I rapporti patrimoniali tra coniugi e la crisi dell’impresa: effetti del fallimento e delle altre procedure concorsuali Prof. Claudio Cecchella, Università di Pisa
(relazione tenuta al Corso di specializzazione in Diritto patrimoniale della famiglia, organizzata dalla Scuola Sant’Anna, Pisa, 25 giugno 1008)
1. Premessa.
Il tema degli effetti del fallimento e delle altre procedure concorsuali sui rapporti patrimoniali tra coniugi, coinvolge numerosi istituti, sia del diritto patrimoniale familiare sia del diritto fallimentare.
a) Anzitutto l’istituto, nella individuazione dei presupposti della fallibilità e dell’assoggettabilità a concordato preventivo, dell’impresa familiare.
b) Quindi gli effetti della sentenza dichiaratrice di fallimento o della ammissione a qualche altra procedura di natura liquidatoria sul regime patrimoniale per così dire ordinario della famiglia, che è la comunione legale tra i coniugi, ove sono implicate e spesso confliggono le esigenze della conservazione della comunione a tutela del coniuge debole e della famiglia rispetto all’esigenza liquidatoria del fallimento, con un opzione del legislatore, come vedremo verso questo ultimo obiettivo.
c) Altro tema di grande interesse postulato dagli effetti della dichiarazione di fallimento (mentre in questo caso non hanno rilievo diverse procedure concorsuali come il concordato preventivo o l’accordo di ristrutturazione dei debiti) sugli atti di disposizione dei coniugi, ove importanti novità discendono dalle recenti riforme della legge fallimentare del 2006 e 2007, in relazione agli artt. 69 e 70 della cit. legge.
d) Infine una serie di temi minori, come quello del sussidio all’imprenditore fallito e alla sua famiglia, sino al riconoscimento di un diritto di abitazione e al rilievo del fallimento in relazione ai rapporti imprenditoriali tra coniugi.
2. La fallibilità dell’impresa familiare.
E’ noto come nell’inquadramento giuridico dell’impresa tra coniugi, nei rapporti esterni vale la qualificazione in termini di impresa individuale (solo all’interno dei rapporti tra coniugi, quanto alla regolamentazione dei benefici economici, ha rilievo il rapporto associativo) e perciò fallisce, ed è ammesso al concordato preventivo (per il richiamo ad entrambi contenuto nell’art. 1 della l. fall.), il solo imprenditore individuale a cui è riferibile l’impresa, puché ovviamente siano riscontrati i requisiti quantitativi relativi a patrimonio, ricavi e passivo, fissati nell’art. 1 cit.
Se tuttavia i coniugi manifestano all’esterno una realtà societaria, spendendo tale regime nei rapporti con i terzi e svolgendo, nella veste di amministratori e rappresentanti dell’impresa, attività di gestione e rappresentanza esterna, ne risulta inevitabile una fallibilità estesa a tutti, dovendosi riconoscere tra di essi una società una società di fatto che si sovrappone all’impresa regolata dall’art. 230 bis c.c. La giurisprudenza è tuttavia tendenzialmente rigorosa – in un contesto di rapporti familiari – nella ricerca della prova del vincolo societario, che legittima un’estensione della fallibilità a tutti i componenti, in modo da rinvenire una reale affectio societatis prevalente sulla affectio familiaris, non potendo essere bastevole il semplice conferimento o il pagamento dei creditori da parte del coniuge (atti equivoci che possono giustificarsi sulla base della seconda affectio).
3. I limiti all’azione di divisione e l’origine processuale della cause di scioglimento della comunione.
L’azione di divisione, che costituisce ex art. 1111, 1° comma, c.c. l’esercizio di un diritto potestativo, in corrispondenza con la regola generale di disfavore verso la comunione, trova nella comunione tra i coniugi un regime accentuatamente limitativo, a protezione degli interessi sostanziali cui presiede, essendo esercitabile solo in coincidenza di fattispecie di scioglimento tipizzate dal legislatore.
Infatti l’azione di divisione non è libera, ma ammessa esclusivamente nella fattispecie di c.d. scioglimento della comunione legale dettate dall’art. 191, 1° comma, c.c., il quale regola ipotesi tassative, per lo più ritenute non derogabili per atto volontario delle parti, che non assuma i contenuti e le forme della convenzione matrimoniale (integrante appunto un caso di scioglimento). Invero, sul piano tecnico, la divisione più che provocata dalle cause di scioglimento è – come vedremo - un effetto del provvedimento giurisdizionale: l’art. 191 cit. disciplina semplicemente i presupposti legali che consentono l’esercizio dell’azione di divisione, poiché sarà solo la successiva divisione giudiziale a provocare lo scioglimento.
