La relazione
COMMISSIONE PER LO STUDIO E LA REVISIONE DELLA NORMATIVA
PROCESSUALE DEL LAVORO
(D.M. 28.11.2006)
Presidente Raffaele Foglia
RELAZIONE GENERALE
Premessa
Sulla crisi del processo del lavoro, tra gli aspetti più allarmanti della crisi della
giustizia civile, e sulle sue ragioni di fondo, si dibatte, da anni, concordandosi sulla
molteplicità delle sue origini - da quelle socio-economiche, a quelle culturali, dall’
accresciuto accesso alla giustizia, alle ragioni politico-normative, ai difetti strutturali
del sistema giudiziario ecc.-senza escludere fenomeni che documentano, talora, un
“abuso” del processo del lavoro, come dimostrano recenti esperienze (si pensi
all’esorbitante numero di controversie dei dipendenti delle Poste Italiane, in
materia di contratti a termine, e a quelle, nondimeno, a carattere alluvionale,
concernenti le integrazioni al trattamento minimo delle pensioni, l’indebito
previdenziale, i prepensionamenti nel settore degli autoferrotranviari, per citarne
solo alcune) che hanno ulteriormente messo a dura prova la gestione, già sofferente,
di un processo che il legislatore del 1973 voleva particolarmente celere, e che, tra
l’altro, non ha potuto fruire dei benefici connessi all’introduzione del giudice di pace
e del “giudice unico”.
Al contempo, il confronto con la situazione esistente in altri Paesi dell’Unione
europea, e le severe censure mosse più volte all’Italia dalla Corte di Strasburgo per
l’eccessiva durata dei nostri processi, rendono ancor più evidenti – anche al di fuori
del nostro Paese - le disfunzioni ed i ritardi del nostro sistema il quale si pone, ormai,
in aperta violazione del nuovo articolo 111 della Carta Fondamentale che ha
costituzionalizzato il principio della ragionevole durata del processo.
Ulteriori motivi di sofferenza derivano da più parti, in particolare:
a) dall’attribuzione alla giurisdizione del giudice del lavoro delle controversie sul
pubblico impiego;
b) dall’incremento delle controversie di massa e di quelle “seriali”;
c) dall’insoddisfacente esperienza conciliativa e/o arbitrale quale strumento di
deflazione dei carichi di lavoro giudiziario;
d) dalla introduzione di nuovi tipi contrattuali, non privi di ambiguità definitorie, e per
questo responsabili di incrementare ulteriormente il contenzioso;
e) dalla perdurante in operatività di “filtri” (ad. es. quello individuato nei
procedimenti di certificazione) ancora incapaci di deflazionare il carico di
lavoro giudiziario;
A tutte queste cause, vanno aggiunti i persistenti vuoti di organico (non solo
dei magistrati, calcolati dal CSM in oltre 1.000 unità al dicembre 2006) ma anche del
personale amministrativo) ed i ritardi che si registrano (anche presso il Consiglio
Superiore della Magistratura) nell’attribuzione di funzioni e sedi (anche per coloro
che, da mesi sono in attesa di riprendere le funzioni giudiziarie, una volta cessato il
collocamento fuori ruolo), ovvero nella copertura di posizioni direttive
particolarmente cruciali, ragioni tutte che contribuiscono ad accrescere la precarietà
dell’intero sistema giudiziario ed anche nella giustizia del lavoro.
La situazione di collasso si riassume in dati statistici assai significativi che
fotografano una situazione, presso le giurisdizioni di merito, che manifesta ancora
modesti segni di recupero1
Tale situazione non risparmia neanche i livelli massimi della giurisdizione (è
sufficiente ricordare come rispetto al 1990, nel quale la Cassazione civile “produsse”
poco più di 12.000 sentenze di cui 5.000 di lavoro, alla fine dell’ anno 2006 – a parità
di giudici “addetti” – si è raggiunto il record di circa 30.000 decisioni, di cui almeno
10.000 di lavoro.
Non meno allarmante è la situazione in ordine alla durata dei giudizi in primo e
secondo grado,2 nonché sui tempi “biblici” di fissazione delle udienze di discussione
(situazione che, peraltro, presenta termini vistosamente differenziati a seconda della
localizzazione geografica degli uffici giudiziari).
Già nel maggio 2001, nel consegnare i risultati della prima Commissione di
riforma istituita nel 2001, fu sottolineato con forza che “fra tante polemiche, su un
punto esisteva un accordo pressochè unanime, e cioè la ferma convinzione che
occorre prima di tutto creare le condizioni (organizzative e materiali) affinchè
l’impianto processuale delineato dalla legge n. 533 del 1973 sia rimesso in grado
realmente di funzionare, nella convinzione (allora come ora) che esso rappresenta
ancora oggi uno dei migliori modelli di garanzie giurisdizionali anche in confronto ai
sistemi vigenti nei Paesi europei a democrazia più avanzata.
E’ bene sottolineare che su questa valutazione di fondo esiste un larghissimo
consenso da parte della dottrina la quale ha affrontato, a vario titolo, il problema dei
possibili interventi sul processo del lavoro.
L’iniziativa del 2001 seguiva di un paio di anni all’altra – avviata dal Ministro
del lavoro pro-tempore (T.Treu) mirata, in particolare sulle controversie
previdenziali.
Nel corso di tutta la XIV legislatura i lavori della Commissione sono stati
accantonati, ma nonostante questo lungo silenzio, le riflessioni maturate al suo
interno hanno trovato riscontri confortanti in varie sedi culturali e professionali (cfr.
da ultimo, l’incontro organizzato dal c.s.m. il 21 marzo 2006 con la partecipazione di
circa 100 giudici del lavoro): e in sede parlamentare (cfr. i disegni di legge n.
1 In primo grado, a fronte di 1.104.553 cause pendenti nel 2000 (di cui 320.662 in materia di lavoro e 783.891 in
materia previdenziale), si sono registrate a fine 2004, 956.643 cause (di cui 315.935 di lavoro e 640.708 di previdenza e
assistenza). In grado di appello, a fronte di 135.765 cause pendenti nel 2000 (di cui 55.965 di lavoro e 79.800 di
previdenza) si sono avute 135.351 a fine 2004 (di cui 51.969 di lavoro e 83.382 di previdenza e assistenza): cfr. ISTAT,
statistiche sulle cause di lavoro, previdenza e assistenza in Italia, (bollettino del 16 maggio 2006).
2 Nel 1994 occorrevano in media 518 giorni per giungere alla definizione delle controversie di lavoro primo grado e 658
giorni per le controversie di previdenza ed assistenza: a fine 2005 i “tempi” si sono allungati, rispettivamente, a 698
giorni e 843 giorni per ciascuna delle controversie indicate.
In appello, le durate medie complessive si sono lievemente ridotte: a fronte di 1.023 giorni per le cause di lavoro e
790 giorni per quelle previdenziali, nel 1994, nel 2003 si sono registrati 794 giorni per le cause di lavoro e 884 per
quelle previdenziali. Cfr. La relazione del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione sull’Amministrazione
della Giustizia nell’anno 2004, p.38, in cui si sottolineava che le controversie di lavoro e previdenza rappresentavano,
nel 2004, il 43% del contenzioso civile in primo grado e il 46% del contenzioso civile d’appello, avvertendo come “a
questo dato dev’esser fatto riferimento per determinare il numero dei magistrati da assegnare alle sezioni lavoro”.
3777/2003 della Camera dei deputati/firmatari, tra gli altri l’on. A. Finocchiaro, n.
106/2006 della Camera, e n. 2144/2003 del Senato/ firmatario, tra gli altri, il sen.
Treu, e n. 1047/2006 Salvi-Treu) i quali hanno recepito, in gran parte, il testo
licenziato dalla Commissione.
La Commissione di studio, voluta dai Ministri della Giustizia e del Lavoro
(D.M. 28 novembre 2006), e insediata il 20 dicembre 2006, è partita dalla
constatazione che la lunghezza del processo del lavoro si pone con accenti di
particolare gravità allorché la controversia ha ad oggetto aspetti essenziali del
rapporto di lavoro che toccano la persona del lavoratore o la corretta funzionalità
dell’impresa, aspetti che vengono sempre più in evidenza di fronte alle nuove realtà
produttive, in un contesto sovranazionale, nel quale le esigenze di flessibilità indotte
da una concorrenza sempre più agguerrita ed i fenomeni di esternalizzazione delle
imprese reclamano nuovi ed efficaci strumenti di tutela specie in materia di
licenziamento, di apposizione del termine al contratto di lavoro, di trasferimento dei
lavoratori, e di cessione di rami d’azienda.
Di qui l’esigenza di riformare la normativa processuale del lavoro per
adeguarla all’incremento delle controversie conseguente all’evoluzione dei rapporti
sociali e alla attribuzione alla giurisdizione ordinaria delle cause relative al rapporto
di lavoro dei pubblici dipendenti; dalla necessità di stimolare l’efficacia deflattiva del
tentativo obbligatorio di conciliazione e di rivitalizzare, per quanto possibile, i
meccanismi arbitrali di risoluzione del contenzioso lavoristico, alternativi alla
giurisdizione statuale; dalla necessità di individuare meccanismi processuali di
urgenza per la definizione delle controversie di lavoro nelle materie più sensibili
come quelle appena indicate.
Del resto, un forte richiamo alla effettività delle tutele perviene non solo dalle
sentenze di condanna della Corte di Strasburgo (per violazione dell’articolo 6 della
Convenzione Europea sui diritti dell’uomo) ma anche dall’ordinamento comunitario
il quale, pur senza direttamente intervenire ancora sui sistemi processuali nazionali,
reclama - sia attraverso le sue norme (a cominciare dagli articoli 10, e 67 del Trattato,
per non trascurare i principi enunciati nella Carta dei diritti fondamentali di Nizza, in
termini di effettività della giustizia), sia attraverso la giurisprudenza sempre più
incisiva della Corte di Giustizia – interventi adeguati e concretamente operativi,
capaci di reale forza persuasiva o dissuasiva, per assicurare l’attuazione dei diritti
armonizzati per tutti i cittadini dell’Unione europea.
Non si tratta di raccomandazioni di stile, ma di disposizioni dotate di forza
precettiva immediata la cui inosservanza potrebbe essere sanzionata, attraverso una
procedura di infrazione, come violazione degli obblighi di conformazione alle norme
comunitarie.
Come noto, il processo del lavoro è luogo privilegiato di applicazione della
normativa comunitaria nella quale la politica sociale ha conquistato – specie con gli
ultimi Trattati di Amsterdam e con la Carta dei diritti fondamentali – una posizione di
indubbia centralità.
Sul piano dell’efficienza del sistema, il nostro processo del lavoro – pur
ispirato a livelli di garanzia formale più avanzati – mostra ritardi e carenze non più
tollerabili una volta che la nostra giurisdizione, chiamata a confrontarsi sui nuovi
piani della cooperazione giudiziaria transfrontaliera, è inserita in un circuito di
competenze in ambito comunitario, secondo le regole della Convenzione di
Bruxelles, ulteriormente valorizzate dal recente Regolamento del Consiglio n.
44/2001 (in vigore dal marzo 2002).
Del resto, con la diffusione delle imprese e servizi transnazionali, e la crescente
mobilità dei lavoratori in territori in ambito comunitario, la domanda di giustizia, nel
nostro Paese, promana, sempre più frequentemente, da nuovi utenti nei cui confronti
la risposta giudiziaria rischia di compromettere le propensioni, anche economiche,
verso il nostro Paese, a favore delle realtà esterne.
Il punto di partenza – unanimemente condiviso nella Commissione – consiste
in alcune opzioni fondamentali di principio che hanno ispirato la ricerca dei
possibili rimedi per recuperare la funzionalità del processo del lavoro.
