20/05/11 Pisa

Organizzato dalla Sezione di Pisa dell'Osservatorio sul diritto di famiglia, con l'intervento dei Magistrati del Tribunali di Pisa maggiormente impegnati nella materia, si è tenuto a Pisa il 20 maggio 2011 un convegno sul contributo di mantenimento e sull'assegno divorzile. Si pubblicano il programma e le relazioni.

Relazione della Dr Milena Balsamo by Milena Balsamo
Relazione del Dr. Salvatore Lagana by Salvatore Lagana
Relazione del Dr. Salvatore Lagana' by Salvatore Lagana\'
Relazione della Dr Maria Sanmarco by Maria Sanmarco
Il programma by Osservatorio Pisa

Relazione della Dr Milena Balsamo

Rapporti tra provvedimento presidenziale e poteri di modifica e revoca del g.i. in sede di separazione e divorzio.

di Milena Balsamo, Giudice del Tribunale di Pisa

Premessa

I provvedimenti temporanei ed urgenti assunti dal presidente con l’ordinanza di cui al terzo comma dell’art. 708 c.p.c. sono soggetti al controllo sia dell’istruttore nella fase successiva sia al controllo della Corte d’Appello.

In particolare, i provvedimenti presidenziali possono essere revocati o modificati dal g.i. ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 709 c.p.c. e con la riforma del processo familiare – l.80/2005 e l. 54/2006 – sono suscettibili anche di revisione attraverso lo strumento del reclamo in Corte d’Appello nel termine perentorio di dieci giorni dalla notificazione del provvedimento.

La previsione legislativa di due diversi strumenti di revisione avverso i provvedimenti presidenziali induce ad esaminare i rapporti tra le due misure concorrenti di controllo.

In dottrina e in giurisprudenza si contrappongono tesi che sostengono l’alternatività dei rimedi e quelle che, viceversa, la negano.

Secondo la tesi della non alternatività dei rimedi, l’ordinanza presidenziale è revocabile e modificabile da parte del giudice istruttore solo se sopravvengono giustificati motivi di natura sostanziale ( circostanze nuove) ovvero di natura processuale ( nuove allegazioni o nuove prove), mentre il reclamo è esperibile se si intendono far valere errori della decisione adottata nella fase presidenziale e, in questa ipotesi, la decisione del Corte d’Appello si basa necessariamente sui medesimi elementi allegati nella fase presidenziale ( in tal senso: Tribunale di Pisa 3.03.2010; Trib Pistoia 7.01.2010).

Dunque, non è possibile invocare i poteri di modifica e revoca del provvedimento presidenziale non reclamato, se non sono sopravvenute circostanze nuove per due ordini di ragioni.

I due rimedi hanno funzioni peculiari: il reclamo consiste in una rivalutazione dell’ordinanza presidenziale sulla base dei medesimi elementi posti a fondamento della stessa ( eventuali errori di valutazione delle emergenze processuali), mentre il potere di revoca e modifica ha lo scopo di adeguare la situazione di diritto a quella di fatto e dunque di adeguare i provvedimenti alle nuove emergenze risultanti dalla istruttoria svolta ovvero alle circostanze sopravvenute.

Sebbene sia stato eliminato dall’art. 709 c.p.c. l’inciso “ mutamento delle circostanze”, l’art. 156 ult. comma c.c. prevede espressamente che, solo in presenza di sopravvenuti giustificati motivi, il giudice può revocare o modificare i provvedimenti già assunti.

La disciplina dei provvedimenti di revoca e modifica del provvedimento presidenziale deve essere uniformata al modello procedimentale dei provvedimenti cautelari di cui agli artt. 669 e ss c.p.c. che prevede la sussistenza di un quid novi per l’esercizio del potere di revoca o modifica dei provvedimenti cautelari emessi dal giudice.

In questa prospettiva, il disposto dell’art. 709 c.p.c. deve essere letto nel senso che la modifica è consentita solo se ricorrono mutamenti sopravvenuti nelle circostanze.

