Introduzione ad un volume sulle impugnazioni...tratto da www.judicium.it
ROMANO VACCARELLA I
ntroduzione* La presentazione di un volume sulle impugnazioni merita di iniziare,
come le favole, con un “c’era una volta”. 1.- C’era una volta il pretore, giudice togato monocratico, situato nel mezzo tra il buon conciliatore ed il Tribunale, giudice togato collegiale; e il pretore c’era anche in penale, insieme con il Tribunale, ma aveva l’intollerabile difetto di essere anche colui che incarnava l’accusa nella fase predibattimentale e che, rinviato a giudizio l’imputato, gestiva il dibattimento valendosi di un “raccogliticcio” pubblico ministero d’udienza.
Questo intollerabile difetto – in un Paese che, ancora oggi, si strappa i capelli all’idea di separare le carriere dei giudicanti e dei requirenti – fu sanato dal nuovo codice di procedura penale del 1989 dotando finalmente il pretore di un suo stabile pubblico ministero e finalmente restituendolo alla pura funzione giudicante: il mandamento, però, era troppo piccolo perché potesse ospitare anche un p.m., e così il territorio del pretore – sia penale che civile – si allargò al circondario, coincidendo con quello del Tribunale.
Il codice di procedura civile, però, non era attrezzato per recepire la novità, ma a tanto provvide una leggina (n. 30 del 1989, seguita da un
D.L., n. 173, di interpretazione autentica) che – utilizzando la locuzione tecnicamente pregevole di «affari civili che rientrano nel territorio della sezione» distaccata – escluse che le questioni di «appartenenza» delle cause alle sedi distaccate e/o alla sede circondariale potessero definirsi come questioni di competenza, e previde che esse fossero risolte alla buona, con un’ordinanza non impugnabile: la dottrina più sensibile (quella, cioè, che era insorta contro lo scandalo del pretore-inquirente) e la Corte di Cassazione approvarono entusiaste questo primo trionfo del giusto (ante litteram) processo, realizzato – per eludere l’art. 25 Cost. - cambiando nome alla competenza.
Nelle more, il Parlamento stava lavorando a (quella che sarebbe stata) la legge n. 374 del 1991 – il buon conciliatore, laureatosi in giurisprudenza, sarebbe divenuto giudice di pace – nonché a (quella che sarebbe stata) la legge n. 353 del 1990: la quale – tra le tante cose “buone” che avrebbe portato, in primis le preclusioni collegate agli atti iniziali del giudizio – aveva in animo di rimediare allo scandaloso compromesso, nell’attuazione del chiovendiano principio di oralità, realizzato nel 1942 – con sacrificio dell’immediatezza – affidando al giudice istruttore la fase istruttoria e al collegio quella della decisione.
Si disse, all’epoca, che finalmente era stato attuato quel corollario dell’oralità che è costituito dalla «centralità» del giudizio di primo grado, dalla quale, come ulteriore corollario, discendeva l’esecutività ope legis della sentenza (non mancò chi disse che era immediatamente esecutiva
anche la sentenza di mero accertamento!); ma a quella «centralità» non solo non si pensò di far seguire – come chiedeva qualche fanatico dell’oralità – la soppressione dell’appello ma, anzi, si stabilì, quale “riequilibrio” della monocraticità del primo grado, la costante collegialità dell’appello (art. 48 ord. giud.).
Sopravvissuto all’idea che, in quanto giudizio «sulle carte» e non vivificato dalla «fresca brezza» del contatto diretto tra parti e giudice, esso dovesse essere soppresso, l’appello fu tuttavia – nonostante dovesse riequilibrare la normale monocraticità del giudizio di primo grado – sterilizzato attraverso la quasi totale soppressione dei nova: la coerenza del sistema – si disse – impediva che si consentisse in appello ciò che non era più consentito, dopo il maturare delle preclusioni, in primo grado e, nonostante l’esecutività ex lege della sentenza di primo grado escludesse che l’introduzione di nuovi elementi in appello fosse frutto del furbesco e masochistico espediente di tenere qualche asso nella manica per gettarlo sul tavolo in appello, la parte che non aveva osservato le preclusioni maturate in primo grado doveva essere inesorabilmente punita sbarrando la strada a qualsiasi novità.