I casi di scioglimento (dichiarazione di assenza o di morte presunta; annullamento; scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio; separazione personale, separazione giudiziale dei beni, mutamento convenzionale del regime, infine fallimento di uno dei coniugi) si generano nel processo, poiché, salvo la convenzione tra coniugi, è assai spesso il processo a provocare i presupposti che abilitano i coniugi all’azione di divisione.
4. Le cause processuali di scioglimento della comunione familiare.
Nell’ambito del processo, le fattispecie che consentono lo scioglimento sono il risultato di alcune sentenze costitutive, con cui si concludono i processi familiari: la sentenza di invalidazione del vincolo matrimoniale, la sentenza di divorzio, la sentenza di separazione (o l’omologa della separazione consensuale), la sentenza di separazione giudiziale dei beni. Lo scioglimento è, per quella che interessa nella presente sede, consentito quando è dichiarato il fallimento di uno dei coniugi.
Ad eccezione della prima, le altre cause processuali che abilitano all’azione di divisione non destano problemi di individuazione (sarà problematico come tra poco vedremo il momento in cui l’effetto potrà dirsi prodotto). Infatti il legislatore usa il termine “annullamento”, che per un verso sembra escludere i casi di nullità in senso stretto e per altro sembra limitare, quanto alle nullità, la praticabilità dell’istituto esclusivamente nel caso di matrimonio putativo (ne risulterebbe infatti conservato l’effetto della comunione). Saremo propensi tuttavia ad una lettura estensiva, che ricomprende qualsiasi ipotesi di invalidazione (salvo i casi di radicale inesistenza dove la comunione spirituale e materiale non può dirsi neppure istaurata: es. matrimonio tra persone dello stesso sesso o senza consenso) e che non limiti i casi di nullità al matrimonio putativo, il quale tra l’altro può avere rilevanza per uno solo dei coniugi, ciò che confligge con il regime della comunione che li deve coinvolgere entrambi. Quindi annullamento, da intendersi come invalidazione in genere.
Quanto altre altre cause processuali, non sorgono dubbi interpretativi:
a) La sentenza di divorzio, quando ovviamente abbia causa in un presupposto diverso da quello della separazione personale dei coniugi (ché lo scioglimento in tal caso discende ancor prima, proprio dalla separazione);
b) la separazione, sia essa dettata da una sentenza (anche parziale) in sede giudiziale o provenga da un separazione consensuale omologata;
c) la separazione giudiziale dei beni, fondata sulla incapacità assoluta o relativa del coniuge o su di una cattiva amministrazione oppure su di una amministrazione che metta in pericolo gli interessi dell’altro coniuge, della comunione o della famiglia o, ancora, sul disordine negli affari o infine sulla mancata contribuzione proporzionale;
d) la sentenza che dichiara il fallimento.
5. Segue. Il momento in cui si perfezionano.
Il vero nodo interpretativo, invece, è quello del momento in cui la rimozione del divieto di divisione si produce:
- dalla pronuncia della sentenza di primo grado
- oppure dal suo passaggio in giudicato e, ancora,
- con effetti che retroagiscono al momento della domanda
- oppure ex nunc, che si producono soltanto nel tempo dell’effettivo passaggio in giudicato della sentenza (alla scadenza, a seconda dei casi, del termine lungo o breve per impugnare).
Le conseguenze non sono di poco momento: se l’atto di acquisto si perfeziona durante la pendenza del processo e sino allo scadere del termine per la impugnazione della sentenza il bene continua a cadere nella comunione oppure, per introdurre l’azione di divisione, la parte dovrà attendere tre gradi di giudizio.
In ordine a questo delicato problema, ove si consumano – sia consentito sottolinearlo da subito – garanzie di rango costituzionale come la tutela giurisdizionale dei diritti, non potendo la durata del processo andare a detrimento di chi ha ragione e dovendo perciò la sentenza retroagire – anche in relazione ai suoi effetti costitutivi – al momento della proposizione della domanda, continua ad influenzare la giurisprudenza la natura costitutiva del provvedimento giudiziale, che per tradizione origina dal giudicato e con effetti che non retroagiscono, ancora tradizionalmente, alla domanda.