Su questa scia si colloca anche la giurisprudenza del Tribunale di Napoli secondo il quale, in pendenza del termine per la proponibilità del reclamo in Corte d'appello e al fine di evitare contrasti tra provvedimenti, non è possibile chiedere al giudice istruttore la modifica o la revoca dei provvedimenti presidenziali, adottati nelle cause di separazione, anche in ipotesi di sopravvenienze(Tribunale Napoli, 09/11/2006).

Assolutamente singolare, nel panorama giurisprudenziale, la soluzione giuridica adottata dalla Corte d’Appello di Firenze per regolamentare i rapporti tra i due mezzi di revisione dei provvedimenti presidenziali.

Secondo i giudici fiorentini, difatti, il reclamo è “ammissibile” solo se il provvedimento presidenziale è destinato ad avere una duratura applicazione e sempre che si intenda rimediare all’abnormità della decisione che può danneggiare le parti nel tempo che separa l’udienza presidenziale da quella di prima comparizione dinanzi all’istruttore( C. Appello Firenze 9.04.2010).

Sennonchè, una tale soluzione potrebbe lasciare le parti prive di una qualsiasi tutela non potendo reclamare il provvedimento presidenziale per il breve lasso temporale intercorrente tra le due udienze e non potendo ottenere la revoca o la modifica dell’ordinanza presidenziale per la carenza del quid novi.

Reclamabilità delle ordinanze del giudice istruttore

Le questioni che per ragioni di priorità logico-giuridica vanno esaminate in via preliminare riguardano la natura cautelare o meno dei provvedimenti provvisori concernenti i coniugi e la prole, emessi dal giudice istruttore nell’ambito dei giudizi di separazione o di divorzio, secondo le previsioni contenute rispettivamente negli artt. 708 e 710 c.p.c., 189 disp.att. c.p.c. e nell’art. 4 l. 1970/898 come modificato dalla l.1987/74 e dall’altra l’applicabilità a detti provvedimenti delle regole del procedimento cautelare uniforme di cui agli artt. 669 bis e ss.c.p.c. e segnatamente l’assoggettabilità degli stessi al reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c.

La risoluzione della questione relativa all’ammissibilità o meno del reclamo avverso le ordinanze istruttorie del giudice che incidono sull’affidamento dei minori, sull’assegnazione della casa coniugale e sull’assegno di mantenimento esige un preliminare excursus sugli orientamenti giurisprudenziali in ordine alla natura dei provvedimenti istruttori in materia di famiglia.

La giurisprudenza maggioritaria escludeva la possibilità di reclamare i provvedimenti di modifica e di revoca del g.i., così come riteneva di escludere la reclamabilità dei provvedimenti presidenziali, poiché negava loro il carattere della strumentalità, in quanto l’art. 189 disp.att. c.p.c. stabilisce che detti provvedimenti conservano la loro efficacia anche dopo l’estinzione del processo, finchè non siano sostituiti con altro provvedimento emesso dal Presidente o dal giudice istruttore a seguito di nuova presentazione del ricorso per separazione personale.

Il provvedimento presidenziale, così come quello del g.i., può dunque non refluire in alcuna pronuncia definitiva, di guisa che detti provvedimenti non venivano e – oggi secondo un prevalente orientamento giurisprudenziale, non vengono - considerati tipicamente cautelari per l’assenza di quella strumentalità che deve necessariamente sussistere tra il provvedimento cautelare emesso in via provvisoria ed il giudizio a cognizione piena che si conclude con la sentenza.

Da ciò ne discendeva la loro inquadrabilità nell’ambito dei provvedimento sommari non cautelari ( o latamente cautelari) che si caratterizzano rispetto a quelli cautelari in quanto questi ultimi servono principalmente a salvaguardare il diritto nel tempo occorrente per ottenerne il riconoscimento con una decisione di merito, proteggendolo dal pericolo di infruttuosità o tardività, mentre i secondi servono fondamentalmente ad anticipare gli effetti della futura sentenza; sotto il profilo strutturale la differenza sta nel fatto che i provvedimenti cautelari esigono una valutazione sommaria della probabile esistenza del diritto cautelando, mentre i provvedimenti non cautelari non richiedevano necessariamente la formulazione di una prognosi favorevole della fondatezza della domanda, postulando una valutazione degli elementi di giudizio alla stato degli atti.