In tal modo si sancì che l’appello serve a valutare l’opera del primo giudice, e a rimediare ai suoi errori, non a riformare sentenze oggettivamente ingiuste; utilizzare lo jus novorum significherebbe riformare sentenze non affette da errori del primo giudice e tuttavia ingiuste, ma compito dell’appello non è quello di rendere giustizia ma
solo di rimediare agli errori del primo giudice. In breve, l’appello sopravvisse, ma cambiò completamente natura e
funzione, assumendo connotati lato sensu cassatori, e si affermò definitivamente la tesi per cui i «motivi specifici» di cui all’art. 342 c.p.c. - ancorché senza necessità di formule particolari – devono individuare non solo il quantum appellatum, ma anche le censure mosse alla sentenza impugnata quali causa della sua asserita ingiustizia.
Ma l’infaticabile coerenza dei riformatori non si arrestò a questo punto: perché divenuto il Tribunale, normalmente, giudice monocratico, ci si avvide ben presto che il suo regno – il circondario – era troppo piccolo perché potesse ospitare anche il pretore; di qui la soppressione di quest’ultimo con il D. Lgs. n. 51 del 1998, ed il trasferimento al tribunale monocratico – finalmente strutturato, proprio perché monocratico, come esigevano i canoni chiovendiani – della massima parte delle competenze assegnate, dal vecchio art. 8 c.p.c., al pretore. Con l’occasione, l’appello contro le sentenze del giudice di pace passò al Tribunale monocratico: la garanzia del collegio era troppo per le cause bagattellari.
Non era difficile prevedere che l’improvvisa espansione delle competenze del Tribunale si sarebbe tradotta in un altrettanto improvviso aumento dei giudizi devoluti alla Corte d’Appello: aumento, peraltro, al quale avrebbe dato un consistente contributo la “qualità” delle sentenze che andavano sfornando i GOA, novelli “rottamatori” delle cause che avevano il solo torto di essere vecchie.
Alla boccheggiante Corte d’Appello – gravata anche dei ricorsi da legge Pinto, proposti (in gran parte) per i suoi ritardi – ben poco ha giovato il soccorso, dapprima giurisprudenziale (Cass. Sez. Un. n. 8202 e 8203 del 2005) quindi legislativo (legge n. 69 del 2009), consistito nella inammissibilità della produzione di nuovi documenti; la ragionevole durata del processo – asseritamente compromessa dal deposito di documenti – non ne trasse percepibili vantaggi.
2.- Restando nella metafora favolistica, l’appello era – a questo punto – in letargo come la bella addormentata; se si preferisce ricorrere alla cronaca, era caduto in coma profondo, come in un “ordinario” caso di malasanità, per essere stato sottoposto a cure alle quali era allergico.
Il principe delle favole – quello del bacio ... - si è presentato nelle vesti del c.d. governo tecnico: ma facendosi annunciare da un provvedimento – esalato come ultimo respiro dal precedente, moribondo governo (legge 12 novembre 2011 n. 183) – con il quale, quasi a dissuadere dal turbare il letargo così industriosamente generato, si comminava una «pena pecuniaria» (sic!) a chi osava proporre istanze di inibitoria che sarebbero state dichiarate inammissibili o manifestamente infondate.
Il governo “tecnico” – dopo aver abbandonato l’idea di proteggere la Corte d’Appello (e la Corte di Cassazione) con trappole nelle quali far cadere un buon numero di cause (D.L. 22 dicembre 2011, n. 212, recante l’istanza di permanente interesse alla decisione) – ha finalmente esposto
in modo non equivoco il suo pensiero sull’appello (non senza farsi precedere da un pesante aumento del contributo unificato): l’appello è un lusso che nuoce all’immagine dell’Italia nel mondo facendoci apparire (sic!) dotati di un sistema giurisdizionale simile a quello del Gabon e, come si conviene in periodi di crisi, i consumi di lusso vanno scoraggiati.