Pur in mancanza di un’espressa previsione di diritto positivo (ché l’art. 282 c.p.c. sembra affidare gli effetti della sentenza al suo primo grado), si può convenire che per gli effetti di grande rilievo della sentenza costitutiva, laddove abilitano al giudice di intervenire nella sfera giuridica di un soggetto, essi non possano essere destinati di massima ad una pronuncia emessa al termine di un grado di giudizio (anche solo per le difficoltà di un ripristino dell’assetto dei diritti precedente nel caso in cui venga riformata nei gradi successivi, anche a tutela dell’affidamento dei terzi), ma non si riesce ad intendere la ragione per la quale effetti destinati al giudicato non possano retroagire alla domanda, ponendo a carico della parte che ha ragione le conseguenze dei tempi necessari al formarsi del giudicato.
Vi è poi da aggiungere che una regola che fa muovere gli effetti costitutivi a partire soltanto dal giudicato non può essere generalizzata, dovendosi forse distinguere caso da caso: alcuni effetti, per i beni giuridici in gioco, posso certamente maturare dalla sentenza, anche se non definiva, e forse lo scioglimento della comunione dei coniugi è uno di questi. Come vedremo proprio la sentenza dichiaratrice di fallimento ne costituisce concreta applicazione positiva.
Alla luce della consolidata giurisprudenza di legittimità, è forse inevitabile un intervento del legislatore.
Certamente non sarà facile applicare, anche se qualche lettura in tale direzione si coglie nella dottrina processualistica, l’art. 282 c.p.c. sull’efficacia esecutiva della sentenza di primo grado, essendo la efficacia esecutiva cosa diversa dalla efficacia costitutiva di un nuovo assetto giuridico e quindi è inevitabile ipotizzare che la causa di scioglimento non possa prodursi prima del passaggio in giudicato della sentenza che ha pronunciato l’invalidità del matrimonio, il suo scioglimento, la separazione personale dei coniugi, la separazione giudiziale dei beni.
Ma quando il giudicato si è prodotto è difficile pensare che non produca effetti retroattivi sino dal momento della domanda e che la durata del processo debba pregiudicare chi ha ragione e ha diritto di ottenere la divisione del patrimonio comune (sollecitata la Corte cost. 7 luglio 1988, n. 795 non è andata oltre una pronuncia di inammissibilità, vedi l’ordinanza in Foro it., 1989, I, 928).
La contraria costruzione, in modo stereotipato, è ribadita dalla giurisprudenza (ex plurimis, cfr., Cass., 24 luglio 2003, n. 11467, in Foro it., 2003, I, 2966; Cass., 2 settembre 1998, n. 8707, in Vita not., 1998, I, 1605), salva qualche eccezione da parte di alcuni giudici di merito (Trib. Genova, 17 luglio 1986, in Dir. Fam., 1988, 256; Trib. Milano, 20 luglio 1989, ivi, 1990, I, 161), che individuano il prodursi dell’effetto già dal momento in cui il presidente con i provvedimenti dell’art. 708 c.p.c. autorizza i coniugi a vivere separati.
Ora vi sono ragioni che attengono alla ratio della disciplina, unita a precisi richiami positivi che fanno propendere, come molti Autori, per una tesi diversa:
a) La ratio della conservazione del regime della comunione legale è quella della persistenza della comunione morale e materiale su cui è fondato il matrimonio: quando i coniugi sono autorizzati a vivere separati (effetto che correttamente la stessa giurisprudenza ricollega al deposito del ricorso per separazione), non ha veramente significato imporre la conservazione del regime della comunione, facendo produrre la causa di scioglimento solo al momento del passaggio in giudicato della sentenza, se non quella di sottoporre il coniuge che ne ha diritto al ricatto odioso della dilazione di tutela.
b) Peraltro anche la sacralità dell’efficacia solo ex nunc della sentenza costitutiva è tutta da rimeditare e non sembra avere basi positive, particolarmente quando è introdotto un regime di pubblicità della domanda. Che significato ha infatti tale regime se non quello di far prenotare, dal momento della domanda, gli effetti della sentenza costitutiva, almeno nei confronti di terzi. Ora è noto come alla luce del regolamento sullo stato civile (d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396, art. 69 lett. c, ma anche art. 4, 3° comma, legge n. 898 del 1970) devono essere annotate non solo le sentenze, ma anche le domande introduttive del procedimento divorzile (per cui se l’effetto scaturisce dall’annotazione della sentenza ex art. 10 legge n. 898 del 1970, esso non può non retroagire al momento dell’annotazione della domanda). L’applicazione dettata in materia di divorzio potrebbe in via analogia essere applicata anche al procedimento di separazione o di invalidazione (per il primo l’analogia è superata dal rinvio compiuto dalla legge n. 74 del 1987, art. 23, all’art. 4, pure per le separazioni). Non si dimentichi poi che anche la domanda di scioglimento della comunione tra coniugi, se vi è un immobile nella comunione, è soggetta a trascrizione ex art. 2653, n. 4 c.c. e il riferimento generico allo scioglimento potrebbe far pensare alle domande introduttive dei procedimenti che conducono allo scioglimento, come il divorzio, la separazione, l’invalidità e così via.
