La Relazione: Aspetti processuali della divisione nella comunione tra coniugi
(Prof. Avv. Claudio Cecchella, Università di Pisa)
(Relazione al Convegno “Scioglimento e divisione della comunione legale. I rimborsi e le restituzioni”, La Spezia, 7 giugno 2008)
Sommario: 1. I limiti all’azione di divisione e l’origine processuale della cause di scioglimento. 2. Le cause processuali di scioglimento della comunione familiare. 3. Segue. Il momento in cui si perfezionano. 4. Una soluzione pratica contro la giurisprudenza della Corte di Cassazione. 5. Il problema della efficacia verso terzi. 6. Il fallimento di uno dei coniugi. 7. La cessazione delle cause di scioglimento per situazione di fatto. 8. Il giudizio di divisione.
1. I limiti all’azione di divisione e l’origine processuale della cause di scioglimento.
Anche quando gli istituti processuali hanno modo di rilevare nell’ambito della comunione legale tra coniugi e in particolare della sua divisione, le peculiarità della materia familiare hanno modo di piegare le regole di diritto comune, in funzione dei valori e degli interessi tutelati sul piano sostanziale e il processo deve inevitabilmente differenziarsi quanto all’ambito delle azioni e alle loro forme.
In primo luogo, l’azione di divisione, che costituisce ex art. 1111, 1° comma, c.c. l’esercizio di un diritto potestativo, in corrispondenza con la regola generale di disfavore verso la comunione, trova nella comunione tra i coniugi un regime accentuatamente limitativo, a protezione degli interessi sostanziali cui presiede, essendo esercitabile solo in coincidenza di fattispecie di scioglimento tipizzate dal legislatore.
Infatti l’azione di divisione non è libera, ma ammessa esclusivamente nella fattispecie di c.d. scioglimento della comunione legale dettate dall’art. 191, 1° comma, c.c., il quale regola ipotesi tassative, per lo più ritenute non derogabili per atto volontario delle parti, che non assuma i contenuti e le forme della convenzione matrimoniale (integrante appunto un caso di scioglimento). Invero, sul piano tecnico, la divisione più che provocata dalle cause di scioglimento è – come vedremo - un effetto del provvedimento giurisdizionale: l’art. 191 cit. disciplina semplicemente i presupposti legali che consentono l’esercizio dell’azione di divisione, poiché sarà solo la successiva divisione giudiziale a provocare lo scioglimento.
Dei casi di scioglimento (dichiarazione di assenza o di morte presunta; annullamento; scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio; separazione personale, separazione giudiziale dei beni, mutamento convenzionale del regime, infine fallimento di uno dei coniugi), nella prospettiva particolare della relazione, che è quella processuale, tratteremo soltanto quelli che si generano nel processo, poiché, salvo la convenzione tra coniugi, è assai spesso il processo a provocare i presupposti che abilitano i coniugi all’azione di divisione.
2. Le cause processuali di scioglimento della comunione familiare.
Nell’ambito del processo, le fattispecie che consentono lo scioglimento sono il risultato di alcune sentenze costitutive, con cui si concludono i processi familiari: la sentenza di invalidazione del vincolo matrimoniale, la sentenza di divorzio, la sentenza di separazione (o l’omologa della separazione consensuale), la sentenza di separazione giudiziale dei beni. Lo scioglimento è poi consentito quando è dichiarato il fallimento di uno dei coniugi, ma questo è tema che merita una trattazione autonoma.
Ad eccezione della prima, le altre cause processuali che abilitano all’azione di divisione non destano problemi di individuazione (sarà problematico come tra poco vedremo il momento in cui l’effetto potrà dirsi prodotto). Infatti il legislatore usa il termine “annullamento”, che per un verso sembra escludere i casi di nullità in senso stretto e per altro sembra limitare, quanto alle nullità, la praticabilità dell’istituto esclusivamente nel caso di matrimonio putativo (ne risulterebbe infatti conservato l’effetto della comunione). Saremo propensi tuttavia ad una lettura estensiva, che ricomprende qualsiasi ipotesi di invalidazione (salvo i casi di radicale inesistenza dove la comunione spirituale e materiale non può dirsi neppure istaurata: es. matrimonio tra persone dello stesso sesso o senza consenso) e che non limiti i casi di nullità al matrimonio putativo, il quale tra l’altro può avere rilevanza per uno solo dei coniugi, ciò che confligge con il regime della comunione che li deve coinvolgere entrambi. Quindi annullamento, da intendersi come invalidazione in genere.