La più che zoppicante tecnica utilizzata per lanciare questo messaggio (D.L. n. 83, conv. in legge n. 134 del 2012) lo rende ancor più minaccioso: l’incertezza generata da formule di conio non pregiato è tale da rendere possibile, in futuro, qualsiasi soluzione, e da seminare il panico tra gli operatori che, per quanto scrupolosi nella redazione degli atti, sono tutt’altro che sicuri di non essere un domani bollati dal marchio dell’inammissibilità del loro atto.
In un primo tempo, l’attenzione di tutti è stata attratta soprattutto dall’ordinanza – non impugnabile – con la quale «il giudice competente» (preziosa precisazione!) dichiara inammissibile l’appello ... manifestamente infondato (che «non ha una ragionevole probabilità di essere accolto»), ma che consente di impugnare per cassazione la sentenza di primo grado: senza, tuttavia, poter utilizzare il n. 5 dell’art. 360 se l’inammissibilità – con l’ordinanza «succintamente motivata» - «è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata». Una «doppia conforme» che, anche al di fuori di questa ipotesi, preclude l’utilizzo del n. 5 dell’art. 360, e ciò nonostante si preveda che la «succinta motivazione» può consistere anche
nel «rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa»: al buon cuore della Corte di Cassazione stabilire se basterà – per la “conformità” - un “succinto” «si condivide quanto affermato a pag. X della sentenza o nella comparsa conclusionale dell’appellato» e stabilire, soprattutto, se attraverso il n. 4 dell’art. 360 saranno sindacabili plateali contraddizioni della motivazione del giudice di primo grado, ancorché succintamente condivise da quello d’appello.
In tanta grossolana incertezza naufragano non soltanto i principi e le categorie con le quali si è soliti cercare di amalgamare le novità normative con il tessuto preesistente, ma naufraga anche il buon senso: e così può accadere che un serio, attento e stimato processualista tenti di far quadrare il ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado affermando che l’ordinanza di inammissibilità «esclude il normale effetto sostitutivo della sentenza d’appello assicurando la sopravvivenza della sentenza di primo grado» (e l’art. 161 c.p.c.? e perché l’effetto sostitutivo continua a prodursi con una “normale” pronuncia di inammissibilità?), e poi affermi, senza batter ciglio, che “questa” peculiare inammissibilità travolge sempre l’appello incidentale tardivo perché l’ordinanza de qua è impedita solo dalla non manifesta infondatezza dell’appello «incidentale di cui all’art. 333»; la probabile fondatezza dell’appello incidentale tardivo non impedirebbe l’ordinanza di inammissibilità con tutti i suoi letali effetti ex art. 334 c.p.c.
Naufraga il buon senso, dicevo, perché si fa consacrare ad una simile
norma quel principio – assurdo e manifestamente contra legem – già affermato dalla Corte di Cassazione quando ha esteso alla improcedibilità la capacità di rendere inammissibile l’appello incidentale tardivo, legittimando il furbesco espediente dell’appellante principale di neutralizzare, con la propria inattività, l’appello incidentale tardivo: basterà proporre un appello manifestamente infondato perché l’appellato – se non ha avuto l’accortezza di impugnare entro il proprio termine, e non già con la comparsa di risposta depositata venti giorni prima dell’udienza fissata – si veda dichiarare inammissibile il proprio appello incidentale solo perché il legislatore “tecnico” chiama inammissibile ciò che qualsiasi studente di Giurisprudenza chiamerebbe manifestamente infondato.