Tali opzioni si possono così sintetizzare:
a) la conferma del modello processuale introdotto dal legislatore del 1973 (n. 533) e
la validità – almeno tendenziale - dei tria bona di chiovendiana memoria (oralità,
concentrazione, immediatezza);
b) la preferenza verso una specializzazione assicurata da giudici professionali (togati)
in tutti i livelli del giudizio;
c) la consapevolezza di realtà “processuali” assai diversificate tra Uffici giudiziari del
nord rispetto a quelli del centro-sud;
d) l’opportunità di tradurre in norme di legge di alcune “prassi virtuose” registrate
presso non pochi uffici giudiziari;
e) la necessità di alcuni interventi “drastici” sui tempi del processo nelle sue varie
articolazioni (v. ad es. la riduzione dei tempi lunghi previsti per le impugnazioni; la
valorizzazione di tecniche di “revisio per saltum” in cassazione; e la soppressione, in
casi del tutto circoscritti, di un grado di merito).
Nel corso dei propri lavori la Commissione ha tenuto conto delle soluzioni
raggiunte dalla Commissione ministeriale per riforma del processo civile il cui testo -
approvato dal Consiglio dei ministri nel marzo 2007 – presenta significative
consonanze con le scelte operate sul processo del lavoro.
Sono stati altresì tenuti nel debito conto i risultati delle audizioni svolte dalle
Commissioni riunite del Senato aventi ad oggetto i disegni di legge nn. 1047/2006/S
e 1163/2006 i cui contenuti rispecchiano molte delle riflessioni maturate dalla
Commissione del 2001.
La nuova Commissione ha individuato più linee di intervento sulle quali è
pervenuta ad una serie di proposte di seguito indicate.
I.
LICENZIAMENTI, TRASFERIMENTI E LEGITTIMITA’ DEL
TERMINE
Il diritto alla conservazione del rapporto di lavoro è diritto fondamentale della
persona ai sensi dell’articolo 2 della Costituzione, in quanto attinente alla
conservazione del luogo, id est dell’inserimento nella formazione sociale, dove si
svolge la sua personalità. Da ultimo, non a caso, la Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea, firmata a Nizza il 7 dicembre 2000, ha reso più visibile il
valore fondamentale della tutela contro ogni licenziamento ingiustificato (articolo
30).
L’estrema deteriorabilità del bene protetto – il posto di lavoro - stante il carattere
dinamico, e non statico, connaturato all’organizzazione del lavoro, ha rivelato, nel
tempo, l’enorme difficoltà insita nell’attuazione di una tutela specifica, reintegratoria,
a distanza di mesi o anni dal licenziamento, dall’estromissione dal luogo di lavoro.
Al pari degli altri settori della giustizia, per i quali importanti modifiche sono
state recentemente introdotte, il contenzioso del lavoro attraversa, non da poco, una
crisi determinata essenzialmente dal progressivo allungamento dei tempi di
definizione dei processi, crisi ancor più evidente per la peculiarità del rito introdotto
dal legislatore del 1973, informato a principi di oralità e celerità.
La domanda di giustizia in tale settore ha spesso determinato un eccessivo
ricorso alla tutela atipica urgente.
L’urgenza del recupero di funzionalità del processo del lavoro suggerisce,
pertanto, un intervento normativo con riferimento alle controversie che trattano i
momenti più delicati e patologici del rapporto di lavoro. Il bilanciamento degli
opposti interessi - del lavoratore alla conservazione del posto, del datore di lavoro
all’organizzazione del lavoro - consiglia, nella specie, di ridisegnare la tutela
reintegratoria contro il licenziamento ingiustificato e la verifica del passaggio
diretto alle dipendenze di società cessionarie nelle forme di un’azione tipica
urgente a cognizione sommaria, sì da imprimere a siffatte azioni una durata
ragionevole.
L’articolato propone:
1) Piccoli aggiustamenti sostanziali funzionali ad un più spedito iter processuale;
2) modifiche di natura procedurale;
La disciplina proposta si applica esclusivamente alle ipotesi di tutela c.d. reale
(coincidente con l’area di applicazione dell’art 18 della legge n.300 del 1970)
anche con riferimento ai casi di previo accertamento giudiziale della natura
subordinata del rapporto.
La procedura sommaria è estesa all’accertamento della legittimità del termine
apposto al contratto di lavoro, e, con opportuni adattamenti, alle controversie in
materia di trasferimenti di cui agli articoli 2103 e 2112 del codice civile.
L’esperienza giurisprudenziale degli ultimi anni ha dimostrato che il
meccanismo traslativo dettato dall’art. 2112 c.c., nato con la specifica funzione di
tutelare il dipendente nelle ipotesi di cessioni di aziende (o rami di esse) e
(perseguendo tale scopo) in deroga al principio generale della necessità del consenso
del soggetto ceduto (art. 1406 c.c.), può prestare il fianco a veri e propri abusi.
L’imprenditore che voglia liberarsi di forza-lavoro ritenuta eccedente, può simulare,
infatti, un trasferimento d’azienda, aggirando la regola della necessaria
giustificazione del licenziamento oppure eludendo le garanzie di consultazione
sindacale in caso di licenziamento collettivo con il rischio, per i dipendenti, di essere
ceduti ad altro imprenditore meno affidabile da un punto di vista economico, offrendo
meno garanzie di solvibilità, e/o da un punto di vista giuridico, rientrando – ad
esempio – nell’area della tutela obbligatoria e non in quella reale. La necessità di una
particolare attenzione a tale fenomeno, attualmente assai diffuso, è dimostrata, altresì,
dalla normativa comunitaria, avendo la materia formato oggetto di tre direttive
particolarmente importanti (direttive nn. 1977/187, 1998/50 e 2001/23).
Con il ricomprendere anche la materia dei trasferimenti d’azienda nell’ambito
del nuovo procedimento si auspica, in sostanza, una tutela avanzata rispetto a quelli
che sono normalmente, per i lavoratori coinvolti, gli esiti negativi della vicenda
traslativa.
Nonostante il rilievo avanzato da alcuni autorevoli esponenti della Commissione
concernente l’opportunità di escludere dal campo di applicazione della proposta
normativa i datori di lavoro pubblico c.d. privatizzati, in considerazione della
difficoltà di approntare, nei tempi rapidi imposti dalla procedura, una difesa efficace,
il proposito di assecondare gli intenti legislativi volti alla tendenziale uniformità della
disciplina del settore pubblico e di quello privato ha suggerito di non differenziare gli
strumenti processuali.
La modifica della normativa sostanziale concerne la decadenza, nel quando e nel
quomodo, dell’impugnativa del licenziamento: il termine, innalzato a 120 giorni,
diventa anche termine di decadenza dall'azione giudiziale. Il medesimo termine
decorre da qualsiasi altro atto o fatto che manifesti l’inequivoca intenzione del datore
di lavoro di porre fine al rapporto di lavoro. In tal modo si è dato risposta alle giuste
esigenza di evitare un uso strumentale del ritardo nella introduzione del giudizio.
E’ sembrato opportuno prescrivere anche un riscontro certo per le dimissioni,
prescrivendone la forma “ad substantiam” e l’indicazione di una data certa3.
Il procedimento si svolge con una cognizione libera da formalità, in
contraddittorio delle parti, e si conclude con la conoscenza tendenzialmente completa
delle questioni, di fatto e di diritto, controverse. Resta ferma peraltro la possibilità di
3 Quest’ultima scelta ha trovato testuale accoglimento nella legge 17 ottobre 2007, n. 188.
agire nelle forme di cui all'articolo 414 c.p.c., sicché non ha ragion d'essere la
preoccupazione che alla libera scelta del rito da parte del ricorrente sia stata sostituita
l'imposizione del giudizio sommario.
L’onere della prova, con riferimento al numero dei dipendenti occupati in
azienda ed ai motivi che hanno determinato il provvedimento espulsivo, grava sul
datore di lavoro che ha di fatto la conoscenza dei relativi dati.
Quanto alla prova delle ragioni giustificatrici del licenziamento non vi è nel
progetto alcun elemento che consenta di affermare l’esistenza di un onere probatorio,
sostanzialmente attenuato, perché assolvibile in termini di mera verosimiglianza.
Ad ogni modo, ogni dubbio in proposito dovrebbe ritenersi risolto ove si
consideri che il progetto ribadisce l’applicabilità, anche nello specifico procedimento
in questione, della norma sull’onere della prova della giusta causa e del giustificato
motivo stabilita nell'articolo cinque della legge 604 del 1966.
La tipicità dell’azione e la tassatività dei casi prevede lo strumento del
mutamento del rito: il giudice provvederà a disporre la prosecuzione del processo
secondo le forme ordinarie quando la domanda sia stata proposta irritualmente (se
proposta erroneamente con forma sommaria, dispone la regolarizzazione a norma
degli stessi articoli).
Elemento qualificante dell’azione sommaria disegnata dal progetto di riforma è
senza dubbio l’idoneità dell'ordinanza a divenire irrevocabile in mancanza di
reclamo, caratteristica che si uniforma, peraltro, alla novella introdotta – per i
provvedimenti cautelari adottati ex art. 700 c.p.c. – dall’art. 2, c. 3, lett. e)-bis del
decreto legge 14 marzo 2005, n.35 convertito dalla legge 14 maggio 2005, n.80.
L’azione tipica introdotta è peculiare anche quanto al regime delle
impugnazioni:
a) l’ordinanza emessa dal Tribunale, in funzione di giudice del lavoro, è
reclamabile al medesimo Tribunale in composizione collegiale (senza la
presenza del giudice che ha emesso il provvedimento);
b) l'ordinanza emessa dal collegio, in sede di reclamo, è opponibile solo con
ricorso, nelle forme di cui all'articolo 414 codice di rito, dinanzi alla Corte
d'Appello;
c) la sentenza della Corte d’Appello è ricorribile in Cassazione.
Appare chiaro che gli obiettivi perseguiti non potrebbero esser realizzati
mediante il ricorso al provvedimento ex art. 700 c.p.c.. Il provvedimento d’urgenza
si caratterizza per il presupposto della minaccia di un pregiudizio imminente ed
irreparabile, oggetto ovviamente di prova da parte di chi ne invochi la concessione. Il
progetto non richiede esplicitamente tale pregiudizio, perché esprime una valutazione
legislativa a priori circa la sua presenza nei casi per i quali è previsto il ricorso alla
specifica procedura. Si tratta di una valutazione ampiamente conforme a standards
socialmente accettati, sicché non vi è motivo di immaginare obiezioni di
costituzionalità. Inoltre il contenuto del provvedimento non è definibile a priori. Il
legislatore si limita ad indicare il risultato (assicurazione provvisoria degli effetti
della decisione di merito) ed affida al giudice l’individuazione del mezzo per
raggiungerlo. Nel caso dell’ordinanza prevista dal progetto, il contenuto della
pronunzia coincide interamente con l’ attribuzione o la negazione del bene richiesto.
La conferma viene d’altra parte dall’articolo 5 del progetto che in sostanza parifica
l’ordinanza alla sentenza di reintegra ex articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n.
300. Quindi un’ eventuale adattamento dell’art. 700 c.p.c. alla specifica materia qui
considerata, con eliminazione del requisito del pregiudizio non risponderebbe
pienamente allo scopo.
A garanzia dell’attuazione effettiva del capo del provvedimento (ordinanza o
sentenza) di condanna alla reintegra, è prevista una forte misura coercitiva di
carattere pecuniario, individuata sul modello francese delle astreintes, connotata dalla
irripetibilità delle somme (corrisposte o da corrispondere) in caso di successiva
sentenza (d’appello) dichiarativa della legittimità del licenziamento. Per evitare
ingiustificati arricchimenti del lavoratore, in caso di successiva sentenza dichiarativa
della legittimità del licenziamento, il lavoratore può trattenere solo una somma
corrispondente alla retribuzione per il periodo intercorso tra il provvedimento di
condanna e la sentenza di riforma.