Quanto altre altre cause processuali, non sorgono dubbi interpretativi:
a) il divorzio, quando ovviamente abbia causa in un presupposto diverso da quello della separazione personale dei coniugi (ché lo scioglimento in tal caso discende ancor prima, proprio dalla separazione);
b) la separazione, sia essa dettata da una sentenza (anche parziale) in sede giudiziale o provenga da un separazione consensuale omologata;
c) la separazione giudiziale dei beni, fondata sulla incapacità assoluta o relativa del coniuge o su di una cattiva amministrazione oppure su di una amministrazione che metta in pericolo gli interessi dell’altro coniuge, della comunione o della famiglia o, ancora, sul disordine negli affari o infine sulla mancata contribuzione proporzionale.
3. Segue. Il momento in cui si perfezionano.
Il vero nodo interpretativo, invece, è quello del momento in cui la rimozione del divieto di divisione si produce:
- dalla pronuncia della sentenza di primo grado
- oppure dal suo passaggio in giudicato e, ancora,
- con effetti che retroagiscono al momento della domanda
- oppure ex nunc, che si producono soltanto nel tempo dell’effettivo passaggio in giudicato della sentenza (alla scadenza, a seconda dei casi, del termine lungo o breve per impugnare).
Le conseguenze non sono di poco momento: se l’atto di acquisto si perfeziona durante la pendenza del processo e sino allo scadere del termine per la impugnazione della sentenza il bene continua a cadere nella comunione oppure, per introdurre l’azione di divisione, la parte dovrà attendere tre gradi di giudizio.
In ordine a questo delicato problema, ove si consumano – sia consentito sottolinearlo da subito – garanzie di rango costituzionale come la tutela giurisdizionale dei diritti, non potendo la durata del processo andare a detrimento di chi ha ragione e dovendo perciò la sentenza retroagire – anche in relazione ai suoi effetti costitutivi – al momento della proposizione della domanda, continua ad influenzare la giurisprudenza la natura costitutiva del provvedimento giudiziale, che per tradizione origina dal giudicato e con effetti che non retroagiscono, ancora tradizionalmente, alla domanda.
Pur in mancanza di un’espressa previsione di diritto positivo (ché l’art. 282 c.p.c. sembra affidare gli effetti della sentenza al suo primo grado), si può convenire che per gli effetti di grande rilievo della sentenza costitutiva, laddove abilitano al giudice di intervenire nella sfera giuridica di un soggetto, essi non possano essere destinati di massima ad una pronuncia emessa al termine di un grado di giudizio (anche solo per le difficoltà di un ripristino dell’assetto dei diritti precedente nel caso in cui venga riformata nei gradi successivi, anche a tutela dell’affidamento dei terzi), ma non si riesce ad intendere la ragione per la quale effetti destinati al giudicato non possano retroagire alla domanda, ponendo a carico della parte che ha ragione le conseguenze dei tempi necessari al formarsi del giudicato.
Vi è poi da aggiungere che una regola che fa muovere gli effetti costitutivi a partire soltanto dal giudicato non può essere generalizzata, dovendo forse distinguere caso da caso: alcuni effetti per i beni giuridici in gioco posso ben maturare dalla sentenza, anche se non definiva, e forse lo scioglimento della comunione dei coniugi è uno di questi.
Alla luce della consolidata giurisprudenza di legittimità, è forse inevitabile un intervento del legislatore.