Nulla da aggiungere a quanto detto in precedenza a proposito della soppressione anche dei «mezzi di prova indispensabili ai fini della decisione della causa», se non che la formula soppressa rende ancor più evidente l’ottusa coerenza (rispetto alla legge n. 353 del 1990 e alla legge n. 69 del 2009) con la quale il legislatore esclude che in appello si possa utilizzare ciò che è «indispensabile ai fini della decisione della causa»: ex ore tuo te judico.
Se gli artt. 348 bis e ter, con la loro formulazione, spiegano abbondantemente perché nessuno ne rivendichi la paternità o maternità (un ennesimo caso di partenogenesi normativa, che sarà presto seguito dalla devastazione del pignoramento presso terzi), il nuovo art. 342 è
certamente la norma più interessante: per quanti sforzi si facciano, non si riesce a scorgere nessun ulteriore contenuto che, rispetto ai «motivi specifici» di cui sopra si è detto, l’atto di appello deve possedere; ed anche la previsione dell’inammissibilità costituiva ormai jus receptum, quanto meno da Cass. Sez. Un. 29 gennaio 2000, n. 16.
E allora, perché riscrivere la norma scandendo in due distinti numeri «l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto» e «l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza di fini della decisione impugnata»?
La risposta è – dopo che hanno superato l’impatto degli artt. 348 bis e ter – nel comportamento degli avvocati: ammaestrati dall’esperienza maturata con il quesito di diritto e con il «momento di sintesi» (arbitrariamente) richiesto per censurare la motivazione, gli avvocati hanno fiutato che in quella scansione si cela una possibile riedizione, mutatis mutandis, del famigerato art. 366 bis, e affannosamente si interrogano – professionisti navigati e di lungo corso! – su come si fa un atto di appello.
Quelli tentati (dalla lettera della norma) di dire che «la circostanza da cui deriva la violazione della legge» è l’ignoranza del giudice di primo grado scartano l’idea perché sarebbe troppo bello che il legislatore li autorizzi a tanto e si chiedono – come un personaggio televisivo di alcuni anni fa - «che avrà voluto dire»?
Forse, del tutto banalmente, si vuole che l’appellante dica espressamente che l’ingiustizia della sentenza dipende dall’errore di diritto in cui è in corso il primo giudice, e che in assenza di quell’errore altra, e giusta, sarebbe stata la decisione impugnata: esattamente, cioè, come prima, perché anche prima a nessuno sarebbe venuto in mente di denunciare un errore di diritto ... totalmente innocuo.
Troppo facile? Si vedrà se e quanto le Corti d’Appello utilizzeranno questa trappola messa a loro disposizione dal legislatore “tecnico” per sbarazzarsi anche degli appelli che – per aver superato il vaglio di cui all’art. 348 bis - «hanno una ragionevole probabilità di essere accolti». 3.- Accogliendo – sembra – i voti sussurrati dalla Corte di Cassazione, il legislatore “tecnico” ha riscritto il n. 5 dell’art. 360, ripristinando il testo del 1942: d’ora in poi ci vorrà «l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti» perché la Corte si occupi – sempre che non si sia formata la «doppia conforme» - della motivazione della sentenza.
La storia starebbe a dire che interventi del genere non servono (certamente a ridurre il numero dei ricorsi per cassazione, ma nemmeno) a limitare il potere di controllo sulla motivazione della Corte: è noto che, nel totale silenzio del codice di procedura del 1865, la Corte si attribuì quel potere ed ampiamente lo esercitò utilizzando la nullità della sentenza priva del requisito (non già della motivazione, ma) di una adeguata, logica e coerente motivazione.
È altrettanto noto che, non combaciando tale straripamento della giurisprudenza con l’idea che egli aveva dello «scopo istituzionale» della Corte di Cassazione, Calamandrei formulò il n. 5 dell’art. 360 in modo da (almeno) contenere (non essendo prevalsa la sua tesi volta alla totale soppressione del motivo) quello che gli appariva un “abuso” della Corte; così come è noto che, nonostante il nuovo testo, la Corte – pur tra ondeggiamenti – ben presto tornò ad un orientamento che la Novella del 1950 consacrò nella formula della «omessa, contraddittoria, insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia». Né – è il caso di aggiungere – significativi mutamenti si sono riscontrati dopo che il D.Lgs. n. 40 del 2006 ha sostituito il «punto» con il «fatto» decisivo.