La riforma del provvedimento dichiarativo dell’illegittimità del trasferimento
comporta, invece, un obbligo di restituzione delle somme già percepite
Per attuare l'astreinte è data al lavoratore la procedura cautelare dell'art. 669
sexies e seguenti codice di procedura civile, con la quale richiedere al giudice,
dell’ordinanza o della sentenza di reintegra, la liquidazione delle somme dovute per i
giorni di ritardo.
La relativa ordinanza è immediatamente eseguibile e reclamabile o al Collegio
del tribunale o al Collegio di appello (a seconda del provvedimento reclamato).
La caratteristica urgente e sommaria del procedimento porta alla eliminazione
del tentativo di conciliazione e della relativa procedura extra giudiziale, essendo
questa in contrasto con i tempi ristretti della novella.
Sul piano ordinamentale si prevede, per rafforzare la celerità dell'azione, che il
giudice tratti con priorità tali cause, ipotizzandosi altresì, in subjecta materia,
l’adozione di idonei provvedimenti organizzativi da parte dei responsabili degli
uffici.
La Commissione ha proceduto, infine, ad un intervento di carattere sistematico
della disciplina del licenziamento discriminatorio anche alla luce delle più recenti
acquisizioni giurisprudenziali, esplicitando altresì l’applicabilità della medesima
disciplina anche ai dirigenti e introducendo, in applicazione di quanto disposto in
meteria dalle direttive comunitarie, l’inversione dell’onere della prova in merito alla
sussistenza della discriminazione (cfr. infra Relazione su Atti e licenziamenti
discriminatori ed onere della prova).
L’estensione alle sanzioni disciplinari espulsive delle garanzie procedimentali
dettate dall’articolo 7 commi 6 e 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300 concernenti, in
particolare la sospensione dell’efficacia del licenziamento disciplinare per tutta la
durata della procedura conciliativa, ed anche alla fine del giudizio (ove la mancata
attivazione del collegio di conciliazione sia imputabile al datore di lavoro), ha
registrato il fermo dissenso della maggioranza dei membri della Commissione,
favorevoli alla soluzione – risalente alla giurisprudenza della Corte costituzionale ed
anche della Corte di cassazione – che limita l’effetto sospensivo dell’efficacia dei
provvedimenti disciplinari, per la tutta durata del provvedimento conciliativo,
arbitrale, o giudiziario, alle sole sanzioni conservative.
II. CONTROVERSIE DI PREVIDENZA ED ASSISTENZA
OBBLIGATORIE
Come già avvertito in occasione dei lavori della precedente Commissione del
2001, la prospettazione di possibili rimedi alla crisi in cui versa il processo
previdenziale presuppone l’individuazione e la consapevolezza delle concause nel
limite di quanto, nel più ampio contesto dei fattori di crisi del processo del lavoro, in
generale, possa ritenersi peculiare di detto processo.
Tale esigenza di preventiva individuazione delle ragioni della crisi attuale
rinvia a questioni di ampio e, forse, decisivo rilievo (idonei assetti di diritto
sostanziale; procedure di prevenzione di incertezze interpretative delle regole
siccome normate; adeguamento di strutture ed organici; ecc.), che trascendono, però,
la disciplina processuale, e delle quali, dunque, la Commissione, stanti i limiti del
mandato ricevuto, ha tenuto conto solo di riflesso.
L’aspetto cruciale del contenzioso previdenziale complessivamente considerato
è la differenziazione, per così dire, “tipologica” delle controversie.
Tali controversie, infatti, possono avere ad oggetto: a) questioni di mero diritto
(controversie c.d. interpretative), b) questioni di qualificazione di rapporti, c)
questioni di accertamento tecnico, con netta prevalenza degli accertamenti di
carattere medico-legale. Parte cospicua di dette controversie vede, inoltre, coinvolti
anche enti diversi dall’INPS e dall’INAIL, le Casse professionali, i Fondi pensione,
ecc., i cui ordinamenti sono caratterizzati da regole particolari rispetto a quelle valide
per i due suddetti massimi Istituti previdenziali. Tale diversificazione “interna” al
settore determina l’esigenza di approcci calibrati ad hoc e, dunque, la prospettazione
di rimedi opportunamente differenziati.
Altrettanto cruciale può dirsi il radicamento geografico del contenzioso, il
quale si concentra, per il 50 per cento dell’ammontare nazionale, in due sole regioni
d’Italia, la Campania e la Puglia, mentre il restante 50 per cento interessa, in
prevalenza il Lazio, la Calabria e la Sicilia.
Quanto alla legislazione di riferimento, va rilevato che il legislatore degli
ultimi anni non si è sempre mantenuto coerente alle impostazioni che hanno
caratterizzato la riforma del 1973, e comunque ha introdotto o esteso al settore
ulteriori strumenti, cui ha attribuito la concorrente finalità deflattivo–acceleratoria
delle controversie.
Dunque, in questa stessa prospettiva, la Commissione ha dovuto tener conto di
non poche novità normative: la procedura esattoriale (d.lgs. n. 46 del 1999); la
conciliazione monocratica e la diffida accertativa (artt. 11 e 12, d.lgs. n. 124 del
2004); le fattispecie di decadenza sostanziale (art. 6, legge n. 166 del 1991, art. 42,
legge n. 326 del 2003); gli accordi e atti di conciliazione sindacale con effetto anche
sui diritti di natura contributiva (art. 1, comma 1207, legge n. 296 del 2006, legge
finanziaria 2007).
Anche con tale normativa che, invero, può risultare contraddittoria - vedi la
sottovalutazione dei rimedi amministrativi, di cui alla legge n. 326 del 2003 -o
controproducente - nel caso delle decadenze sostanziali, per l’effetto moltiplicatore
del contenzioso -o discutibilmente destinata ad incidere su diritti indisponibili - nei
casi della conciliazione monocratica, di cui al d.lgs. n. 124 del 2004 e, oggi, della
conciliazione sindacale, di cui all’art. 1, comma 1207 della citata legge finanziaria
2007 -la Commissione ha cercato di confrontarsi.
Anche le controversie pensionistiche del settore pubblico idealmente sarebbero
potute rientrare nell’intervento normativo, tuttavia la diversità di giurisdizione e
ragioni di ordine pratico, sulle quali non è necessario in questa sede soffermarsi,
hanno indotto la Commissione a non considerare tale, pur importante, segmento della
materia, pur esprimendo l’opportunità di prendere in considerazione, in un prossimo
futuro, l’introduzione di regole comuni, nell’attuale mantenimento, auspicabilmente
non definitivo, del riparto di giurisdizione.
Nell’opera di necessario confronto con la legislazione vigente, la
Commissione, nel prendere atto degli interventi normativi più recenti - l’art. 1,
comma 469, della legge finanziaria 2007 (che prevede la prossima emanazione di uno
o più regolamenti diretti “al riordino, alla semplificazione e alla razionalizzazione
degli organismi preposti alla definizione dei ricorsi in materia pensionistica”) e il
d.P.R. n. 282 del 2006 ( che interviene sull’ordinamento del Comitato di verifica per
le cause di servizio, ex art. 10. d.P.R. n. 461 del 2001) – rimarca il carattere cruciale
di un’opera di razionalizzazione, semplificazione, armonizzazione della normativa
che disciplina le procedure del contenzioso amministrativo, i servizi ispettivi, e
l’utilità del permanere di suddivisioni e sovrapposizioni di compiti che, per alcune
materie, caratterizzano i rapporti tra DPL e AUSL.
La prospettazione e la graduazione dei rimedi è stata calibrata muovendo da
pregiudiziali scelte di valore, oggetto di ampia discussione, tra le quali, per la loro
significatività, la fedeltà ai principi della riforma del 1973, la rapidità del servizio di
giustizia, considerando cumulativamente, a tal proposito, e non frazionatamente, fase
amministrativa e fase giudiziale della controversia; il livello dei costi, economici e
non, dell’intervento riformatore e delle diseconomie prodotte dall’attuale stato del
contenzioso; il grado di semplicità e facilità applicativa dei rimedi prospettabili; la
formulazione di uno schema normativo snello, facilmente veicolabile anche in
procedimenti legislativi già pendenti in Parlamento, strutturato in forma di criteri di
delegazione quanto alla fase contenzioso-amministrativa e di novella alle disposizioni
del codice di rito e delle leggi speciali che regolano il processo previdenziale.
In particolare, la categoria di controversie che, come emerso nel corso dei
lavori della precedente Commissione e delle specifiche audizioni di esperti
appositamente invitati in rappresentanza degli enti pubblici di previdenza e
dell’Avvocatura dello Stato, continua a presentare gravissime carenze e, per
l’incessante aumento delle pendenze, richiede interventi coraggiosi, è quella
riguardante l’invalidità civile e le prestazioni pensionistiche già gestite dai Ministeri
dell’Interno e del Tesoro, per le quali è emersa una pressoché totale assenza di ogni
fase contenziosa amministrativa.
Per operare efficacemente su questi terreni, la Commissione ha ritenuto
indispensabile – almeno per quanto riguarda le controversie dipendenti da
accertamenti medico-legali, costituenti più del 20 per cento dell’insieme, su scala
nazionale, o addirittura il 70/80 per cento in alcune aree centro-meridionali - una
forte valorizzazione e una maggiore impegnatività della fase contenziosa
amministrativa, possibilmente unificata, accentuandone i connotati di terzietà, di
rispetto del contraddittorio, con possibilità di assistenza tecnico-legale, con
potenziamento qualitativo dell’istruttoria dei ricorsi amministrativi; con la presenza,
negli organi decidenti, di rappresentanti delle parti interessate; con la costituzione di
organi collegiali composti in maniera da assicurare specifiche competenze
professionali medico-legali e obiettività di giudizio.
Non è stato possibile pervenire – all’interno della Commissione - ad
indicazioni unitarie. Tuttavia, pur segnalando che una significativa ad autorevole
minoranza dei membri della Commissione ha espresso la propria preferenza per una
proposta meno incisiva, la maggioranza si è dichiarata a favore della proposta “forte”
che è riportata nel testo dell’articolato.
Per completezza appare opportuno riprodurre in nota i contenuti della
proposta4, per così dire "soft", evidenziando come la stessa, pur restando
4 Art. 1
Norma di delega
1.- Il Governo è delegato ad emanare entro … una o più norme di razionalizzazione della disciplina delle procedure
contenziose amministrative in materia previdenziale in forma compatibile con il disposto dell'articolo 147 disposizioni
di attuazione del codice di procedura civile e sulla base dei seguenti principi:
a) armonizzazione e unificazione di tutte le procedure esistenti, e loro articolazione in unico grado;
b) uniformazione dei termini;
c) potenziamento qualitativo dell’istruttoria dei ricorsi amministrativi;
d) presenza negli organi decidenti di rappresentanti delle parti interessate;
rigorosamente all'interno del disegno della legge n. 533 del 1973, parte dall’esigenza
che il contenzioso amministrativo acquisisca maggiore affidabilità e maggiore
semplicità, affinché le relative regole e procedure non debbano, esse stesse,
rappresentare occasione di vertenzialità ed è ispirato dall’idea di un abbattimento dei
costi dell’intervento riformatore sulla fase processuale. In tale prospettiva, lo schema
e) costituzione di organi collegiali composti in maniera da assicurare specifiche competenze professionali medico-legali
e obiettività di giudizio;
f) garanzia del contraddittorio e assistenza tecnico-legale.
Art. 2
1.- All’articolo 414 del codice di procedura civile, dopo il numero 5 è aggiunto il seguente numero:
“6) nel caso in cui ai fini della decisione della controversia siano richiesti accertamenti medico legali, l’indicazione
specifica dei quesiti da sottoporre al c.t.u.”