Senonchè, la l. 80/2005, ha modificato l’art. 669 octies comma 6 c.p.c., nel senso che la disposizione di cui al comma 1 dell’art. 669 novies c.p.c. non si applica ai provvedimenti di urgenza emessi ai sensi dell’art. 700 c.p.c. e agli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito, per cui non si impone l’onere di instaurare il giudizio di merito e l’estinzione del giudizio di merito non determina l’inefficacia dei provvedimenti di cui al comma 1 anche quando la relativa domanda è proposta in corso di causa. Ne consegue che tutti provvedimenti anticipatori sopravvivono all’estinzione del giudizio di merito, con la conseguente caducazione delle differenze più profonde che sussistono tra i provvedimenti cautelari e i provvedimenti in materia di famiglia.

In altri termini, introdotti i provvedimenti cautelari a strumentalità attenuata non sussisterebbero più le ragioni addotte dalla prevalente giurisprudenza per escludere i provvedimenti istruttori dal novero di quelli cautelari.

Questa impostazione è stata criticata da altra parte della dottrina e della giurisprudenza che nel segnalare la previsione di un sistema di garanzie particolare per i provvedimenti presidenziali( modificabili e revocabili sempre e ora reclamabili in Corte d’Appello), diversamente dalle ordinanze pronunciate in corso di causa dal g.i., ritiene che il disposto dell’ultimo comma dell’art. 709 c.p.c. nel disporre la modificabilità dei provvedimenti provvisori anche in assenza di sopravvenienze, si pone in contrasto con l’art. 669 decies c.p.c. che in via generale chiede per la revoca e la modifica dei provvedimenti cautelari proprio l’intervento delle sopravvenienze.

Se dunque, lo strumento previsto dall’art. 708 c.p.c. non è quello di cui all’art. 669 decies c.p.c., quest’ultimo non può ritenersi applicabile in via analogica anche ai provvedimenti del g.i., tenuto conto della loro peculiarità ( modificabilità e revocabilità indipendentemente dalla sopravvenienza di nuove circostanze).

Si assume, in questa prospettiva, che anche il reclamo alla Corte d’Appello introdotto dal legislatore non sembra assimilabile al reclamo cautelare di cui all’art. 669 terdecies c.pc.. ma a quello camerale ex art. 739 c.p.c., tesi che troverebbe conferma nell’impostazione dell’udienza presidenziale in termini di volontaria giurisdizione.

Attesa, dunque, la particolare natura del reclamo avverso le ordinanze presidenziali, introdotte dalla recente legge, non si porrebbe un problema di applicabilità analogica, per ragioni di simmetria e di razionalità, del predetto mezzo di impugnazione anche alle ordinanza istruttorie che hanno natura contenziosa.

Se dunque lo strumento previsto dalla legge 80/05 è un mezzo impugnatorio differente da quello previsto dal rito cautelare uniforme e se il legislatore ha previsto la sua applicazione solo per i provvedimenti presidenziali, secondo detta impostazione, non potrebbe applicarsi la citata disposizione in via analogica anche alle misure del g.i..

Ritiene, invece, questo giudice che sarebbe irragionevole limitare la reclamabilità alle sole ordinanze presidenziali, le quali sarebbero suscettibili di revoca o modifica ad opera del giudice istruttore e godrebbero della garanzia del reclamo ad un giudice superiore, quello di appello, mentre le ordinanze del giudice istruttore potrebbero essere riesaminate solo dallo stesso giudice.