Ma la Corte di allora è anche quella di oggi?
Nonostante il D.Lgs. n. 40 del 2006 le avesse assegnato il compito precipuo di guidare la giurisprudenza, la Corte di Cassazione – oppressa da un enorme arretrato sempre crescente – ha dedicato molte delle sue energie ad escogitare marchingegni per sbarazzarsi di ricorsi senza deciderli: e perfino quando le è stato sottratto il famigerato art. 366 bis (che, però, continua a mietere vittime in nome del principio di parità di maltrattamento), ha coniato principi estranei alla legge (l’autosufficienza o la ... troppa autosufficienza) o adottato interpretazioni (l’improcedibilità per mancata produzione di fascicoli per legge non producibili; giudicato implicito; decadenze per inosservanza di termini ... innocui) che hanno in comune il solo intento di ... non decidere il
fondo dei ricorsi. Certamente, nonostante ci si trovi di fronte ad una vera e propria
istigazione del legislatore affinché i giudici di merito si limitino a motivazioni abborracciate e quali che siano, nulla di buono fanno presagire le considerazioni svolte, nella recente inaugurazione dell’anno giudiziario 2013, dal Primo Presidente, Ernesto Lupo: «L’intento, del tutto condivisibile, dell’intervento normativo, è evidentemente di restringere l’ambito del controllo esercitabile in Cassazione sui vizi di motivazione dell’accertamento dei fatti compiuto dal giudice del merito. Lo strumento opportunamente predisposto dal legislatore dovrà certamente essere utilizzato in conformità, non tanto con la volutas legislatoris in sintonia con gli auspici che larga parte dei teorici e pratici hanno da tempo espresso (?!), quanto con la ratio legis, fatta palese dai termini utilizzati. Né è prevedibile, e tanto meno auspicabile, che possa ripetersi quanto avvenne nel vigore del codice di procedura del 1865 (che non prevedeva uno specifico motivo di ricorso) e di quello del 1942, e cioè che, sotto la spinta delle parti che chiedono di rimettere in discussione il giudizio di fatto, si formarono orientamenti di giurisprudenza che, andando oltre una rigorosa interpretazione del dettato normativo, hanno consentito, ancor prima delle modifiche introdotte nel 1950, il sindacato sul vizio logico e sull’insufficienza della motivazione. L’entità della domanda e la dimensione della pendenza, in particolare dell’arretrato, uniche nel panorama europeo delle corti di
ultima istanza, sono corpose ragioni che debbono spingere ad adottare una interpretazione della nuova disposizione coerente con le esigenze sistematiche e funzionali che dovrebbero riportare la Corte a sviluppare le sue funzioni di nomofilachia, depresse o quanto meno fortemente ridotte dall’enorme numero dei ricorsi».
4.- Nessun happy end a conclusione della favola qui narrata: in questa favola è il principe, vestito da “tecnico”, che porge la mela avvelenata all’appello e al giudizio di cassazione, e che – come certi annunci economici: «astenersi perdigiorno» – diffida gli utenti del c.d. servizio Giustizia dall’utilizzarli.
Se si considera, a questo punto, che la nostra favola è iniziata ... con l’esigenza di ovviare alla scandalosa commistione, nel pretore, del giudice e dell’accusatore, viene da sorridere considerando la prodigiosa capacità di certi principi di produrre un vero e proprio effetto-valanga: oggi tanto è “centrale” il giudizio di primo grado che ... è tendenzialmente l’unico, e la sentenza di primo grado mira a nascere – come Minerva dalla testa di Giove – con le stimmate del giudicato.
Ma se così è, riusciremo almeno a superare il Gabon? |