Art. 3
1. Dopo l’art.415 del codice di procedura civile è aggiunto il seguente:
“415-bis ( Decreto di fissazione dell’udienza nelle controversie di previdenza e assistenza obbligatorie). Nelle
controversie di cui all’art. 442, la cui risoluzione richieda accertamenti medico-legali, il giudice, con il decreto di cui
all’art.415, secondo comma, nomina il consulente tecnico d’ufficio, invitandolo a prestare giuramento all’udienza di
discussione ivi indicata, e fissa i termini per lo svolgimento delle operazioni peritali e per l’espletamento del tentativo di
conciliazione.”
Art. 4
1. All’art. 442, primo comma, del codice di procedura civile, dopo le parole: “di questo titolo”, sono aggiunte le
seguenti parole: “salvo che non sia diversamente disposto”.
Art. 5
1. All’articolo 444 del codice di procedura civile, è aggiunto il seguente comma:
“ Giudice competente per il giudizio di opposizione contro il ruolo, ai sensi dell’articolo 25, del decreto legislativo n. 46
del 1999, è il Tribunale del luogo in cui ha sede l’ufficio dell’ente previdenziale che ha proceduto all’iscrizione al ruolo,
anche se tale sede non coincide con il domicilio fiscale del soggetto obbligato”.
Art. 6
1. All’art.445 del codice di procedura civile, dopo il primo comma sono aggiunti i seguenti:
1-bis. Il consulente tecnico, esperite le operazioni peritali, comunica la propria relazione ai difensori delle parti e, entro
15 giorni da detta comunicazione, esperisce il tentativo di conciliazione della lite e redige apposito verbale, che
comunica alla Cancelleria del Tribunale e alle parti.
1.- ter. Nel caso di nomina di più consulenti, il giudice indica il consulente al quale affidare il tentativo di conciliazione.
Art.7
1. L’articolo 149 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile è così modificato:
“1.- Nelle controversie di cui all’articolo 442 del codice il giudice deve valutare anche l’aggravamento della malattia,
nonché tutte le infermità comunque incidenti sullo stato delle condizioni psicofisiche dell’assicurato, o del suo dante
causa, che si siano verificate nel corso tanto del procedimento amministrativo che del giudizio di primo grado ed ivi
ritualmente dedotte”.
Art.8
1. Dopo l’articolo 149 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile è aggiunto il seguente:
“Art. 149-bis. In tutti i giudizi e procedimenti regolati dagli articoli 442 e seguenti del codice nei quali siano parte,
anche non costituita, Enti o Istituti gestori forme di Previdenza ed Assistenza obbligatorie organizzati su base
territoriale, all'atto della pubblicazione di ogni sentenza od a seguito della pronuncia di ogni ordinanza, deve essere
depositata – a cura del cancelliere o segretario dirigente della cancelleria o segreteria dell'organo giurisdizionale presso
cui la sentenza è pubblicata o l'ordinanza è depositata - una copia autenticata in carta libera a disposizione dei predetti
Enti o Istituti”.
Art.9
(Decadenza in materia di invalidità civile)
1. Alle controversie in materia di invalidità civile si applica la decadenza di cui all’art. 47 decreto del Presidente della
Repubblica 30 aprile 1970 n. 639, come modificato dall’art. 4, n. 1 decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384.
2. All’art. 42, comma 3, decreto-legge 30 settembre 2003 n. 269, convertito in legge 24 novembre 2003, n. 326, il
secondo periodo è soppresso.
Art.10
1. Le funzioni già di competenza del Ministero dell’Economia e delle Finanze e delle Direzioni Provinciali Sanitarie in
materia di invalidità civile sono trasferite all’INPS.
2. Nei giudizi di invalidità civile in cui è già parte, l’INPS subentra nella posizione processuale del Ministero, in deroga
all’art.111 c.p.c.
normativo innovatore è incentrato sul potenziamento del procedimento
amministrativo con la presenza negli organi decidenti di rappresentanti delle parti
interessate, la costituzione di organi collegiali composti in maniera da assicurare
specifiche competenze professionali medico-legali e obiettività di giudizio, con la
garanzia del contraddittorio e l’assistenza tecnico-legale. La fase giurisdizionale è
accelerata, nella prospettiva da cui muove tale prima ipotesi, con l’indicazione
specifica, nell’atto introduttivo del giudizio, dei quesiti da sottoporre al consulente
nominato d’ufficio; con la nomina, con il decreto di cui all’art.415, secondo comma,
c.p.c., del consulente tecnico d’ufficio il quale, esperite le operazioni peritali,
comunica la propria relazione ai difensori delle parti e, entro 15 giorni, esperisce il
tentativo di conciliazione della lite, redigendo apposito verbale, che comunica alla
cancelleria del Tribunale e alle parti.
La seconda soluzione, sulla quale si è espresso il consenso della maggioranza
dei membri della Commissione e che quindi è riportata nel testo dell’articolato,
muovendo dalle proposte della Commissione Treu del 1998, dai disegni e progetti di
leggi attualmente pendenti in Parlamento, e dal dibattito sviluppatosi nel corso dei
lavori, si caratterizza, rispetto alla soluzione soft, per l’attribuzione della
controversia, in fase precontenziosa amministrativa, ad un organo “esterno e dunque
terzo” rispetto agli Istituti previdenziali in lite, per l’immodificabilità, nella fase
giurisdizionale, delle posizioni assunte dalle parti nella fase contenziosa
amministrativa; per la previsione di un termine massimo dalla data in cui è stato
proposto il ricorso amministrativo entro il quale quest’ultimo dev’essere deciso, o, in
ogni caso, concluso previa compiuta verbalizzazione delle posizioni assunte dalle
parti nel corso del procedimento, nonché delle eventuali acquisizioni istruttorie; per
l’impugnabilità delle decisioni assunte in esito al procedimento contenzioso
amministrativo concernenti unicamente i requisiti medico-legali, davanti al
Tribunale, in unico grado di merito. Per tale proposta, sin qui strutturata nella forma
della delegazione legislativa, il rafforzamento della fase amministrativa e il
potenziamento dell’istruttoria ivi espletata avrebbero immediate ricadute nella fase
giurisdizionale potendo il giudice nominare il consulente tecnico solo ove non
ritenga di aderire alle conclusioni peritali già acquisite in sede contenziosa
amministrativa, così evitando l’incombente istruttorio con evidente abbattimento dei
relativi oneri di spesa.
In attesa dell’emananda legge di delegazione con i criteri appena esposti, la
Commissione ha proposto modifiche di immediata applicazione, caratterizzate, nella
medesima fase contenziosa amministrativa, dall’esame del ricorso da parte di un
collegio medico qualificato (composto da tre sanitari, designati dall’amministrazione
competente, dal ricorrente o dall’istituto di patronato che lo assiste, dal responsabile
della competente direzione del Ministero del lavoro e della previdenza sociale tra i
medici specialisti in medicina legale, o in medicina del lavoro ovvero tra i sanitari
appartenenti ai ruoli di un ente previdenziale diverso da quello che è parte della
controversia) che coerentemente alle risultanze degli accertamenti, tenta la
conciliazione della controversia e redige un verbale sottoscritto dalle parti, vincolante
in caso di esito positivo. In caso di esito negativo, invece, il presidente del collegio
redige una dettagliata relazione medico-legale nella quale dà atto degli accertamenti
effettuati e delle conclusioni conseguite nonché dei motivi del dissenso.
Il compenso dei componenti del collegio medico resta a carico
dell’amministrazione competente per l’erogazione della prestazione ed è determinato
in conformità di convenzioni stipulate con la Federazione nazionale degli ordini dei
medici chirurghi e degli odontoiatri.
Seguono alcune modifiche alla fase giurisdizionale quali l’indicazione, già nel
ricorso, dei quesiti da sottoporre al consulente medico-legale e l’allegazione dei
documenti sanitari che si offrono in comunicazione; un termine breve per la nomina
del consulente d’ufficio (entro 5 giorni dal deposito del ricorso); l’esplicita previsione
normativa che il consulente, esperite le operazioni peritali e comunicata la propria
relazione ai difensori delle parti, entro 15 giorni da tale comunicazione esperisca il
tentativo di conciliazione del quale rediga apposito verbale, da depositare nella
cancelleria del giudice e comunicare alle parti e, ove siano nominati più consulenti,
l’indicazione, da parte del giudice, del consulente al quale affidare il tentativo di
conciliazione.
L’intervento riformatore ipotizza, inoltre, con determinazione unanime della
Commissione ispirata al risparmio di spesa in re ipsa, che immediatamente, anche per
i processi in corso, l’INPS possa subentrare nelle funzioni del Ministero
dell’Economia in materia di invalidità civile, ravvisando come un’anomalia la
competenza “sanitaria” del Ministero dell’Economia, con una struttura centrale
presso il Ministero e con strutture periferiche decentrate in sede provinciale ove vi è
in ogni D.P.S. una struttura amministrativa che gestisce sanitari del Ministero
convocati, di volta in volta, dai consulente tecnici nominati nei procedimenti
giurisdizionali.
L’impatto di tale intervento normativo implicherebbe il disimpegno di strutture
amministrative di gestione nell’ambito delle D.P.S. da utilizzare diversamente e il
venir meno di oneri di spesa per un considerevole numero di sanitari “convenzionati”
con le DPS, essendo l’INPS dotato di una struttura medico-legale, risparmiando,
ancora una volta, al processo, e all’amministrazione della giustizia, in generale, un
dispendio di attività di comunicazione, quali avvisi alle parti, memorie, avvisi ai
consulenti di parte, e liberando, da attività defensionali, l’Avvocatura dello Stato.
Per tutte le altre controversie previdenziali la cui soluzione può coinvolgere
aspetti tecnico-giuridici tout court, ovvero di notevole complessità, o ancora
implicanti meri conteggi aritmetici, come per le numerose cause per interessi e
svalutazione (per le quali una soluzione deflattiva già è stata introdotta con l’art. 44,
n. 4, del d.l. n. 269 del 2003, che impone di inviare una raccomandata prima di
iniziare contenzioso in materia di accessori, con relativo termine), la Commissione
non ha ravvisato ragioni che ne giustificassero una pregiudiziale differenziazione, sul
piano della disciplina processuale, rispetto alle controversie di lavoro in genere,
siccome innovate con il progetto riformatore proposto per il processo del lavoro.
Conseguentemente, per tali controversie e, comunque, per tutte le controversie
previdenziali e assistenziali non implicanti accertamenti sanitari, adeguata soluzione
preordinata ad esercitare una spinta deflattiva si è appalesata la conciliazione nei
termini e con le modalità suggerite dalla novella proposta, pur non sottacendo il
dibattito apertosi, nel corso dei lavori, per i profili di eventuale inammissibilità
derivanti dalla frequente indisponibilità dei diritti in controversia.
Per le controversie seriali, in particolare le controversie in materia di
previdenza e assistenza obbligatorie riguardanti, anche potenzialmente, un numero
consistente di soggetti e concernenti questioni analoghe, la Commissione, a parte
l’applicazione dell’art. 420 bis novellato (su cui cfr. infra), ha optato per la
istituzionalizzazione di una soluzione precontenziosa, nel senso che le
amministrazioni interessate sono tenute ad informare i Ministeri competenti e a
promuovere incontri anche con gli istituti di patronato che abbiano fornito assistenza
nelle medesime controversie, al fine di chiarire gli aspetti delle questioni in
discussione ed individuare, per quanto possibile, ipotesi di soluzione. La ricaduta, sul
processo, della possibilità di definizione, in sede centrale, dei grandi filoni di
contenzioso previdenziale e assistenziale, è data dalla possibilità, per il giudice, nelle
more di una soluzione, di rinviare la trattazione della causa, su concorde istanza di
parte. Tale soluzione eviterebbe dispendiose attività processuali con evidente
risparmio di spesa e di attività processuali.