Certamente non sarà facile applicare, anche se qualche lettura in tale direzione si coglie nella dottrina processualistica, l’art. 282 c.p.c. sull’efficacia esecutiva della sentenza di primo grado, essendo la efficacia esecutiva cosa diversa dalla efficacia costitutiva di un nuovo assetto giuridico e quindi è inevitabile ipotizzare che la causa di scioglimento non possa prodursi prima del passaggio in giudicato della sentenza che ha pronunciato l’invalidità del matrimonio, il suo scioglimento, la separazione personale dei coniugi, la separazione giudiziale dei beni.
Ma quando il giudicato si è prodotto è difficile pensare che non produca effetti retroattivi sino dal momento della domanda e che la durata del processo debba pregiudicare chi ha ragione e ha diritto di ottenere la divisione del patrimonio comune (sollecitata la Corte cost. 7 luglio 1988, n. 795 non è andata oltre una pronuncia di inammissibilità, vedi l’ordinanza in Foro it., 1989, I, 928).
La contraria costruzione, in modo stereotipato, è ribadita dalla giurisprudenza (ex plurimis, cfr., Cass., 24 luglio 2003, n. 11467, in Foro it., 2003, I, 2966; Cass., 2 settembre 1998, n. 8707, in Vita not., 1998, I, 1605), salva qualche eccezione da parte di alcuni giudici di merito (Trib. Genova, 17 luglio 1986, in Dir. Fam., 1988, 256; Trib. Milano, 20 luglio 1989, ivi, 1990, I, 161), che individuano il prodursi dell’effetto già dal momento in cui il presidente con i provvedimenti dell’art. 708 c.p.c. autorizza i coniugi a vivere separati.
Ora vi sono ragioni che attengono alla ratio della disciplina, unita a precisi richiami positivi che fanno propendere, come molti Autori, per una tesi diversa:
a) La ratio della conservazione del regime della comunione legale è quella della persistenza della comunione morale e materiale su cui è fondato il matrimonio: quando i coniugi sono autorizzati a vivere separati (effetto che correttamente la stessa giurisprudenza ricollega al deposito del ricorso per separazione), non ha veramente significato imporre la conservazione del regime della comunione, facendo produrre la causa di scioglimento solo al momento del passaggio in giudicato della sentenza, se non quella di sottoporre il coniuge che ne ha diritto al ricatto odioso della dilazione di tutela.
b) Peraltro anche la sacralità dell’efficacia solo ex nunc della sentenza costitutiva è tutta da rimeditare e non sembra avere basi positive, particolarmente quando è introdotto un regime di pubblicità della domanda. Che significato ha infatti tale regime se non quello di far prenotare, dal momento della domanda, gli effetti della sentenza costitutiva, almeno nei confronti di terzi. Ora è noto come alla luce del regolamento sullo stato civile (d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396, art. 69 lett. c, ma anche art. 4, 3° comma, legge n. 898 del 1970) devono essere annotate non solo le sentenze, ma anche le domande introduttive de procedimento divorzile (per cui se l’effetto scaturisce dall’annotazione della sentenza ex art. 10 legge n. 898 del 1970, esso non può non retroagire al momento dell’annotazione della domanda). L’applicazione dettata in materia di divorzio potrebbe in via analogia essere applicata anche al procedimento di separazione o di invalidazione (per il primo l’analogia è superata dal rinvio compiuto dalla legge n. 74 del 1987, art. 23, all’art. 4, pure per le separazioni). Non si dimentichi poi che anche la domanda di scioglimento della comunione tra coniugi, se vi è un immobile nella comunione, è soggetta a trascrizione ex art. 2653, n. 4 c.c. e il riferimento generico allo scioglimento potrebbe far pensare alle domande introduttive dei procedimenti che conducono allo scioglimento, come il divorzio, la separazione, l’invalidità e così via.
d) Esiste, poi, una disposizione nella direzione che andiamo cercando che è costituita dall’art. 193, 4° comma e 5° comma, c.c., che in relazione a quella fattispecie di ulteriore scioglimento che è la separazione giudiziale dei beni stabilisce perentoriamente: “La sentenza che pronuncia la separazione retroagisce al giorno in cui è stata proposta la domanda ed ha l’effetto di instaurare il regime di separazione dei beni regolato nella sezione del presente capo, salvi i diritti di terzi” e ancora “La sentenza è annotata a margine dell’atto di matrimonio e sull’originale delle convenzioni matrimoniali” e si è ritenuta pure annotabile la domanda.