Ad avviso di chi scrive, non si può negare l'applicabilità al caso di specie dell'art. 669-terdecies c.p.c., se si valorizzano gli elementi di analogia piuttosto che quelli, fin qui solo invocati dalla giurisprudenza dominante, di diversità. Sia le ordinanze che i provvedimenti cautelari si fondano, infatti, su una cognizione pressoché identica, basata sul periculum in mora e sul fumus boni iuris, provvedendo parimenti in via sommaria e urgente alle necessità delle parti in causa.

La possibilità dell’adozione d'ufficio dei provvedimenti ex art. 708 c.p.c. non è idoneo ad escludere la natura cautelare delle ordinanze del g.i., in quanto l’officiosità è connessa alla natura dei diritti e degli interessi( allorquando sono coinvolti minori) implicati nei giudizi di separazione e divorzio.

Peraltro, anche taluni provvedimenti cautelari possono, se del caso, essere adottati d'ufficio ( si pensi all’art. 146, comma 3, l.f., peraltro ora abrogato, in esito al nuovo ruolo affidato al giudice delegato).

Potrebbe, poi, anche osservarsi che, in base all'art. 669-octies c.p.c. novellato, tutti i provvedimenti cautelari, almeno quelli di carattere anticipatorio, sono caratterizzati da strumentalità attenuata, onde questo carattere non è più assolutamente indispensabile per poter godere della relativa tutela. Del resto, con la Novella, il legislatore ha solo generalizzato la nuova prospettiva della cautelarità, già alla base del processo societario, che non può più, quindi, essere considerato un rito a carattere eccezionale, anche in punto di ultrattività dei provvedimenti di stampo anticipatorio, analoga a quella prevista dall'art. 189 disp. att. c.p.c. in materia di ordinanze presidenziali e del giudice istruttore (art. 669-octies, comma 7, c.p.c. e artt. 23, comma 4, e 24, comma 3, l. n. 5 del 2003).

In entrambi i casi è presente la caratteristica ormai tipica della cautelarità, poiché l'attribuzione alle parti della mera facoltà di iniziare (o di lasciare estinguere) il processo ordinario una volta ottenuta la misura sommaria e conseguito il risultato perseguito, incide sul nesso di strumentalità (attenuandolo) soprattutto sul piano funzionale, svincolando il provvedimento cautelare dal principale e rendendo così teleologicamente “autonoma” la tutela accordata .

Del resto, che l'ordinanza presidenziale (e quindi anche quella del g.i.), abbia carattere cautelare è affermato dalla Suprema Corte, onde sarebbe davvero assurdo negare l'applicabilità dell'art. 669-terdecies c.p.c. sol perché l'art. 660-quaterdecies c.p.c. non prevede espressamente questi provvedimenti, atteso che di tale norma di rinvio è il criterio di compatibilità a fungere da discrimine.

L'art. 669-terdecies c.p.c. è norma di chiusura del sistema, sul piano della tutela giurisdizionale, al di là del proprio ambito codificato, come del resto emerge chiaramente anche dalla nuova disciplina dettata dall'art. 624, comma 2, c.p.c. in punto di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. avverso l'ordinanza che provvede sull'istanza di sospensione in caso di opposizione all'esecuzione.

Sarebbe allora paradossale e contrario al principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost., se il rimedio del reclamo dovesse essere riservato solo ai provvedimenti formalmente cautelari, sul piano squisitamente e esclusivamente processuale e non già sostanziale, mentre esso dovrebbe essere escluso per provvedimenti che, come quelli presidenziali o del giudice istruttore, hanno carattere bensì sommario, ma con attitudine, se non al giudicato, di certo a forme di stabilizzazione simili, sul piano funzionale.