c) Esiste, poi, una disposizione nella direzione che andiamo cercando che è costituita dall’art. 193, 4° comma e 5° comma, c.c., che in relazione a quella fattispecie di ulteriore scioglimento che è la separazione giudiziale dei beni stabilisce perentoriamente: “La sentenza che pronuncia la separazione retroagisce al giorno in cui è stata proposta la domanda ed ha l’effetto di instaurare il regime di separazione dei beni regolato nella sezione del presente capo, salvi i diritti di terzi” e ancora “La sentenza è annotata a margine dell’atto di matrimonio e sull’originale delle convenzioni matrimoniali” e si è ritenuta pure annotabile la domanda.
Ora non è francamente giustificabile, anche sul piano di un principio di ragionevolezza ed eguaglianza, un regime così intensamente diverso per fattispecie identiche, soltanto il regime retroattivo degli effetti della sentenza è in linea poi con i principi costituzionali del diritto di azione ( e dopo la previsione nel cit. art. 193 anche del diritto di eguaglianza e ragionevolezza). Peraltro si è anche sostenuto che una volta che è introdotta un’azione di scioglimento degli effetti del matrimonio oppure di separazione è pure introdotta l’azione di separazione giudiziale dei beni.
Vi sono pertanto ragioni sistematiche, che impongono di comparare la regole processuali con quelle sostanziali, e spunti di diritto positivo, dal regime della annotabilità nei registri di stato civile della domanda e della sentenza, al regime della trascrivibilità della domanda, sino al regime particolare della domanda e della sentenza di separazione giudiziale dei beni contenuta nel 3° e 4° comma dell’art. 193 cit., che devono indurre ad un’interpretazione contrastante da quella espressa dalla giurisprudenza, laddove riconduce l’effetto costitutivo provocato dal giudicato al momento e solo al momento in cui il giudicato si forma.
6. La sentenza dichiaratrice di fallimento come causa di scioglimento.
L’art. 191 c.c., contempla tra le ipotesi che consentono la divisione anche il fallimento: la ragione è da ricercare nelle esigenze della liquidazione concorsuale, che non possono incontrare i limiti discendenti dalla comunione patrimoniale tra coniugi. In concreto l’ufficio fallimentare deve potere disporre senza dilazione dei beni che spettano al coniuge fallito all’esito di un giudizio di divisione.
Per questa ragione saremo propensi a negare un’estensione dell’istituto (e non solo per la ritenuta tassatività delle ipotesi) quando la procedura concorsuale non faccia prevalere una ragione liquidatoria, del tipo di quella espressa nel fallimento.
Quindi il concordato non conduce alla stessa regola, salvo – si è ritenuto prima della riforma fallimentare - il caso del concordato con cessione dei beni, dove l’effetto traslativo di diritti può collidere con il regime della comunione. Ma si deve dire che alla luce del nuovo art. 160 l. fall., dovuto alle riforme del 2006 (d. lgs. n. 5 del 2006) e del 2007 (d. lgs. n. 169 del 2007), l’ampiezza dei contenuti del concordato, non più limitato alla ipotesi del c.d. concordato con garanzia destinato ad una dilazione e falcidia, ove normalmente il patrimonio si conserva, oppure al concordato con cessione dei beni, destinato invece inevitabilmente alla liquidazione, si pongono tutta una serie di nuove soluzioni negoziali della crisi dell’imprenditore.
Ora il verificarsi della causa di scioglimento dipenderà dal carattere o meno liquidatorio della soluzione concordataria, la cui ragione è fatta prevalere dalla legge su quella che ispira la comunione patrimoniale tra coniugi.
Ugualmente l’amministrazione straordinaria, che ha funzione analoga a quella del fallimento, e pertanto beneficia dello stesso regime ai fini dello scioglimento della comunione.
La peculiarità del fallimento poi sta nella sua efficacia immediata, sin dal momento in cui la sentenza è depositata in cancelleria (ugualmente il decreto di omologa del concordato). Dunque in deroga alle altre ipotesi ove la causa di scioglimento si produce solo con il giudicato della sentenza che la conosce, nell’ambito concorsuale – ancora come effetto di favore – la causa si realizza semplicemente quando è accertata in primo grado e quindi la sentenza è depositata in cancelleria (cfr. Cass. 18 maggio 1976, n. 3047, in Giust. Civ. 1976, I, 1557). Gli effetti, tuttavia,si produrranno dalla sentenza e non saranno destinati a retroagire dalla domanda, secondo un regime che caratterizza la sentenza fallimentare.