Quanto alla decadenza introdotta nel 2003, in materia di invalidità civile – che
ha interrotto un andamento virtuoso che aveva visto scendere il contenzioso
previdenziale da 783.000 cause al 31.12.00 a 640.000 cause al 31.12.04, con
“esplosione” del contenzioso in materia a causa dell’introduzione di una decadenza di
soli sei mesi - all’unanimità la Commissione ha ritenuto di abrogare tale disposizione,
ripristinando il regime decadenziale di cui all’art. 47 del decreto del Presidente della
Repubblica 30 aprile 1970 n. 639, come modificato dall’art. 4, n. 1 del decreto-legge
19 settembre 1992, n. 384.
III. CONCILIAZIONE E ARBITRATO
E’ tuttora valida l’osservazione che nel settore delle controversie di lavoro,
conciliazione e arbitrato non hanno mai registrato quella diffusione ed adesione
auspicabile fin dalla riforma introdotta dal legislatore del 1973 al fine di alleggerire il
carico di lavoro dei magistrati addetti alla trattazione delle controversie di lavoro e, al
contempo, di offrire, in un processo fortemente caratterizzato da una parte debole,
strumenti efficaci e veloci di risoluzione delle controversie.
Tuttavia nel settore dei rapporti di lavoro gli strumenti alternativi di soluzione
sono ormai, sul piano normativo, di applicazione generale essendo superata la
esclusione della composizione negoziale della controversia nei rapporti di lavoro
pubblico, riflesso dell’ incompatibilità fra competenza del giudice amministrativo e
soluzione transattiva del conflitto.
Nella prospettiva di un rilancio della soluzione alternativa a quella giudiziaria,
il legislatore con la riforma introdotta con i decreti n. 80 e n. 387 del 1998, ha
rilanciato gli istituti della conciliazione e dell’arbitrato, partendo proprio dal settore
pubblico , novellando il codice di rito con le disposizioni recate dagli articoli 412-ter
e 412-quater, e disegnando, ex novo, il tentativo obbligatorio di conciliazione con le
disposizioni ora riprodotte nel decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 agli articoli
65 e 66.
Il segno più marcato di tale favore per la soluzione transattiva è stata la
trasformazione della conciliazione, relegata dal legislatore del 1973 a strumento
occasionale e marginale, in una fase indispensabile per l’accesso alla tutela
giudiziaria, mediante la previsione dell’obbligatorietà.
Tale orientamento favorevole trova conferma anche nelle recenti iniziative di
riforma del processo civile, dove l’importanza della soluzione conciliativa risulta
fortemente accentuata. D’altra parte, deve esser tenuto in attenta considerazione il
fatto che, nelle controversie di lavoro e anche in quelle relative agli istituti di
sicurezza sociale, in taluni fra i più importanti paesi comunitari ( fra i quali ad. es. la
Germania ) l’esito conciliativo costituisce il risultato più frequente dell’iniziativa
contenziosa, così consentendo al giudice di concentrare la propria attenzione su un
numero limitato di cause, pur di fronte ad una domanda di giustizia di dimensioni
non certo ridotte.
Nonostante le difficoltà incontrate, più ragioni inducono quindi a un
complessivo giudizio di favore per lo strumento conciliativo, valutazione non scalfita
dallo scarso successo registrato dalla conciliazione delle controversie di lavoro
pubblico. A spiegare il quale può, infatti, valere la considerazione che si tratta di
questioni quasi sempre nuove e talvolta assai complesse, dove le stesse
amministrazioni hanno avuto difficoltà ad elaborare indirizzi sicuri cui attenersi. A
ciò devono aggiungersi, per molte di esse, specie se di piccola dimensione, le
difficoltà organizzative nella concreta gestione della fase conciliativa delle
controversie.
D’altra parte, il modello vigente per il lavoro privato, pur avendo dato risultati
più confortanti, non è sembrato soddisfacente per la scarsa impegnatività dello
strumento, e l’assoluta carenza di incentivi, positivi e negativi, per le parti in lite e per
il ceto tecnico-forense.
Tutto ciò ha indotto la Commissione all’idea di proporre un meccanismo che
miri a fare della fase conciliativa una fase precontenziosa, a giudizio formalmente
già iniziato, ottenendo così, fra l’altro, che la conciliazione sia tentata su una
controversia i cui termini sono ormai stabilmente fissati.
La novella conserva quindi l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione
giacché, mutuando le parole del Giudice delle Leggi, esso tende a soddisfare
l’interesse generale sotto un duplice profilo: evitando, da un lato, che l’aumento delle
controversie attribuite al giudice ordinario in materia di lavoro provochi un
sovraccarico dell’apparato giudiziario, ostacolandone il funzionamento; favorendo,
dall’altro, la composizione preventiva delle lite e assicurando alle posizioni sostanziali
un soddisfacimento più immediato rispetto a quello conseguibile attraverso il processo
(v. Corte Cost. 276/2000).
Alla regola generale dell’obbligatorietà vengono apportate talune limitate
esclusioni.
Esse riguardano le controversie previdenziali limitatamente, peraltro, a quelle
aventi ad oggetto accertamenti sanitari, in coerenza con le scelte fatte nel progetto
riguardo a tale tipo di contenzioso. Sono inoltre esclusi i procedimenti sommari o
d’urgenza (per i quali la tutela del diritto azionato è tanto più efficace quanto più è
tempestivo l’intervento giudiziale), ivi comprese le controversie in materia di
trasferimenti, licenziamenti e legittimità del termine apposto al contratto assoggettate
ad una procedura sommaria tipica (cfr.infra).
Non è stata invece mantenuta la speciale procedura conciliativa nelle
controversie relative ai rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni. I dati
statistici ufficiali denunziano, come già accennato, l’estrema modestia dei risultati
ottenuti (ad. es., le conciliazioni negli anni 2002, 2003 e 2004 sono state
rispettivamente 3936, 6132 e 5006, mentre negli stessi anni le richieste sono state
rispettivamente 84.356, 91.135 e 176.104) anche a causa della indiscutibile
complessità della procedura tanto sul piano normativo che su quello organizzativo.
Si è dunque ritenuto opportuno che anche tali controversie rientrassero
nell’ambito delle regole generali sulle modalità di svolgimento del tentativo. Onde
evitare remore alla soluzione conciliativa è rimasto fermo però l’esonero da
responsabilità amministrativa da parte del dipendente che su incarico della
amministrazione abbia transatto la lite.
L’eliminazione dello specifico procedimento conciliativo per tali controversie
comporta il venir meno della possibilità di costituire il Collegio di conciliazione
previsto a tale scopo. Ciò determina anche l’impossibilità di impugnare dinanzi ad
esso le sanzioni disciplinari, come invece attualmente previsto, in assenza di
procedure collettive di conciliazione e arbitrato, sulla base dell’art. 56 del t. u. 30
marzo 2001, n. 165, del quale infatti si propone l’abrogazione.
Va peraltro sottolineato per un verso l’esistenza del Contratto collettivo
nazionale quadro in materia di procedure di conciliazione e arbitrato del 23 gennaio
2001, fra l’ARAN e le organizzazioni sindacali, per altro verso la possibilità
dell’arbitrato in sede sindacale o presso le direzioni provinciali del lavoro, in base
all’art. 412 quinquies del progetto.
Conciliazioni
La proposta si fonda, quanto alla disciplina della conciliazione, sui seguenti principi-
base:
•
la fase conciliativa è una fase precontenziosa a giudizio già iniziato
(conciliazione endogiudiziale);
•
la difesa tecnica è coinvolta nella fase precontenziosa;
• l’ingiustificata assenza del ricorrente o di entrambe le parti all’udienza fissata
per la conciliazione comporta l’estinzione del processo, mentre l’assenza della parte
convenuta può dar luogo all’emanazione di un’ordinanza provvisoria di pagamento
totale o parziale delle somme domandate o a provvedimenti anticipatori della
decisione di merito;
• la conciliazione è tentata dal giudice o dal conciliatore appositamente designato
tra quelli iscritti in apposito Albo;
• se la conciliazione non riesce viene redatto verbale con l’indicazione succinta
delle ipotesi di soluzione della controversia allo stato degli atti;
• se la conciliazione è raggiunta, il relativo processo verbale acquista efficacia di
titolo esecutivo con decreto del giudice;
• in qualunque fase della conciliazione, ovvero in caso di esito negativo della
conciliazione, le parti possono decidere di affidare allo stesso conciliatore, la
decisione di risolvere in via arbitrale la controversie.
Il rifiuto di ragionevoli proposte conciliative determina significativi
scostamenti dal principio della soccombenza per quel che riguarda il carico delle
spese di lite.
Resta salva la possibilità di conciliazione in sede sindacale o presso il
competente ufficio pubblico, con effetti equivalenti a quella endoprocessuale, a
determinate condizioni.
Il tentativo di conciliazione è modellato, in modo uniforme, sia nelle
controversie di lavoro privato che in quelle di lavoro pubblico.
Va, inoltre, rimarcato che l’autorevolezza del conciliatore deriverà dalla sua
nomina, da parte del giudice, attingendo ad un Albo dei Conciliatori esperti in
materie giuslavoristiche, tenuto dal Presidente del Tribunale. Quanto alla gratuità, o
meno, dell’operato del conciliatore, è prevalsa l’idea della indennizzabilità, rinviando
ad un decreto ministeriale ogni determinazione in ordine al quantum.
La novella, pertanto, non è senza oneri per lo Stato, essendo l’importo
dell’indennità per il conciliatore fissato in euro 100, qualunque sia l’esito del
tentativo di conciliazione, indennità elevata ad euro 150 ove il tentativo si concluda
con la conciliazione, e ridotta ad euro 75, ove il tentativo non possa essere espletato
per mancata presentazione delle parti o del convenuto.
Arbitrati
Pur nella consapevolezza del carattere controverso del tema, per le varie
opzioni politico sindacali che lo caratterizzano, la Commissione ha ritenuto di
proporre con l’arbitrato una alternativa alla decisione giurisdizionale in guisa tale da
filtrare, in termini selettivi, il ricorso alla giustizia del lavoro, consentendole così
intervenire nelle controversie di maggiore rango con la dovuta professionalità e
tempestività, e da costituire una reale attrattiva per la celerità e la stabilità.
E’ stata scartata peraltro l’idea di un ampliamento del ricorso all’arbitrato
rituale con abrogazione del divieto di compromettibilità ad arbitri delle controversie
di cui all’art.409 codice di procedura civile come anche quella di legittimare clausole
compromissorie, trasfuse nel contratto collettivo e richiamate nel contratto
individuale, che consentano la devoluzione ad arbitri anche quando abbiano ad
oggetto diritti dei lavoratori derivanti da disposizioni inderogabili di legge o da
contratti collettivi.
La soluzione,più moderata, adottata dalla Commissione contempla:
• - la possibilità di affidare il mandato in via arbitrale allo stesso conciliatore in ogni
fase del tentativo di conciliazione, anche solo per una parte della controversia;
• - la possibilità di ricorso all’arbitrato dopo il fallimento del tentativo di
conciliazione;
• - la necessità che la richiesta di deferimento ad arbitri risulti da atto scritto
contenente, a pena di nullità, il termine entro il quale l’arbitro dovrà pronunciarsi, ed i
criteri per la liquidazione dei compensi spettanti all’arbitro;
• - l’obbligo per l’arbitro del rispetto delle norme inderogabili di legge e del
contratto collettivo;
• - l’impugnabilità del lodo, per qualsiasi vizio, davanti alla Corte d‘Appello, con
previsione di un doppio termine, breve, dalla notifica, e lungo, dal deposito del lodo.