Del resto, la Corte Costituzionale alla quale era stata rimessa la questione di legittimità costituzionale della mancanza di uno strumento come il reclamo avverso le ordinanze del g.i., ha affermato, con ordinanza n. 322 dell’11.11.2010, che, a fronte della questione sollevata dal remittente secondo il quale «nell'ambito del giudizio di separazione, disciplinato dagli artt. 706 e seguenti c.p.c., non esiste alcuna disposizione che espressamente consenta [neppure con interpretazione estensiva o analogica] il reclamo delle ordinanze di revoca o modifica dei cosiddetti provvedimenti presidenziali, adottate dal giudice istruttore e che quindi lo strumento del reclamo davanti alla Corte d'appello continua ad applicarsi alla sola ordinanza pronunciata dal presidente del tribunale nella prima fase del giudizio di separazione, che nella giurisprudenza si sono formati differenti orientamenti (puntualmente registrati e commentati dalla dottrina), nel cui contesto alle numerose pronunce di merito, che hanno affermato anch'esse (senza peraltro trarre da ciò dubbi di costituzionalità) l'esclusione dell'ammissibilità della reclamabilità dei provvedimenti emessi dal giudice istruttore nei processi de quibus, si contrappongono (oltre a talune posizioni, minoritarie, che ammettono la proponibilità del reclamo davanti alla Corte d'appello) altrettanto numerose decisioni di altri giudici di merito che sono pervenuti, seguendo la via interpretativa, alla medesima conclusione auspicata dal rimettente della reclamabilità di tali provvedimenti davanti al collegio mediante il rimedio del rito cautelare uniforme ai sensi dell'art. 669-terdecies cod. proc. civ. (ordinanza n. 310 del 2009);che, in definitiva, in assenza di un consolidato "diritto vivente", i dubbi di legittimità costituzionale così prospettati sembrerebbero piuttosto risolversi in un improprio tentativo di ottenere dalla Corte l'avallo della interpretazione della norma propugnata dai rimettenti, con uso evidentemente distorto dell'incidente di costituzionalità (ex plurimis, ordinanze n. 219 del 2010 e n. 150 del 2009).

In questa prospettiva, appare evidente che neppure la Corte Costituzionale ha individuato ostacoli interpretativi insormontabili all’applicazione del rito cautelare uniforme ai provvedimenti del g.i..

Va de plano che l’unico strumento di reclamo possibile è quello previsto dall’art. 669 terdecies c.p.c. e non certamente il reclamo alla Corte d’Appello previsto per i provvedimenti presidenziali.

Quest'ultima sembra la soluzione più corretta, perché la competenza del giudice di appello per le ordinanze presidenziali risponde a esigenze che non ricorrono nell’ipotesi di ordinanze del g.i., tant'è che proprio dalla competenza attribuita al giudice superiore si desume, a contrario, la reclamabilità delle ordinanze del g.i. x art. 669-terdecies c.p.c.

Da un lato, infatti, l'autorità, se non proprio la supremazia, di cui gode il Presidente, può creare imbarazzo in seno ad un Collegio della sezione del Tribunale da lui presieduta, ma, dall'altro, sul piano tecnico e operativo, l'art. 669-terdecies c.p.c. prevede che il reclamo sia deciso da un Collegio del Tribunale di cui non può far parte il giudice che ha emesso il provvedimento, ciò che, all'occorrenza, potrebbe anche essere impossibile ove il provvedimento reclamato fosse quello del Presidente del Tribunale stesso.

Di qui la competenza del giudice di appello, che non è indispensabile per i provvedimenti del (qualsivoglia, non autorevole) g.i., i quali ben possono essere reclamati innanzi il Collegio del Tribunale, senza la presenza del medesimo giudice.

Accertamento delle potenzialità economiche delle parti: la Polizia Tributaria

Già l’art. 5 comma 9° della legge divorzio stabilisce che “ in caso di contestazioni – sulle dichiarazioni dei redditi presentate o sulla documentazione prodotta afferente ai redditi e al patrimonio personale e comune- il Tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, valendosi se del caso anche della polizia tributaria”.

Lo strumento dell’accertamento tributario ha avuto – in relazione al numero di controversie – una limitata applicazione.

In primo luogo, la disposizione normativa prevede per effettuare indagini “anche” l’utilizzo della polizia tributaria “ se del caso”.