La sentenza fallimentare non sembra porre problemi di pubblicità, ai fini dell’opponibilità ai terzi, poiché la iscrizione nel registro delle imprese offre quella efficacia verso terzi che rende opponibile anche l’effetto di scioglimento della comunione tra coniugi, come regolano in modo inequivocabile oggi gli artt. 16 e 17 l. fall. Non sembra quindi giustificato il tentativo della dottrina civilistica di costruire – ai fini della opponibilità ai terzi- un regime di annotazione della sentenza che dichiara il fallimento di uno dei coniugi.
Con l’abrogazione dell’art. 70 l. fall., ovvero dell’istituto ivi regolato della presunzione muciana, peraltro fortemente ridimensionato da un’interpretazione abrogratrice della giurisprudenza che aveva sottolineato l’incompatibilità giuridica della presunzione con la comunione patrimoniale tra coniugi (discendendone una sostanziale abrogazione dell’istituto se uno dei coniugi aveva l’avventura di cadere in una vicenda fallimentare), l’opponibilità della comunione al fallimento non incontra limiti e l’effetto ex lege dell’appartenenza alla comunione di tutti i beni acquistati da uno dei coniugi durante il matrimonio non incontra neppure la limitazione dell’azione revocatoria, che può colpire soltanto effetti che hanno il loro fondamento su atti volontari intervenuti tra coniugi (novellato art. 69 l. fall.).
Qualche problema interpretativo pongono la revoca che fa seguito all’esito favorevole del reclamo avverso la sentenza che dichiara il fallimento e la chiusura del fallimento, che fa seguito all’esaurimento dei suoi obiettivi all’impossibilità di raggiungerli. In questi casi viene meno la ratio dello scioglimento e la scelta originaria dei coniugi nella continuità del matrimonio non può non avere reviviscenza, ciò potrà avvenire solo con effetti ex nunc (revoca e chiusura sono soggetti alla pubblicità della sentenza dichiaratrice, agli effetti della opponibilità verso i terzi).
7. Gli atti tra coniugi nella revocatoria fallimentare.
Venendo agli effetti della revocatoria fallimentare, si deve dire che il legame dei coniugi, costituito dall’unione matrimoniale è all’origine di complicità ed iniziative tra le più insidiose e pregiudizievoli per i creditori e rende ragione della maggiore severità di disciplina dovuta soprattutto alla più evidente consapevolezza della insolvenza dell’imprenditore da parte del coniuge.
La legge ne prende atto nell’art. 69, 1° comma. La disposizione è stata interamente riscritta dalla riforma.
Secondo tale disposizione,
a) da un lato, la conoscenza dello stato di insolvenza è presunto per tutte le ipotesi dell’art. 67, ivi comprese quelle che ai sensi del 1° comma onerano della relativa prova il curatore e,
b) dall’altro, non ha più rilievo il periodo sospetto: per l’intero tempo di durata del matrimonio, dal momento in cui il fallito ha iniziato ad esercitare un’impresa commerciale (fermo restando la prescrizione dell’azione revocatoria secondo le regole generali) gli atti di disposizione con il coniuge possono essere inficiati.
Al curatore è sufficiente provare che l’atto è stato compiuto quando il fallito già esercitava l’impresa e in costanza di matrimonio; tutte le ulteriori circostanze di fatto rilevanti devono essere provate dal convenuto e particolarmente la mancata conoscenza dello stato di insolvenza (ovvero la sua insussistenza all’epoca in cui si è perfezionato l’atto di disposizione).
Il richiamo originariamente del solo art. 67 , rendeva applicabili al coniuge del fallito gli artt. 64 e 65 della stessa legge, con un regime incomprensibilmente più favorevole dovuto all’applicazione del periodo sospetto (i due anni dalla dichiarazione di fallimento). Ne è conseguito un intervento della Corte costituzionale (sentenza n. 100 del 19 marzo 1993), la quale ha attratto anche tali disposizioni nell’orbita dell’art. 69. Oggi dopo la novella del 2006 il richiamo è espresso, discendone, tuttavia, ancora un agevolazione per il coniuge, che si avantaggia dalla possibilità di fornire la prova contraria, prova esclusa invece dagli artt. 64 e 65 che com'è noto non offrono rilevanza alla conoscenza dello stato insolvenza.