Ora non è francamente giustificabile, anche sul piano di un principio di ragionevolezza ed eguaglianza, un regime così intensamente diverso per fattispecie identiche, soltanto il regime retroattivo degli effetti della sentenza è in linea poi con i principi costituzionali del diritto di azione ( e dopo la previsione nel cit. art. 193 anche del diritto di eguaglianza e ragionevolezza). Peraltro si è anche sostenuto che una volta che è introdotta un’azione di scioglimento degli effetti del matrimonio oppure di separazione è pure introdotta l’azione di separazione giudiziale dei beni.
Vi sono pertanto ragioni sistematiche, che impongono di comparare la regole processuali con quelle sostanziali, e spunti di diritto positivo, dal regime della annotabilità nei registri di stato civile della domanda e della sentenza, al regime della trascrivibilità della domanda, sino al regime particolare della domanda e della sentenza di separazione giudiziale dei beni contenuta nel 3° e 4° comma dell’art. 193 cit., che devono indurre ad un’interpretazione contrastante da quella espressa dalla giurisprudenza, laddove riconduce l’effetto costitutivo provocato dal giudicato al momento e solo al momento in cui il giudicato si forma.
Qualche problema di identificazione della fattispecie pone pure la separazione consensuale, se identificabile con la sola domanda congiunta oppure con l’ accordo perfezionato innanzi al presidente del tribunale o infine sull’omologazione. In coerenza con la soluzione dettata in sede di separazione giudiziale, saremo come la giurisprudenza (Cass., 7 marzo 1995, n. 2652, Cass. 2 settembre 1998, n. 8707, in Vit. not., 1998, I, 1605; Cass., 27 febbraio 2001, n. 2844, in Fisco, 2003, 4789) dell’opinione che l’omologa rientri negli elementi costitutivi della fattispecie. Questa costruzione, tuttavia, rischia di inficiare la prassi assai diffusa di una regolamentazione convenzionale della divisione (prima dell’omologa), nello stesso verbale di separazione (da non ammettersi prima che la causa di scioglimento si sia perfezionata).
Ma la soluzione all’apparente difficoltà è presto trovata, come la separazione personale anche gli accordi divisori non possono che prendere effetti solo dopo che il verbale di separazione consensuale è stato omologato e dunque, pur ammettendosi l’accordo di separazione e di divisione, questo produce effetti solo dopo il controllo giudiziale. Residuerebbe solo la difficoltà di ammettere patti traslativi di diritti immobiliari nell’ambito della separazione consensuale, che è tema diverso, e sul quale vi è dibattito sia in giurisprudenza che in dottrina, ma che esula dall’economia della presente relazione.
4. Una soluzione pratica contro la giurisprudenza della Corte di Cassazione.
Innanzi ad un orientamento così rigido, forse è possibile intravedere una soluzione, che ha la forza di altra giurisprudenza della stessa Corte Suprema.
L’azione di separazione giudiziale dei beni ha pacificamente natura contenziosa e si svolge nelle forme del processo a cognizione piena di rito ordinario ed essa si esercita, con legittimazione del coniuge, innanzi al tribunale competente ai sensi dell’art. 18 c.p.c. (foro generale delle persone fisiche) e quindi nel luogo di residenza del coniuge convenuto (esattamente la stessa competenza del procedimento per separazione e divorzio, dopo la recente pronuncia della Corte cost n. 169 del 2008).