• - l’esecutività del lodo nonostante l’impugnazione;
•il mantenimento della concorrente disciplina arbitrale eventualmente prevista da
accordi o contratti collettivi.
La conservazione della concorrente disciplina arbitrale, espressione dell’autonomia
negoziale collettiva, è volta a favorire un sistema integrato dell’arbitrato nelle
controversie di lavoro che si avvalga dell’apporto di importanti Accordi già
perfezionati (ARAN, CONFAPI, CISPEL) taluni con disposizioni peculiari, qual è la
soluzione adottata, fra gli altri, dall’accordo CONFAPI che consente di pervenire,
nella medesima sede, ad un’interpretazione autentica sull’efficacia e validità di una
clausola del contratto collettivo nazionale, che ha così introdotto un efficace
strumento di prevenzione delle controversie seriali, ed anticipato analoghe soluzioni
poi generalizzate dal legislatore. Peraltro, le divergenze che, nei vari accordi,
emergono in ordine all’ambito di impugnabilità dei lodi vengono risolte, con
l’articolato proposto, riconducendo ad unità il regime delle impugnazioni sicché
anche per l’arbitrato previsto dalla contrattazione collettiva si applica il regime di
impugnazione introdotto con la novella, id est l’impugnabilità, per qualsiasi vizio,
davanti alla Corte d’Appello.
IV. MISURE DI RAZIONALIZZAZIONE DEL PROCESSO DEL LAVORO
IN GENERALE
Nell’affrontare la riforma del processo del lavoro si è ritenuto necessario
prevedere interventi puntuali che abbiano come finalità la razionalizzazione della
normativa esistente. L’eterogeneità delle materie trattate non consente di racchiudere
le proposte formulate all’interno di un unico denominatore, in quanto la ratio sottesa
ai diversi interventi proposti è diversa, anche se comunque rispondente a comuni
esigenze di equità e celerità dell’azione giudiziaria.
Riduzione del termine di decadenza dall’impugnazione
Nell’ambito di istanze acceleratorie del processo (fatte proprie anche nel testo
di riforma del processo civile di recente approvato dal Consiglio dei Ministri) si
propone di ridurre a sei mesi il termine “lungo” (attualmente fissato in un anno) per
proporre l’appello, il ricorso per cassazione, la riassunzione della causa e la
revocazione (nei casi previsti) avverso sentenze pronunciate in materia di lavoro,
previdenza e assistenza obbligatoria.
Accertamento pregiudiziale sulla interpretazione di leggi, regolamenti, contratti
ed accordi collettivi
L’esperienza di questi ultimi anni dimostra che, assai spesso, il contenzioso del
lavoro registra accumuli vistosi a causa di persistenti contrasti interpretativi
determinati non di rado da oscurità o ambiguità di disposizioni di legge, regolamenti,
o di contratti collettivi, dalle quali deriva il fenomeno delle “cause seriali o di massa”
che reclamano interventi rigorosi.
Ad un tale inconveniente non potrebbe provvedere il rimedio della revisio per
saltum, già previsto dall’art. art. 360, u.c., sia perché esso esaurisce i propri effetti
all’interno di una singola controversia, sia perché, essendo affidato esclusivamente
alla concorde volontà delle parti, anziché all’iniziativa del giudice, è rimasto del tutto
inutilizzato nella pratica.
Sulla base delle prime esperienze applicative dell’art. 420bis – le quali hanno
evidenziato difficoltà interpretative e aspetti critici, anche di livello costituzionale,
nella sua formulazione attuale – la Commissione, tenendo anche conto delle
indicazioni fornite dalla Corte costituzionale (ordinanza n. 252 del 2006) ha proposto
le seguenti innovazioni: a) estensione della pregiudiziale interpretativa a
disposizioni di legge, regolamenti, oltre che a clausole di contratti o accordi collettivi
nazionali; b) previsione, in questi ultimi due casi, del coinvolgimento (conoscitivo,
e anche processuale) delle associazioni sindacali che hanno sottoscritto l’accordo o il
contratto collettivo oggetto di interpretazione; c) limitazione al solo giudice di
primo grado della possibilità di sollevare la questione pregiudiziale, purchè
“rilevante e seria” (come sottolineato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 199
del 2003); d) limitazione della possibilità di pronunciare accertamento pregiudiziale
solo sull’interpretazione dei contratti ed accordi collettivi e non anche, come previsto
nell’attuale formulazione dell’articolo 420 bis c.p.c., sull’efficacia e validità.
Alle controversie di pubblico impiego resta applicabile l’art.64 del t.u. n. 165
del 2001, i cui commi 4, 6, 7 e 8, continuano ad applicarsi, in quanto compatibili alle
controversie di lavoro privato e previdenziale (secondo quanto disposto dall’art. 146
bis delle disposizioni di attuazione del c.p.c.).
Resta, altresì, applicabile l’art. 146 disp. att. c.p.c. (secondo cui “Nel caso di
cui all’art. 420bis del codice si applica, in quanto compatibile, l’art. 64, commi 4,6,7,
e 8 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”).
Correzione dell’articolo 421 c.p.c.
La Commissione ravvisa l’opportunità di correggere un refuso presente al
secondo comma dell’articolo 421 c.p.c., laddove si richiama il “comma sesto
dell’articolo precedente” mentre, a causa dell’inserimento nel 2006 dell’articolo 420
bis, il riferimento corretto è al sesto comma dell’articolo 420.
Decisione a seguito di trattazione e motivazione in forma abbreviata
Il crescente interesse collegato all’analisi dei metodi di organizzazione degli
uffici e di gestione del processo ha fatto emergere pratiche virtuose che hanno
consentito di ridurre il grave arretrato, velocizzando la trattazione dei processi5.
Tra gli strumenti che hanno consentito il notevole incremento di produttività vi
è stato l’ampio utilizzo della motivazione contestuale delle sentenze “mutuata
dall’articolo 281 sexies c.p.c., che ben può costituire norma di generale applicazione,
e certamente conforme allo spirito del processo del lavoro, che prevede a pena di
nullità l’immediata lettura almeno del dispositivo al termine dell’udienza”.
Si è ritenuto altresì di estendere la motivazione contestuale, già prevista nel
processo civile, al processo del lavoro, ma prevedendo che in questo ambito la
decisione a seguito di trattazione divenga la regola consentendo, solo come mera
eccezione, nel caso di particolare complessità della controversia, che il giudice possa
fissare nel dispositivo un termine non superiore a trenta giorni per il deposito della
sentenza.
L’utilizzo di questo metodo consentirà di ridurre i tempi per la decisione
concentrando il momento decisionale con quello motivazionale, nonché di evitare
errori che possono commettersi quando si redige il dispositivo senza aver ricostruito
tutti i passaggi della motivazione. Deve, infatti, segnalarsi come la Suprema Corte
abbia affermato che, nel rito del lavoro, il principio della non integrabilità del
dispositivo con la motivazione, in caso di insanabile contrasto fra le due parti della
sentenza, non trova applicazione nel caso in cui venga data lettura in udienza sia della
motivazione che del dispositivo in quanto, in tal caso, parte motiva e dispositiva
concorrono “entrambe a cristallizzare la statuizione consentendo, mediante
In particolare, per quanto riguarda il processo del lavoro, si è distinta a livello nazionale l’esperienza della Sezione
lavoro presso il Tribunale di Reggio Calabria, dove al 30 settembre 1999 risultavano pendenti 10.335 cause di lavoro,
pendenza ridotta a 3.785 cause di lavoro al 30 giugno 2005, con un numero di processi definiti in tale anno superiore
rispetto alle sopravvenienze dello stesso periodo; inoltre, mentre nel 1999 venivano pronunciate poco più di 990
sentenze l’anno, nel 2002 sono state pronunciate 4.757 sentenze. Tali dati sono tratti dalla relazione “Organizzazione
degli uffici e gestione del processo presso il Tribunale di Reggio Calabria” tenuta dalla dr.ssa Patrizia Morabito
magistrato coordinatore della Sezione Lavoro del Tribunale di Reggio Calabria, a Roma durante il corso di formazione
centrale del C.S.M. 27 febbraio-1 marzo 2006).
un’interpretazione complessiva, il passaggio in giudicato anche delle enunciazioni
contenute nella motivazione” (cfr. Cass., Sez. L, sentenza n.1673 del 29 gennaio
2004). Peraltro, l’apposita previsione di una norma che consenta l’immediata
redazione della motivazione, nell’ambito del rito del lavoro, permetterà di superare le
difficoltà ermeneutiche collegate all’applicazione dell’art. 281 sexies c.p.c., norma
costruita in riferimento al rito ordinario e poco adattabile al modello del processo del
lavoro.
La proposta avanzata, che prevede un mutamento di prospettiva disponendo
che la regola sarà rappresentata dalla motivazione contestuale mentre la motivazione
differita rappresenterà l’eccezione (nel caso di particolare difficoltà della
controversia) è, inoltre, in linea con le più recenti modifiche legislative, in particolare
con il rito societario previsto dal decreto legislativo 17 gennaio 2003, n.5.
Nell’ambito dell’esigenza di accelerazione e snellimento del lavoro del giudice
si inserisce il secondo articolo proposto che prevede la possibilità di far ricorso alla
motivazione in forma abbreviata mediante rinvio agli elementi di fatto riportati in uno
o più atti di causa e alla concisa esposizione delle ragioni di diritto, anche
riportandosi a precedenti conformi; anche in questo caso non si tratta di una assoluta
novità, in quanto la motivazione in forma abbreviata è già prevista dall’articolo 16,
quinto comma, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n.5 in materia di rito
societario.
Procedimento monitorio
La necessità di modificare le norme che disciplinano il procedimento monitorio
sorge da tre ordini di considerazioni:
-l’esigenza di equiparare il trattamento processuale dei lavoratori
subordinati, autonomi manuali, autonomi intellettuali per i quali non esiste una tariffa
legalmente approvata a quello per i lavoratori autonomi per i quali la tariffa esiste;
-il rilievo, frutto non solo di intuizione, ma anche dell’esperienza comparata,
che allargare il campo di applicazione del procedimento per decreto significa
introdurre una notevolissima razionalizzazione. La grande efficienza
dell’amministrazione della giustizia in Germania e in Austria deriva anche dalla
circostanza che la stragrande maggioranza delle domande di tutela giurisdizionale per
crediti pecuniari (in Austria addirittura anche quelli derivanti da fatto illecito!) è
filtrata da un procedimento monitorio puro;
-il rilievo empirico che una percentuale molto rilevante dei procedimenti di
lavoro si svolgono in contumacia; procedimenti i quali, data la disciplina di
derivazione francese, per cui l'attore deve provare la propria pretesa per vincere la
causa, comportano quasi sempre un inutile dispendio di attività. (Una ricerca svolta
alcuni anni or sono alla pretura di Torino con finanziamento CNR aveva rilevato il
34% dei procedimenti di lavoro sono svolti nella contumacia del convenuto).
E' appena il caso di rilevare che la notevole percentuale di procedimenti in
contumacia si ribalterebbe, con l'innovazione proposta, nella certezza che, per quanto
riguarda quei procedimenti, non vi sarebbe opposizione. E basterebbe già questo dato
di fatto, per concludere che l'innovazione darebbe luogo ad un guadagno netto di
attività giurisdizionale. Senza contare che la chiamata in campo delle associazioni
sindacali e professionali per il controllo dei conteggi condurrebbe ad una prima
scrematura delle pretese e, in generale, con grande probabilità, anzi, con ragionevole
certezza, ad una percentuale di opposizioni non superiore a quella, bassa, che si
registra per i decreti ingiuntivi secondo la disciplina vigente.