8. L’abrogazione della presunzione muciana.
E' stato invece abrogato l’istituto della presunzione muciana (vecchio tenore dell'art. 70) nato storicamente nel diritto romano con tutt’altro significato (quello di rimuovere i sospetti sulla provenienza delle somme usate dalla moglie per l’acquisto, che si presupponevano perciò dono del marito, in un contesto di evidente disparità tra i coniugi), mal conciliabile con i principi del nuovo diritto di famiglia, dovuti alla riforma del 1975 (legge 19 maggio 1975, n. 151). Tanto che, alla luce della più recente giurisprudenza, poteva già dirsi rimosso dal nostro sistema giuridico.
Infatti era ormai prevalente l’indirizzo di un’abrogazione per incompatibilità, sia che il principio fosse confrontato con il regime della comunione patrimoniale tra i coniugi, sia con quello della separazione dei beni.
a) La presunzione muciana dell’art. 70 induceva a ritenere che gli acquisti del coniuge durante il matrimonio si presumessero effettuati con denaro dell’imprenditore poi fallito, salvo la prova contraria (che è prova non agevole, non essendo sufficiente dimostrare la disponibilità di somme all’epoca dell’acquisto, ma il loro effettivo impiego nell’acquisto medesimo).
Invero i principi che hanno ispirato il legislatore nell’introdurre come ordinario il regime della comunione (art. 159 c.c.), ovvero l’assicurazione di una tutela per il coniuge economicamente più svantaggiato, particolarmente se privo di un reddito di lavoro, trovavano una stridente soluzione di continuità nell’istituto in esame. Infatti in forza del regime della comunione, qualunque sia la provenienza delle disponibilità necessarie per l’acquisto in costanza di matrimonio (quindi offrendo irrilevanza a quanto invece la presunzione muciana da rilievo), il bene viene sempre fatto cadere nella comunione (art. 177, lett. a, c.c.). Se a tale risultato si accompagna la regola che ispira la presunzione muciana (regola invece che offre rilievo alla provenienza del denaro necessario), il coniuge dell’imprenditore fallito sarà per definizione escluso dalla comunione, per quota pari alla metà in virtù dell’art. 177 cit. e per l’altra quota in applicazione dell’art. 70, con un risultato assolutamente inaccettabile alla luce dei principi che hanno ispirato la riforma e particolarmente il regime della comunione dei beni.
b) Ma l’incompatibilità non era meno evidente anche in relazione al regime della separazione. In tal caso il legislatore della riforma del diritto di famiglia intende, seppure con un’opzione espressa, che i coniugi devono esprimere al momento del matrimonio o in apposita convenzione successiva (art. 162 c.c.), preservare l’autonomia dei patrimonio, rendendo il patrimonio dell’uno del tutto insensibile alle iniziative dell’altro e assicurando l’effettività degli acquisti personali come manifestazione dell’autonomia reddittuale di chi ne fosse autore. Beni giuridici assicurati anche con l’art. 193 c.c. che sancisce la separazione giudiziale dei beni nel caso di cattiva amministrazione dei beni della comunione o di disordine negli affari di uno dei coniugi, ovvero quando di norma il coniuge entri in stato di insolvenza. Pertanto il principio di autonomia e la conseguente tutela del coniuge dagli atti dell’altro confligge pure esso in modo irrimediabile con i principi fallimentari e giustifica anche in questa diversa prospettiva l’abrogazione per incompatibilità.
Il giudice di legittimità autore di tale condivisibile orientamento aveva tentato anche la via della incostituzionalità, che la Corte tuttavia aveva respinto ritenendo che le opzioni sui regimi patrimoniali della famiglie e sulle loro ricadute in ordine ai creditori di uno dei coniugi dovesse essere lasciato alla libertà del legislatore (cfr. Corte Cost., 29 giugno 1995, n. 286).
La norma sulla presunzione muciana è stata definitivamente abrogata con l'intervento di riforma sull'art. 70.
La tutela dei creditori verso gli atti di disposizione del coniuge del fallito è oggi assicurata esclusivamente da disposizioni come l’art. 69 o dalle ordinarie azioni sulla simulazione dei contratti.
9. L’inquadramento, ai fini della revocatoria, degli atti di costituzione di un fondo patrimoniale.
Un problema di un certo interesse è costituito dall’inquadramento fallimentare dell’istituto del fondo patrimoniale.
Anzitutto il fallimento non è motivo di scioglimento del fondo, non essendo contemplato tra i casi dell’art. 171 c.c.; perciò, se debitamente annotato e trascritto, ovvero costituito con atto avente data certa (la forma ad substantiam dell’atto pubblico risolve anche questo profilo, cfr, l’art. 167 c.c.), opponibile alla massa fallimentare.