L’inciso e la congiunzione denotano la natura sussidiaria del mezzo istruttorio in esame che è utilizzato dal giudice solo dopo che lo stesso si sia avvalso degli strumenti ordinari, quali l’ordine di esibizione alla parte o al terzo ex art. 210 c.p.c., la richiesta di informazioni alla p.a. ex art. 213 c.p.c., la consulenza tecnica di cui all’art. 191 c.p.c..

Talvolta i giudici di merito hanno rigettato le istanze di indagini tramite la polizia tributaria, respingendo la domanda di riconoscimento dell’assegno divorzile, adducendo l’omessa dimostrazione da parte dell’istante degli assunti sui quali le richieste erano basate.

La Suprema Corte è intervenuta, tentando di correggere la tendenza dei giudici di merito ad un parco utilizzo di questo tipo di indagine, affermando:

l'art. 5, comma 9, della legge n. 898 del 1970 - il quale stabilisce che, in caso di contestazioni, il tribunale "dispone" indagini sui redditi e patrimoni delle parti, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria - ed il successivo art. 6, comma 9 - il quale dispone che i provvedimenti in materia di contributo per il mantenimento dei figli minori debbono essere emessi "dopo l'assunzione di mezzi di prova dedotti dalle parti o disposti d'ufficio dal giudice", introducendo il potere di disporre indagini ed assumere mezzi di prova d'ufficio, hanno operato una deroga alle regole generali sull'onere della prova, deroga comportante che le istanze delle parti relative al riconoscimento ed alla determinazione dell'assegno divorzile o del contributo di mantenimento non possono essere respinte sotto il profilo della mancata dimostrazione, da parte dell'istante, degli assunti sui quali le richieste sono basate. Dette norme, intese a sancire poteri istruttori d'ufficio per finalità di natura pubblicistica, stante l'identità della ratio, sono applicabili anche al procedimento di revisione delle disposizioni concernenti l'assegno di divorzio e il contributo di mantenimento dei figli minori, disciplinato dall'art. 9 della legge n. 898 del 1970( Cassazione civile, sez. I, 03/07/1996, n. 6087).

Ciò non significa che quello del giudice di disporre indagini tramite la polizia tributaria sia configurato come un obbligo, essendo rimesso al giudice il potere di valutare la rilevanza del messo istruttorio richiesto rispetto alla decisione.

Ne consegue che la “contestazione “ della parte è assolutamente necessaria perché possa essere azionato il potere del giudice di disporre indagini, essa non è comunque un elemento sufficiente per consentire l’esercizio del relativo potere di delega delle indagini.

Detta interpretazione trova conferma nelle pronunce della Corte di Cassazione la quale ha ribadito che: l'art. 5, comma 9, l. 1 dicembre 1970 n. 898 non impone al tribunale in via diretta ed automatica di disporre indagini avvalendosi della polizia tributaria ogni volta in cui sia contestato un reddito indicato e documentato, ma rimette allo stesso giudice la valutazione di detta esigenza, in forza del principio generale dettato dall'art. 187 c.p.c., che affida al giudice la facoltà di ammettere i mezzi di prova proposti dalle parti e di ordinare gli altri che può disporre d'ufficio, previa valutazione della loro rilevanza e concludenza( Cassazione civile, sez. I, 21/05/2002, n. 7435) ed ancora che:

l'esercizio di tale potere di disporre indagini patrimoniali con l'avvalimento della polizia tributaria, che costituisce una deroga alle regole generali sull'onere della prova, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, e non può essere considerato anche come un dovere imposto sulla base della semplice contestazione delle parti in ordine alle loro rispettive condizioni economiche; tale discrezionalità, tuttavia, incontra un limite nella circostanza che il giudice, potendosi avvalere di siffatto potere, non può rigettare le istanze delle parti relative al riconoscimento e alla determinazione dell'assegno sotto il profilo della mancata dimostrazione degli assunti sui quali si fondano, giacché in tal caso il giudice ha l'obbligo di disporre accertamenti d'ufficio (avvalendosi anche della polizia tributaria; cfr: Cassazione civile, sez. I, 17/05/2005, n. 10344).

