dei creditori e, sempre sul piano processuale, la competenza attrattiva del tribunale fallimentare ex art. 24 (da escludere, per il principio della perpetuatio iurisdictionis, solo nel caso in cui il curatore decida di riassumere l’azione esercitata dal creditore secondo le regole ordinarie).
Differenti sono poi gli effetti sul terzo contraente, che non vede la sua posizione creditoria retrocedere in una posizione deteriore rispetto agli altri creditori (secondo il disposto dell’art. 2902, 3° comma, c.c.), ma partecipa al concorso come creditore chirografario ai sensi dell’art. 70, 2° comma, piegandosi in tal modo anche la revocatoria ordinaria alle regole fallimentari.
La prescrizione, infine, non muove secondo le regole comuni dall’atto di disposizione, bensì, ancora, dalla dichiarazione di fallimento (nella dimensione tuttavia dell’art. 69-bis).
8. Lo scampato pericolo di un rinvio al rito camerale.
Nella rivoluzione copernicana, che ha contraddistinto la riforma, una scelta iniqua del primo intervento con il d. lgs. n. 5 del 2006, era costituita dall'adozione del rito camerale, attraverso mero rinvio alle disposizioni codicistiche, di tutti i giudizi che derivano dal fallimento, secondo il dettato dell'art. 24, 2° comma.
Per buona sorte dell'interprete e dell'operatore, il 2° comma, è stato abrogato dalla novella del 2007.
L'art. 24, nel regime previgente destinato ad introdurre una regola sulla competenza (attraendo al foro fallimentare tutte le controversie che si originano dalla speciale disciplina fallimentare, con esclusione delle sole reali immobiliari, oggi anch'esse invece destinate all'effetto attrattivo), dopo la prima riforma del 2006 ne ha introdotta una pure relativa al rito, poiché affidava tali controversie alle forme del rito camerale nella scarnissima disciplina del codice di rito.
A tali forme era quindi assoggettato il processo che origina dall'esercizio dell'azione revocatoria. Questo rito era poi destinato ad imporsi anche sulle esigenze del processo cumulato, essendo destinato comunque a prevalere, in deroga espressa all'art. 40, 3° comma c.p.c.
L'adozione del modello camerale "puro" per cause che non sono strettamente fallimentari, in relazione alle quali soltanto era consentito un intervento di riforma in base alla legge delega n. 80 del 2005, lascia lo spazio ad un'incostituzionalità per eccesso di delega tutt'altro che infondato, senza poi dire della violazione dell'art. 111 Cost, con le sue prescrizioni sulla riserva di legge nella disciplina del processo e sul giusto processo.
Oltre alle difficoltà sistematiche evidenziate, peraltro, per l'autonomia che contraddistingue il processo camerale, che non si colloca come alternativo a forme diverse, ordinarie o sommarie, anche cautelari di tutela giurisdizionale, ne discendeva addirittura la preclusione ad una assicurazione cautelare dell'azione, ciò che per ulteriore argomento fondava un ulteriore motivo di incostituzionalità per violazione dell'art. 24 Cost.
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