Un inconveniente della soluzione proposta potrebbe essere ravvisato nella
circostanza che essa può comportare una diminuzione dei redditi professionali degli
avvocati dei lavoratori. Ma a questa diminuzione corrisponderebbe una grande
semplificazione nel lavoro degli studi, che potrebbero meglio concentrarsi sulle cause
in cui viene proposta l'opposizione e su quelle più delicate e complesse che devono
seguire la via del processo in contraddittorio (licenziamenti, accertamenti
dell'esistenza del rapporto, mansioni, qualifiche, interpretazione dei contratti collettivi
ecc.)
La soluzione approvata dalla Commissione soddisfa le esigenze illustrate: con
le norme proposte si rende “quasi puro” (richiedendo al ricorrente di offrire indizi
idonei a far presumere esistenti i fatti costitutivi del proprio diritto) il procedimento
avente ad oggetto crediti in denaro traenti origine da uno dei rapporti indicati
dall'articolo 409 c.p.c. ovvero da rapporti di lavoro autonomo.
Calcolo di interessi e rivalutazioni
Con la modifica dell’articolo 150 delle disposizioni di attuazione al codice di
procedura civile, viene previsto che ai fini del calcolo della svalutazione monetaria, il
giudice applicherà l’indice ISTAT, nonché gli interessi legali calcolati sul capitale via
via rivalutato. In tal modo, viene trascritto in apposita norma, l’ordinamento così
detto “intermedio” espresso dalle Sezioni Unite della Cassazione (cfr. sentenza 29
gennaio 2001, n.38) in ordine alla cumulabilità degli interessi legali con la
rivalutazione monetaria.
Repressione della condotta antisindacale ed emersione del lavoro “nero”
Il lavoro “nero” è stimato in Italia nell’astronomico ammontare di oltre 3
milioni di unità lavorative. La “bonifica” del lavoro “nero” è stato un obiettivo
perseguito dal legislatore per più vie, tanto di repressione amministrativa e penale,
quanto di normazione “premiale” per i datori di lavoro che avessero deciso di
“emergere” dalla clandestinità o di far emergere parte della loro organizzazione
imprenditoriale.
I risultati sono stati, sia sull’uno sia sull’altro versante, costantemente
deludenti, e ciò in quanto: gli organi repressivi non hanno mezzi uomini strutture,
procedure e talvolta neanche volontà sufficienti per contrastare capillarmente un
fenomeno tanto diffuso, mentre le normative premiali non possono mai raggiungere
la convenienza della (ancor poco rischiosa) evasione totale. E’, inoltre, sempre
mancata la legittimazione attiva alla repressione del lavoro “nero” di un ente
collettivo esponenziale degli interessi dei lavoratori, non soggetto a quei
condizionamenti ai quali invece non può sfuggire il singolo lavoratore immerso nella
realtà drammatica del lavoro irregolare, ente non può che essere identificato
nell’Organizzazione Sindacale, la quale certamente incontra nel lavoro “nero” un
formidabile quanto ingiusto ostacolo alla sua azione di proselitismo e di
organizzazione degli interessi collettivi: l’attività sindacale si ferma o diventa
difficilissima se i lavoratori sono “invisibili” perché non regolarizzati, ma allora è
evidente che il non regolarizzare i lavoratori costituisce un ostacolo (illegittimo)
all’attività sindacale, e l’attività sindacale, per altro verso, è proprio uno dei beni
tutelati dall’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori, norma che reprime i
comportamenti datoriali contrari alla “libertà sindacale, all’attività sindacale ed al
diritto di sciopero”. Date tali premesse non rappresenterebbe una forzatura
concettuale ritenere che dare lavoro in “nero” possa integrare la fattispecie di
comportamento antisindacale ma, anzi, il risultato di una meditata lettura della
norma, mentre, per altro verso, proprio questa sembrerebbe la via più convincente per
la lotta al lavoro “nero”, primo nemico dell’organizzazione e dell’attività del
Sindacato. Ciò in quanto il singolo lavoratore assunto in “nero” sarebbe troppo
debole e troppo ricattato, solitamente, per poter denunziare la sua condizione al
giudice o alla Autorità Amministrativa e dunque dovrebbe esser riconosciuta, accanto
ad una legittimazione individuale, una legittimazione “collettiva”, quella del
sindacato, ossia dei lavoratori coalizzati.
Nell’ambito di tali premesse si muove la proposta di esplicito riconoscimento
legislativo della applicabilità dell’articolo 28 dello Statuto dei Lavoratori alla ipotesi
di “lavoro nero”. La proposta si “sposerebbe” perfettamente -quale misura
repressiva finalizzata, però, ad una uscita concordata e definitiva dalla illegalità- con
le previsioni legislative anche recentissime (cfr. legge finanziaria 2007) circa accordi
sindacali di “emersione” del lavoro “nero” che condonano al datore di lavoro, che si
impegna con quegli accordi a rientrare nella legalità, gran parte delle sanzioni e dei
costi connessi con le violazioni di legge già consumate. Il meccanismo sinergico
potrebbe essere il seguente: dopo che il sindacato abbia “scovato” il datore di lavoro
“in nero” portandolo in giudizio con il procedimento dell’art. 28 legge 300/1970 per
impedimento alla attività sindacale ed il giudice gli abbia ordinato di cessare dal
comportamento e di “rimuovere gli effetti”, la “rimozione” potrebbe consistere,
appunto, nella stipula di un “accordo di emersione” con lo stesso sindacato
denunziante.
Dal punto di vista della riforma del testo legislativo la Commissione suggerisce
di introdurre un comma all’attuale formulazione dell’art. 28 dello Statuto dei
Lavoratori
Lavoro dei detenuti
Con la sentenza del 27 ottobre 2006, n. 341, la Corte costituzionale ha
dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 69, comma 6, lett. a), della legge
354/75 (ordinamento penitenziario), nella parte in cui prevede che le controversie
concernenti il lavoro carcerario siano decise dal magistrato di sorveglianza, secondo
la procedura di cui all’art. 14 ter della stessa legge. In primo luogo, occorrerebbe
chiarire se la sentenza impone semplicemente il rispetto di un rito che garantisca
adeguatamente il principio del contraddittorio (con preferenza per il rito del lavoro,
stante l’oggetto delle controversie), o se impone anche una diversa competenza in
materia di lavoro carcerario.
La ricognizione del thema decidendum operata dalla Corte, ed un (sintetico)
riferimento alla competenza, sembrerebbe andare in quest’ultima direzione: in effetti,
la sentenza della Corte insiste soprattutto nell’insufficienza della procedura de plano,
prevista dall’art. 14 ter 26 luglio 1975, n. 354, ad assicurare il rispetto del principio
del contraddittorio, mentre l’altro elemento cardine della motivazione -la pari dignità
del lavoro del detenuto e la sua finalizzazione al reinserimento sociale- non
escluderebbe con la stessa forza logica la competenza del magistrato di sorveglianza,
peraltro riconosciuta dalla prevalente giurisprudenza di legittimità. Ad ogni modo, il
tema in esame impone di considerare sia il problema dell’inquadramento generale del
lavoro carcerario, sia le implicazioni pratiche della nuova competenza del giudice del
lavoro (traduzioni dei detenuti presso i tribunali civili, inadeguatezza delle strutture,
aumento dei rischi per la sicurezza, aumento dei costi, incidenza sulla celerità del
procedimento, ecc…).
Sul piano generale, devesi rilevare (sentenza Corte cost. 1087/1988) che il
lavoro carcerario mantiene elementi di perdurante diversità rispetto al lavoro alle
dipendenze di terzi (trae origine da un obbligo legale e non da un contratto,
costituisce oggetto di una specifica regolamentazione in relazione allo status
libertatis del lavoratore ed alla qualità del datore di lavoro, è indirizzato alla
realizzazione degli obiettivi del reinserimento sociale del detenuto, l’amministrazione
datrice di lavoro non persegue l’utile, l’occupazione del detenuto non è regolata dal
mercato).
Inoltre, accanto al classico “lavoro carcerario” (il lavoro alle dipendenze
dell’amministrazione penitenziaria), sono fiorite nuove figure (lavoro alle dipendenze
di imprese pubbliche e private da svolgersi all’interno od all’esterno del carcere,
lavoro associato nell’ambito di cooperative, lavoro autonomo, lavoro a domicilio,
ecc…).
L’adeguamento normativo, quindi, pone anche un problema definitorio in
relazione all’oggetto della cognizione.
Il riferimento al lavoro carcerario (definizione soprattutto dottrinale) richiama
una categoria piuttosto incerta ed eterogenea, comprensiva, come già detto, sia del
lavoro intramurario sia del lavoro all’esterno del carcere, sia di forme di lavoro
subordinato sia di forme di lavoro “parasubordinato”, sia alle dipendenze
dell’amministrazione carceraria sia alle dipendenze di terzi. I nuovi esiti della
flessibilità potrebbero sminuire ulteriormente la valenza definitoria del sintagma, ed è
per questo che nella proposta normativa si è optato per l’ampia locuzione: “rapporti
di lavoro dei detenuti” cercando, per quanto possibile, di non indurre nuove
incertezze. In ordine alla competenza, una volta assimilate le situazioni dei lavoratori
detenuti a quelle dei lavoratori liberi, dovrebbero mantenersi gli stessi criteri di
competenza per territorio, valendo per gli uni come per gli altri le medesime esigenze
connesse all’ accertamento dei fatti (luogo in cui è sorto il rapporto, in cui si trova l’
“azienda” o viene effettuata la prestazione).
L’esigenza di evitare la moltiplicazione degli adempimenti organizzativi, gli
aggravi di spesa legati alla traduzione dei detenuti ed i rischi sempre connessi a tale
evento, potrebbe forse suggerire la competenza territoriale del Tribunale nel cui
circondario si trova l’istituto in cui il lavoratore è detenuto in un certo momento
processualmente significativo (es: deposito del ricorso); tuttavia, la possibilità (e la
frequenza) dei trasferimenti dei detenuti da un istituto all’altro rischia di sortire gli
stessi inconvenienti, se non addirittura di peggiorarli, lasciando per giunta senza
garanzia le esigenze cui rispondono i criteri di competenza validi per ogni lavoratore.
Sulla base delle considerazioni esposte la Commissione ha formulato una
proposta che prevede l’estensione del solo rito del lavoro nei giudizi innanzi al
magistrato di sorveglianza, sulle controversie relative al lavoro svolto dai detenuti in
favore dell’amministrazione penitenziaria; mentre è prevista l’estensione della
competenza del giudice del lavoro sui rapporti di lavoro dei detenuti con soggetti
terzi datori di lavoro, pubblici o privati.
Atti e licenziamenti discriminatori ed onere della prova
La necessità di modificare l’attuale disciplina dell’onere della prova in materia
di atti discriminatori sorge da una procedura di infrazione (n.2006/2441) ex articolo
226 del Trattato CE, con la quale la Commissione CE ha contestato all’Italia la non
corretta applicazione della direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia
di occupazione e condizioni di lavoro.
Analizzando nello specifico i rilievi sollevati dall’esecutivo comunitario, la
Commissione europea, per la parte di interesse, ha contestato l’inesatto recepimento,
nella legislazione nazionale, dell’articolo 10 della direttiva citata laddove si prevede,
in materia di onere della prova, che: “Gli stati membri prendono le misure necessarie,
conformemente ai loro sistemi giudiziari nazionali, per assicurare che, allorché le
persone si ritengano lese dalla mancata applicazione nei loro riguardi del principio
della parità di trattamento espongono dinanzi ad un tribunale o ad un’altra autorità
competente, fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione
diretta od indiretta, incomba alla parte convenuta provare che non vi è stata
violazione del principio di parità di trattamento”.