Una relativamente recente pronuncia della Corte di cassazione (n. 12293 del 1995) ha chiarito che la pendenza del processo di separazione non preclude l’azione, poiché la causa dello scioglimento è autonoma e quindi la parte avrebbe agio (ovviamente in considerazione dei soli presupposti dell’art. 193 c.c.) di introdurre parallelamente una domanda di separazione giudiziale dei beni o addirittura, qualora si ammetta un litisconsorzio in una causa di separazione o divorzio, come domanda formulata nello stesso procedimento. Il requisito della mancata contribuzione alla famiglia in proporzione alle proprie sostanze e capacità di lavoro, richiesto per la separazione giudiziale dei beni, è requisito tutt’altro che assente in numerose ipotesi di separazione.
In tal modo la parte interessata potrebbe beneficiare della retroattività degli effetti della sentenza di separazione giudiziale sino alla domanda.
5. Il problema della efficacia verso terzi.
La stessa disposizione dell’art. 193 cit. , che appare la norma tecnicamente più corretta nella prospettiva del processualista, contiene una lacuna, poiché (3° comma) la retroattività non sembra operare verso i terzi (la norma fa salvi “i diritti di terzi”).
L’ultimo comma della stessa disposizione, invece, ammette un’annotazione allo stato civile della sentenza di separazione dei beni. Allora il passo per l’annotazione pure della domanda è breve e tale indirizzo si rinviene pure in dottrina, con tutte e conseguenze – anche se non debitamente chiarite nella disposizione – di un’opponibilità ai terzi della efficacia retroattiva.
Peraltro quando i beni coinvolti sono immobili, è indiscutibile la trascrizione della sentenza ex artt. 2647 c.c., nonché della domanda, artt. 2653, n. 4 e 2691 c.c.
In tal modo il sistema offre soluzione anche all’efficacia verso i terzi della retroattività degli effetti della sentenza che accerta la causa di scioglimento.
Per gli altri casi l’indirizzo si fa più difficoltoso, perché salvo l’annotabilità della domanda e della sentenza di divorzio, nulla è detto per la domanda di separazione o di invalidamento del matrimonio e la costruzione, molto più tortuosa, deve condursi in via interpretativa e analogica. Interpretativa per la prima, poiché desumibile, come già si è ricordato, dal richiamo all’art. 4, 3° comma, della legge n. 74 del 1987.
6. Il fallimento di uno dei coniugi.
L’art. 191 c.c., contempla tra le ipotesi che consentono la divisione anche il fallimento: la ragione è da ricercare nelle esigenze della liquidazione concorsuale, che non possono incontrare i limiti discendenti dalla comunione patrimoniale tra coniugi. In concreto l’ufficio fallimentare deve potere disporre senza dilazione dei beni che spettano al coniuge fallito all’esito di un giudizio di divisione.
Per questa ragione saremo propensi a negare un’estensione dell’istituto (e non solo per la ritenuta tassatività delle ipotesi) quando la procedura concorsuale non faccia prevalere una ragione liquidatoria, del tipo di quella espressa nel fallimento.
Quindi il concordato non conduce alla stessa regola, salvo – si è ritenuto prima della riforma fallimentare - il caso del concordato con cessione dei beni, dove l’effetto traslativo di diritti può collidere con il regime della comunione. Ma si deve dire che alla luce del nuovo art. 161 l. fall., dovuto alle riforme del 2006 (d. lgs. n. 5 del 2006) e del 2007 (d. lgs. n. 169 del 2007), l’ampiezza dei contenuti del concordato, non più limitato alla ipotesi del c.d. concordato con garanzia destinato ad una dilazione e falcidia, ove normalmente il patrimonio si conserva, oppure al concordato con cessione dei beni, destinato invece inevitabilmente alla liquidazione, si pongono tutta una serie di nuove soluzioni negoziali della crisi dell’imprenditore.
Ora il verificarsi della causa di scioglimento dipenderà dal carattere o meno liquidatorio della soluzione concordataria, la cui ragione è fatta prevalere dalla legge su quella che ispira la comunione patrimoniale tra coniugi.
Ugualmente l’amministrazione straordinaria, che ha funzione analoga a quella del fallimento, e pertanto beneficia dello stesso regime ai fini dello scioglimento della comunione.