Ciò premesso in ordine ai presupposti indefettibili per l’esercizio del potere di delega delle indagini tributarie previsto dall’art. 5 citato, occorre altresì chiarire quali debbono essere gli elementi distintivi degli stessi.

Non sono, difatti, idonee a fondare il dovere-potere del giudice di delegare le indagini alla polizia tributaria le contestazioni di una parte che siano formulate in modo generico, essendo, per contro, necessario che la parte che opera la contestazione offra al giudice anche “sufficienti elementi di ragionevolezza”( Cass. 1996/496) che il giudice stesso, nell’ambito del suo potere discrezionale, deve valutare ai fini dell’esercizio del potere istruttorio in parola.

La scarsa utilizzazione del potere di delega di indagini alla polizia tributaria si deve anche ad altre ragioni.

Inizialmente, una parte dei giudici di merito riteneva di escludere l’applicazione analogica dell’art. 5 della l. divorzile ai giudizi di separazione( Trib. Chieti 21.11.1996), benchè la Suprema Corte avesse affermato – con la sentenza n. 3168/1994, seguita poi dalle pronunce conformi nn. 6097/96 e 10344/2005 – l’applicabilità ai processi di separazione e di revisione delle condizioni della normativa che ci occupa.

Del pari, la tesi che sosteneva che l’esercizio di detto potere fosse riservato al tribunale in composizione collegiale ha contribuito ad un’applicazione modesta della normativa citata.

La tesi è stata superata sia dall’abrogazione delle norme processuali che rimettevano al Tribunale in composizione collegiale la decisione di taluni mezzi istruttori sia dall’entrata in vigore della l. 2001/154 che consente al giudice monocratico di disporre le indagini.

Invero, già in precedenza, la Corte Costituzionale ( sentenza n. 278/1994) aveva riconosciuto al g.i. il potere di ordinare ai terzi diretti del coniuge obbligato al mantenimento il pagamento diretto e di sottoporre a sequestro i beni del coniuge obbligato, donde la limitazione dei poteri istruttori del giudice monocratico non aveva alcun fondamento.

Con l’intervento legislativo n. 54 del 2006, è stato modificato il disposto dell’art. 155 del c.c., prevedendo che “ove le informazioni fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione anche se intestati a soggetti diversi, norma che trova applicazione, in forza dell’art. 4 della legge citata, anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non congiunti.

Il disposto dell’art. 155 c.c., come novellato, va coordinato con l’art. 5 della l Divorzio.

Ad avviso di chi scrive, l’art. 155 riguarda esclusivamente i provvedimenti relativi ai figli, cosicchè l’art.5 citato continua a trovare applicazione limitatamente all’assegno richiesto dal coniuge debole.

Con la novella dell’art. 155 c.c., l’art. 5 non troverebbe più applicazione per gli accertamenti della misura del contributo ai figli, in quanto il nuovo art. 155 c.c. è norma speciale e successiva alla l. divorzio.

La nuova disposizione del codice civile sebbene non preveda espressamente “la contestazione” della parte, esige – quale presupposto per disporre le indagini tramite polizia tributaria – una insufficienza della documentazione prodotta rispetto alle informazioni fornite dagli stessi genitori.

Inoltre, l’ultimo comma dell’art. 155 prevede che l’accertamento della polizia tributaria si svolga sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, il che sembra indurre a ritenere che l’esercizio del potere discrezionale del giudice presupponga comunque la preventiva contestazione dei redditi del genitore onerato.

In altri termini, il potere officioso del giudice deve essere coordinato con le allegazioni delle parti processuali.

Infine, sebbene detta norma non contempla più “l’eccezionalità” dell’esercizio del potere ( prevista dall’art. 5 l. divorzio), essa appare conseguenza del principio della disponibilità delle prove di cui all’art. 115 c.p.c. che, coordinato con le disposizioni codicistiche successive, configura come eccezionale il ricorso all’esercizio dei poteri officiosi e obbliga il giudice a “graduare” la propria ingerenza nella sfera privata delle parti.