Secondo la Commissione CE nel recepimento di tale direttiva (avvenuto con il
decreto legislativo 9 luglio 2003 n. 216) non sarebbe stato correttamente disciplinato
l’onere della prova, in quanto l’articolo 4 comma 4, del decreto n.216/2003 , prevede
che sia il ricorrente a dover dimostrare la sussistenza del comportamento
discriminatorio a proprio danno, deducendo in giudizio, anche sulla base di dati
statistici “elementi di fatto, in termini gravi precisi e concordanti che il giudice valuta
ai sensi dell’articolo 2729, primo comma, del codice civile”.
Secondo la Commissione europea la legislazione italiana chiedendo al
ricorrente di dimostrare fatti gravi precisi e concordanti onde stabilire la presunzione
di discriminazione, renderebbe troppo difficile all’attore adire la giurisdizione,
mentre l’obiettivo dell’articolo 10, paragrafo 1, della direttiva consiste nell’esatto
contrario, cioè nell’alleviare l’onere della prova a carico della vittima di
comportamenti discriminatori, anche considerando, come si precisa nell’atto di messa
in mora dello Stato italiano, che nell’ambito di altre normative italiane, esistono
disposizioni che, in talune circostanze, trasferiscono efficacemente l’onere della
prova come per l’articolo 4, comma 5, della legge 10 aprile 1991 n.125 sulle “azioni
positive per la realizzazione della parità uomo donna (attuale articolo 40 del decreto
legislativo 11 aprile 2006, n.198 recante il codice delle pari opportunità tra uomo e
donna ).
E’ emerso che il problema potrebbe avere una portata più ampia di quella
evidenziata dall’esecutivo comunitario, in quanto la direttiva 2000/78/CE si applica,
ex articolo 3, anche al licenziamento discriminatorio. Il decreto contestato non
contiene alcuna norma specifica sul punto, in quanto il licenziamento discriminatorio
era già regolato, nel nostro ordinamento, con l’articolo 15 dello statuto dei lavoratori
(l. 20 maggio 1970, n.300). Sennonché, come è noto, tale norma non prevede
l’inversione dell’onere della prova (cfr. per tutte Cass. Sez. L., sent. n. 14753 del 15
novembre 2000) e ciò ha comportato oltre ad un’eventuale procedura di infrazione
comunitaria, anche profili di disparità di trattamento qualora la disposizione fosse
prevista per le altre, meno gravi, discriminazioni.
Inoltre, la modifica imposta dalla Commissione Europea in relazione alla
direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e
condizioni di lavoro, imporrebbe di modificare anche il decreto legislativo di
recepimento della direttiva 2000/43/CE sulla parità di trattamento tra le persone
indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, in quanto anche quest’ultima
direttiva prevede all’articolo 8 l’inversione dell’onere della prova ed decreto
legislativo 9 luglio 2003, n. 215, di recepimento della tale direttiva, “gemella”
rispetto al decreto 215/2003, contiene all’articolo 4 comma 3, una norma
sull’inversione dell’onere della prova, identica a quella contestata dalla Commissione
europea. In ogni caso, anche a prescindere dalla esistenza di una specifica procedura
di infrazione, modificare l’articolo 4 del decreto legislativo n.216/2003, senza
modificare l’identico articolo 4 del decreto legislativo n.215/2003 potrebbe esporre a
censure di incostituzionalità.
Date tali premesse, la Commissione ha proposto di inserire una norma che
preveda l’inversione dell’onere della prova in presenza di qualunque atto di
discriminazione, sostituendo a tutte le disposizioni settoriali un richiamo alla norma
generale.
Quanto alla formulazione della norma, di fronte a due possibili opzioni )la
prima, riproducente la norma contenuta nel codice delle pari opportunità tra uomo e
donna: decreto legislativo 11 aprile 2006 n.198, articolo 40); e la seconda, più fedele
al testo delle direttive richiamate, la Commissione ha optato per quest’ultima
soluzione.
Quanto alla collocazione sistematica, si è proposto di inserire la norma
nell’ambito dello Statuto dei lavoratori dopo l’articolo 15, il che comporterà di
prevedere un richiamo alla nuova soluzione in tutte le norme settoriali.
Modifica dell’articolo 96 legge fallimentare
La riforma della legge fallimentare, attuata con il decreto legislativo 9 Gennaio
2006, n. 2005, il quale ha dettato una nuova disciplina della formazione ed esecutività
dello stato passivo nonché delle impugnazioni contro il relativo decreto dal punto di
vista processuale ha introdotto due importanti novità:
a) da un lato l’effetto solo endoprocessuale attribuito dall’ultimo comma dell’art. 96
LF. tanto al decreto di esecutività dello stato passivo quanto alla sentenza che decide
il procedimento di impugnazione;
b)dall’altro l’adozione, per quest’ultimo procedimento, di un rito camerale “ampliato
e garantistico” prevedente l’assunzione in contraddittorio di mezzi di prova di ogni
tipo.
Per quanto riguarda il primo aspetto, va ricordato che in precedenza si riteneva
che la sentenza emessa nel procedimento di opposizione allo stato passivo avesse
efficacia di giudicato, essendo pronunziata al termine di un normale giudizio di tipo
ordinario, e ciò aveva un sicuro rilievo in tutte quelle cause in cui, pur trattandosi
immediatamente di un credito di lavoro, si accertava però, in via preliminare, la
sussistenza di un rapporto di lavoro. Un accertamento di questo genere consentiva
pertanto successivamente, anche in sede extrafallimentare, al lavoratore di ottenere la
ricostituzione di posizioni previdenziali, a suo tempo non accese per la irregolarità di
contratti di lavoro (atipici o addirittura “in nero”) in base ai quali era stata prestata
l’opera e anche maturato il credito.
Con l’efficacia solo endoprocessuale anche della sentenza emessa nel giudizio
di opposizione (ora impugnazione) disciplinato dall’art. 99 LF. questa preziosa
possibilità andrebbe persa, ed occorre in proposito ripensare un po’ l’intera
problematica dei rapporti tra interessi dei lavoratori, contenzioso lavoristico, vicende
concorsuali e procedimento fallimentare.
Il fatto è, invero, che l’interesse fondamentale dei lavoratori nelle insolvenze e nei
procedimenti fallimentari non è tanto, quello del recupero dei crediti rimasti impagati,
sia perché ad esso si fa fronte in buona parte ricorrendo al Fondo di Garanzia di cui
alla Legge 297/82, sia perché esiste il privilegio di I° grado e la decorrenza di
interessi e rivalutazioni fino al riparto finale, quanto piuttosto quello di veder
riconosciuto, come premessa del credito, lo status stesso di lavoratore subordinato, e
che significa poi poter accedere o meno, in futuro, ad un trattamento previdenziale
pensionistico.
Il problema ed il fenomeno sociale da comprendere è questo: l’insolvenza
dell’impresa ed il fallimento costituiscono, per così dire, il “pettine” al quale arrivano
assai spesso tutti assieme, i nodi dei tanti rapporti irregolari costituiti
dall’imprenditore ancora “in bonis”: false collaborazioni a progetto, false
associazioni in partecipazione, falsi contratti di inserimento, rapporti di
somministrazione irregolari ecc. ecc.
E’ insomma il caso, talvolta davvero drammatico, di lavoratori che avendo
collaborato per molti anni sulla base di rapporti “atipici” rischiano, con il fallimento
dell’impresa di non poter mai ottenere una posizione previdenziale adeguata per il
lavoro effettivamente prestato.
Due possibilità concettuali si aprono per porre rimedio a questa palese
grandissima ingiustizia:
A) accettare la logica del D.Lgs. 9 Gennaio 2006, n. 5 e cioè l’efficacia solo
endofallimentare delle pronunzie dei giudici fallimentari, -che pertanto rispondono
solo alla questione di quali crediti debbano essere ammessi al riparto, ma senza
pervenire a nessun accertamento con valore di giudicato- e allora portare fuori dalla
sede fallimentare, mantenendoli espressamente al giudice del lavoro tutti i giudizi
relativi alla sussistenza del rapporto di lavoro subordinato (previa riqualificazione)
dei rapporti di lavoro atipici irregolari. Scontando, però, allora, continui problemi di
interferenza tra le due competenze e sedi visto che la sussistenza del rapporto è,
inevitabilmente, il presupposto del credito del lavoratore;
B) affidarsi, invece, al nuovo procedimento camerale disciplinato dall’art. 99,
della LF. come ora ridisciplinato dal D.Lgs. N. 5/2006 e prevedere una specifica
eccezione all’efficacia solo endofallimentare delle pronunzie, allo scopo di dare una
risposta, per così dire “veloce e compatta”, nella stessa sede fallimentare a quel
fondamentale interesse del lavoratore.
La Commissione ha approvato questa seconda forma di intervento proponendo
di modificare, con l’aggiunta di un comma, l’art. 96 legge fallimentare, come
modificato dal decreto legislativo 9 gennaio 2006 n.5.
Controversie tra socio e cooperativa
Con la modifica del secondo comma dell’articolo 5 della legge 30 aprile 2001,
n.142 (nel testo vigente a seguito dall’entrata in vigore dell’articolo 9 della legge 14
febbraio 2003, n.30) si intende porre fine a difficoltà, interpretative ed applicative-
testimoniate da una diffusa giurisprudenza di merito - derivanti dall’attribuzione alla
competenza del tribunale ordinario delle sole controversie tra socio e cooperativa
relative alla prestazione mutualistica. La Commissione ha, quindi, proposto di
modificare l’attuale formulazione della norma richiamata prevedendo che le
controversie tra socio e cooperativa siano tutte di competenza del tribunale in
funzione di giudice del lavoro.
Sentenze del giudice ordinario e giudizio di ottemperanza
Ai sensi dell’art. 33, c.3 della legge n. 1034 del 1971 (modificato dall’art. 10
della legge 21 luglio 2000, n. 205) possono essere oggetto del giudizio di
ottemperanza le sentenze del giudice amministrativo di primo grado purchè non
sospese dal giudice di appello.
Lo stesso non è possibile nel caso in cui oggetto di un giudizio di ottemperanza
riguardi una sentenza del giudice ordinario (il che potrebbe verificarsi nel caso di
controversie di pubblico impiego per il quale la giurisdizione dell’a.g.o. costituisce la
regola, per effetto della “privatizzazione” operata dal t.u. n. 165 del 2001) che, pur
avendo efficacia provvisoriamente esecutiva, non sia ancora passata in giudicato
La Corte costituzionale, con ordinanza n. 44 del 2006 ha ritenuto
manifestamente infondata la questione sulla descritta disparità di trattamento,
considerandola frutto di una discrezionalità del legislatore il quale “ha voluto dare
concretezza al principio di esecutività delle sentenze di primo grado” e aggiungendo
che “…sono differenti e, quindi, non comparabili le azioni esecutive davanti al
giudice ordinario secondo le norme di procedura civile, trattandosi di sentenze o
provvedimenti esecutivi che non richiedono l’esame di merito proprio del giudizio di
ottemperanza. Pertanto non potrebbe parlarsi di disparità di trattamento fra l’ipotesi
di esecuzione di sentenza amministrativa di primo grado, perseguita attraverso il
giudizio di ottemperanza e l’ipotesi di esecuzione delle sentenze di primo grado del
giudice ordinario.
La decisione lascia in disparte l’ipotesi delle sentenze rese dal giudice del
lavoro in controversie di lavoro “pubblico” per le quali pure risulta utilizzato il
giudizio di ottemperanza.
Per ovviare a tale alcuna si propone di modificare il primo comma dell’art.37
della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 prevedendo che possa farsi ricorso al giudizio
di ottemperanza anche nel caso di sentenza emessa dell’autorità giudiziaria ordinaria,
dotata di esecutività ai sensi dell’art. 431 c.p.c., che abbia riconosciuto la lesione di
un diritto civile o politico.
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