La peculiarità del fallimento poi sta nella sua efficacia immediata, sin dal momento in cui la sentenza è depositata in cancelleria (ugualmente il decreto di omologa del concordato). Dunque in deroga alle altre ipotesi ove la causa di scioglimento si produce solo con il giudicato della sentenza che la conosce, nell’ambito concorsuale – ancora come effetto di favore – la causa si realizza semplicemente quando è accertata in primo grado e quindi la sentenza è depositata in cancelleria (cfr. Cass. 18 maggio 1976, n. 3047, in Giust. Civ. 1976, I, 1557).
La sentenza fallimentare non sembra porre problemi di pubblicità, ai fini dell’opponibilità ai terzi, poiché la iscrizione nel registro delle imprese offre quella efficacia verso terzi che rende opponibile anche l’effetto di scioglimento della comunione tra coniugi, come regolano in modo inequivocabile oggi gli artt. 16 e 17 l. fall. Non sembra quindi giustificato il tentativo della dottrina civilistica di costruire – ai fini della opponibilità ai terzi- un regime di annotazione della sentenza che dichiara il fallimento di uno dei coniugi.
Con l’abrogazione dell’art. 70 l. fall., ovvero dell’istituto ivi regolato della presunzione muciana, peraltro fortemente ridimensionato da un’interpretazione abrogratrice della giurisprudenza che aveva sottolineato l’incompatibilità giuridica della presunzione con la comunione patrimoniale tra coniugi (discendendone una sostanziale abrogazione dell’istituto se uno dei coniugi aveva l’avventura di cadere in una vicenda fallimentare), l’opponibilità della comunione al fallimento non incontra limiti e l’effetto ex lege dell’appartenenza alla comunione di tutti i beni acquistati da uno dei coniugi durante il matrimonio non incontra neppure la limitazione dell’azione revocatoria, che può colpire soltanto effetti che hanno il loro fondamento su atti volontari intervenuti tra coniugi (novellato art. 69 l. fall.).
Qualche problema interpretativo pongono la revoca che fa seguito all’esito favorevole del reclamo avverso la sentenza che dichiara il fallimento e la chiusura del fallimento, che fa seguito all’esaurimento dei suoi obiettivi all’impossibilità di raggiungerli. In questi casi viene meno la ratio dello scioglimento e la scelta originaria dei coniugi nella continuità del matrimonio non può non avere reviviscenza, ciò potrà avvenire solo con effetti ex nunc (revoca e chiusura sono soggetti alla pubblicità della sentenza dichiaratrice, agli effetti della opponibilità verso i terzi).
7. La cessazione delle cause di scioglimento per situazione di fatto.
Nel caso di revoca o chiusura, il venir meno della causa di scioglimento è dovuta ad un provvedimento giurisdizionale, che offre certezza all’evento, ed è soggetto – per l’opponibilità ai terzi – ad un regime di pubblicità.
Qualche problema interpretativo pone il caso in cui il venir meno della causa di scioglimento discenda non dall’accertamento costitutivo di un provvedimento giurisdizionale soggetto a regime di pubblicità, bensì da un semplice fatto della realtà materiale, come la riconciliazione dei coniugi che fa cessare gli effetti della separazione, com’è noto senza che vi sia necessità di un suo accertamento giudiziale (art. 157 c.c.).
In tal caso la questione non ha modo di rilevare in relazione ai coniugi, poiché non è dubitabile che dall’evento si ricostituisce la comunione per essi (con effetti ex nunc Cass. 12 novembre 1998, n. 11418, in Dir. Fam., 1999, 589), bensì in relazione ai terzi, per l’incertezza del verificarsi della fattispecie (che solo il coniuge conosce per condotte e atti per lui inequivoci) e della sua conoscenza.
Non resta che ricercare un regime di pubblicità di un atto certo, che sia opponibile al terzo. Soccorre l’art. 69 lett f) del dpr n. 396 del 2000, disposizioni dell’ordinamento dello stato civile, il quale ammette all’annotazione negli atti di matrimonio “delle dichiarazioni con i quali i coniugi separati manifestino la loro riconciliazione”. Solo se la dichiarazione è annotata gli effetti della riconciliazione saranno opponibili.