Il problema si sposta dunque tutto sul fronte dell’efficacia, agli effetti della par condicio dell’atto, ovvero sulla sottoponibilità dell’atto costitutivo del fondo all’azione revocatoria fallimentare. Sotto questo profilo è pacifica la qualificazione dell’atto come atto a titolo gratuito, sia agli effetti della revocatoria ordinaria che agli effetti della revocatoria fallimentare.
Ne consegue l’applicazione dell’art. 2901, 1° comma, c.c. ovvero l’irrilevanza dello stato soggettivo del terzo ai fini della revocabilità ordinaria (applicabile in sede fallimentare ai sensi dell’art. 66 l. fall.).
Ne consegue, altresì, l’applicazione del regime severo dell’art. 64 l. fall., ovvero la revocabilità senza rilievo di presupposti costitutivi diversi dall’essere l’atto compiuto nei due anni anteriori dalla dichiarazione di fallimento, non rientrando tra i doveri morali imposti dal matrimonio, per il suo regime di libertà e non di doverosità (ché altrimenti il fondo dovrebbe sempre essere costituito).
E’ opportuno ricordare che i frutti del fondo patrimoniale sono esclusi dalla massa e restano beni personali ai sensi dell’art. 46 n. 3 l. fall., risolvendo dubbi che per la mancata menzione proponeva il regime previgente.
Ugualmente inefficaci secondo l’art. 64 l. fall. le convenzioni matrimoniali, con le quali siano assoggettati al regime di comunione i beni acquistati dai coniugi prima della legge 151 del 1975 (ai sensi dell’art. 228), mentre le convenzioni destinate semplicemente a modificare il regime, da quello di comunione a quello di separazione sono efficaci e opponibili, e non costituiscono un atto di disposizione in relazione ai beni che già appartenevano ai coniugi in regime di comunione prima della convenzione.
10. Il sussidio per il mantenimento del fallito e della sua famiglia.
Già l’art 46 n. 2 l. fall. a garanzia del mantenimento del fallito e della sua famiglia – i cui limiti sono determinati con decreto del giudice delegato – esclude dalla massa attiva gli assegni fallimentari, gli stipendi, i salari, le pensioni del fallito.
La disposizione solo apparentemente richiama una terminologia tipica del rapporto di lavoro subordinato, poiché il generico riferimento a ciò “che il fallito guadagna con la sua attività” consente un’estensione ad attività di lavoro autonomo o libero professionale, sino anche ad attività imprenditoriali (esercitate con beni personali che sono sottratti alla massa).
Il concetto di “mantenimento” sembra proporsi come più ampio di quello postulato da un’esigenza strettamente alimentare, tale da consentire al fallito e alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa (con il parametro dell’art. 36 Cost.) e deve coordinarsi con l’eventuale mantenimento riconosciuto al coniuge separato o divorziato. In proposito non è dubitabile il carattere pregiudiziale della determinazione da parte del giudice delegato della quota del reddito del fallito destinata al mantenimento, a cui deve coordinarsi invece il giudice della separazione e divorzio nella liquidazione del corrispondente diritto (potendosi ipotizzare una modifica di una preesistente determinazione confliggente). Peraltro tale pregiudizialità pare dettata dalla norma nel 2° comma, laddove, con innovazione dovuta alla riforma, il giudice dovrà tenere conto nella sua determinazione anche della “condizione” della famiglia del fallito. Certamente nella determinazione il giudice non è vincolato dai limiti alla pignorabilità dettati dal codice di rito (art. 545 c.p.c.) o da altre leggi speciali (come il t.u. 5 gennaio 1950, n. 180 sugli impiegati dello Stato e degli Enti pubblici).
L’art. 47 l. fall. disciplina invece il caso in cui il fallito resti del tutto privo di reddito, per non essere parte di un rapporto di lavoro subordinato o autonomo, oppure per non svolgere alcuna attività fonte di redditi. In tal caso per il fallito e per la sua famiglia si pone la necessità di un sussidio a carico della massa, che la disposizione pone solo a titolo di “alimenti” e non più di mantenimento.
In tal modo l’imprenditore commerciale gode comunque di un regime più favorevole rispetto al debitore dell’esecuzione individuale, che non beneficia di un corrispondente trattamento.
Il credito per sussidio deve essere trattato come credito in prededuzione (si è sostenuto una sorta di adempimento posteriore ai crediti nascenti dalla gestione del patrimonio, ma l’ipotesi di tertium genus tra crediti concorsuali e crediti in prededuzione non ha basi positive); pertanto il credito subisce le regole della graduazione collocandosi come uno dei tanti crediti in prededuzione, se l’attivo è insufficiente, altrimenti può essere subito soddisfatto (art. 111 – bis, 3° e 4° comma, l. fall.). La previa determinazione del g.d., sentito il comitato e il curatore, esclude la necessità di una previa insinuazione.
La determinazione è soggetta a reclamo ex art. 26 l. fall., innanzi al Tribunale, e successivamente, per il coinvolgimento di un diritto soggettivo è impugnabile con ricorso straordinario innanzi alla Corte di cassazione (a seguito della riforma del d. lgs. n. 40, anche con il controllo dell’esercizio della discrezionalità del giudice mediante il sindacato di motivazione, art. 360, u. c., c.p.c.). Il profilo non è affatto pacifico, poiché si è sostenuto anche in sede di legittimità che il diritto non esiste senza il provvedimento, per la discrezionalità che ne è la base: al contrario pensiamo che un cattivo esercizio della discrezionalità non può essere all’origine della negazione di un diritto che coinvolge esigenze primarie e vitali del fallito e della sua famiglia e quindi sia sindacabile per il carattere derisorio su diritti del provvedimento.
La discrezionalità dovrà tener conto non solo dell’esigenza alimentare, ma anche degli interessi dei creditori, bilanciandoli con quella contraria dell’imprenditore e della sua famiglia, per cui si è ritenuto che in caso di insufficienza di attivo ben può il giudice negare il sussidio, avendo nella sufficienza di attivo il diritto un suo fatto costitutivo.
La riferibilità alla “famiglia” del sussidio pone poi il problema della sua identificazione esatta.
Si potrebbe identificare in coloro che possono far valere nei confronti dell’imprenditore un diritto agli alimenti, ma l’ipotesi è criticabile poiché dopo la dichiarazione di fallimento è discutibile che l’imprenditore sia ancora tenuto ad un obbligo alimentare. Ugualmente irrilevante è il riferimento ai familiari conviventi, poiché anche il coniuge separato senza addebito oppure il figlio affidato all’altro coniuge possono essere all’origine del sussidio. La nozione giuridiche che consente di dipanare la matassa è quella di familiare a carico a cui l’imprenditore deve provvedere.
Quanto alla legittimazione, oltre ad un’istanza dell’imprenditore, è da pensare che in via surrogatoria questa possa essere proposta agli organi fallimentari dal coniuge anche per i figli che ha in carico, e così per il coniuge separato o divorziato, pur degradando il mantenimento o l’assegno divorziale a mero sussidio. Sul piano procedimentale, non sono prescritte particolari forme e particolarmente quelle che regolano la insinuazione al pasivo: è da pensare ad un’istanza seguita da un decreto.
11. Il diritto all’uso della casa di abitazione.
Il 2° comma dell’art. 47 in esame, fissa un diritto particolarmente incisivo, poiché antepone alla liquidazione le esigenze abitative del fallito e della sua famiglia, dovendosi comunque rispettare la destinazione originaria dell’immobile.
Il diritto non sembra assoggettato ad un potere discrezionale del g.d., ma dovuto quando si presentano concomitanti tre elementi costitutivi fissati dal legislatore:
a) essere la casa familiare di proprietà del fallito;
b) essere destinata all’abitazione sua e della sua famiglia al momento della dichiarazione di fallimento;
c) essere necessaria per la perduranza di tali esigenze (non avendo il fallito e la sua famiglia diversa alternativa).
Il diritto all’uso, che è qualificato come diritto reale, non impedisce tuttavia la liquidazione del bene secondo alcuni, secondo altri invece imporrebbe una liquidazione posteriore del bene immobile interessato. Questa seconda impostazione sembra avere maggiore fondamento, poiché non è dato qualificare giuridicamente il diritto del fallito opponibile all’acquirente in vendita forzata. D’altra parte è difficilmente dubitabile che l’atto di trasferimento coattivo del bene venduto forzatamente in sede fallimentare non possa assurgere a titolo esecutivo per il rilascio dell’immobile e che all’acquirente sia opponibile il diritto di uso del fallito e della sua famiglia.
La locazione per esigenze abitative, secondo la giurisprudenza, attiene alla sfera dei rapporti personali sottratta alle leggi del concorso; dunque: il curatore non potrebbe, neppure nell’attuale regime di continuità soggetta a scioglimento per atto unilaterale del curatore, procedervi; il rapporto conserverebbe perciò piena continuità e sarebbe soggetto alle regole comuni, potendo il fallito procedere al pagamento de canone con beni personali ex art. 46 l. fall. oppure con l’aiuto di un familiare.
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