8. Il giudizio di divisione.
Se l’azione di divisione è soggetta a limitazioni, non potendo essere esercitata se non in presenza di alcune fattispecie accertate processualmente con sentenza di natura costitutiva, risulta ugualmente modificato lo svolgimento del processo e i possibili contenuti della tutela.
La divisione, dopo che si è verificata la causa di scioglimento può perfezionarsi anche sul piano convenzionale, senza dovere soggiacere alle forme della convenzione matrimoniale ex art. 162 c.p.c. Ai fini dell’eventuale trascrizione è sufficiente che l’accordo divisorio sia contenuto in un verbale di separazione consensuale e che questo sia omologato.
Si è detto, tuttavia, che la divisione consensuale non possa derogare alla parità di ripartizione dell’attivo, argomentando sui limiti di contenuto consentito alle convenzioni matrimoniali e particolarmente sulla pateticità delle quote. Questo indirizzo è criticabile, poiché i limiti imposti all’autonomia valgono sin tanto che la comunione sia in essere, una volta che si sciolga al verificarsi di uno dei casi di cui all’art. 191 c.c., l’autonomia riprende vigore e per il carattere disponibile della materia i coniugi possono perfezionare liberamente patti divisori finanche rinunciare ai diritti che discendono dalla divisione.
Se al contrario i coniugi non raggiungono un accordo, si rende inevitabile un’azione che avvia un processo divisorio, ai sensi degli artt. 784 e ss. c.p.c.
Il mancato verificarsi della causa di scioglimento, da identificare nella sentenza di separazione passata in giudicato, impedisce secondo la giurisprudenza (né consente di invocare l’art. 295 c.p.c. sulla sospensione per pregiudizialità dipendenza, v. Cass, 23 giugno 1998, n. 6234, in Corr. Giur., 1999, 63), la formulazione di una domanda di divisione contestualmente alla domanda di separazione personale. Ora poiché è ammessa una sentenza parziale di separazione, non si vede la ragione per cui la domanda di divisione non possa essere formulata, condizionatamente all’accoglimento della domanda di separazione.
La divisione, pur conseguente ad uno dei casi di scioglimento può essere oggetto di una dilazione per volontà delle parti, sino a dieci anni e salvo gravi circostanze da accertarsi giudizialmente che giustifichino la divisione, art. 1111, 2° e 3° comma, c.c. Qualora la divisione possa pregiudicare gli interessi dei comproprietari la dilazione potrà essere stabilita dal giudice per un lasso massimo di cinque anni (art. 1111, 1° comma, c.c.); ugualmente se possa pregiudicare il patrimonio (art. 717 c.c.): queste disposizioni hanno tanto più necessità di essere applicate nell’ambito della comunione familiare dove uno dei coniugi potrebbe essere pregiudicato da un’immediata divisione.
Le modalità di divisione sono quelle comuni:
a) anzitutto la divisione in natura (art. 718 e 1114 c.c.), salvo conguaglio in denaro (art. 728 c.c.);
b) in difetto l’assegnazione dei beni al coniuge che ne abbia chiesto l’attribuzione (ma in caso di richiesta di entrambi non è ipotizzabile la scelta a favore del quotista che è titolare della quota maggiore, poiché i coniugi hanno quota eguale, art. 720 c.c.);
c) come ultima soluzione, l’incanto (artt. 720 e 721 c.c.);
d) l’assegnazione delle porzioni mediante sorteggio e la loro.
Come detta l’art.1116 c.c., nell’ambito della comunione ordinaria, si rinvia al regime della divisione della comunione ereditaria art. 713 ss. c.c.
Non avranno applicazione le disposizioni che presuppongono la volontà del testatore, che nel mostro ambito manca per definizione: dilazione della divisione (art. 713 c.c.), norme dettate per la divisione oppure divisione fatta dallo stesso testatore (artt. 733 e 734 c.c.). Ugualmente quelle che discendono dalla qualità di erede, come la prelazione ex art. 732 c.c.
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