OGGETTO DELLE INDAGINI

L’art. 5 comma 9° della L. Divorzio prevede le indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita … valendosi della polizia tributaria, mentre l’art. 155 c.c. prevede un accertamento tramite polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi.

In considerazione delle caratteristiche delle indagini tramite Polizia giudiziaria, la giurisprudenza ha ipotizzato che i compiti affidabili alla polizia potevano consistere nell’acquisizione e comunicazione di dati ed informazioni ovvero nella valutazione della prova.

La circostanza che la polizia giudiziaria abbia la possibilità di accedere agevolmente ai sistemi informativi- Anagrafe tributaria, camere di commercio, PRA, Conservatoria etc - permette la rapida acquisizione dei dati necessari per consentire al giudice di ritenere o meno attendibili le dichiarazioni fiscali delle parti.

La polizia giudiziaria può altresì acquisire ulteriori dati indicativi del tenore di vita della parte: può infatti accertare l’iscrizione a circoli esclusivi, la frequenza di ristoranti e di viaggi, la disponibilità di cavalli e di collaboratori domestici etc.

In particolare può procedere anche ad indagini bancarie sui conti correnti noti o su posizioni occulte.

Sotto il secondo aspetto, la polizia giudiziaria può svolgere una funzione del tutto simile a quella dell’ausiliario, che secondo taluni tribunali ( Trib. Firenze 12.10.2007 ) potrebbe pervenire anche alla formulazione di proiezioni sui redditi in base a taluni indicatori.

La polizia giudiziaria, in realtà, può solo acquisire attraverso le indagini i dati – denominati indicatori - sui quali poi il giudice dovrà esprimersi determinando l’ammontare congruo e giusto dell’assegno.

Sebbene, la disposizione novellata( art. 155 c.c.) non preveda accertamenti sul tenore di vita mantenuto, non può escludersi che il giudice accerti la rispondenza delle dichiarazioni fiscali all’effettivo tenore di vita delle parti, poichè sarebbe irrazionale prevedere attività di indagine più pregnanti per la quantificazione dell’assegno al coniuge debole e non anche per quello in favore dei figli.

ATTIVITA’ DELLA POLIZIA TRIBUTARIA

Prima dell’entrata in vigore della legge 2006/54 era pacifico che il giudice della separazione o del divorzio non potesse disporre una verifica fiscale in senso proprio,

in quanto questa è un’attività preparatoria che mira all’emissione di un provvedimento di avviso.

La verifica ( amministrativa e non giurisdizionale), in altri termini, ha natura, finalità ed esiti diversi da quelle delle indagini di polizia tributaria di cui al citato art. 5.

Da un punto di vista strettamente tecnico, l’accertamento tributario – termine utilizzato dal prefato art. 5 - costituisce un controllo di carattere sostanziale e di merito diretto alla rettifica del reddito complessivo del contribuente.

L’accertamento tributario di cui all’art. 155 c.c. mira alla determinazione delle potenzialità economiche dei coniugi mediante un’analisi delle loro sostanze che appaiono meno visibili al Giudice.

Inoltre, mentre l’accertamento in parola può riguardare beni e redditi, quello fiscale attiene esclusivamente ai redditi.

Difformi, infine, le modalità e le regole procedimentali atteso che l’accertamento condotto dal Fisco si basa su presunzioni ( es: studi di settore), ben diverse dalle presunzioni del codice civile.

In definitiva, al giudice è attribuito il medesimo potere che gli artt. 33 e ss. del DPR 703/1973 attribuiscono alla Guardia di Finanza e agli uffici finanziari.

ACCERTAMENTI PRESSO TERZI

Ho accennato in precedenza all’accertamento che la polizia tributaria può effettuare presso i terzi.

I problemi maggiori derivano dalla compatibilità del novellato art. 155 c.c. con le norme che disciplinano la privicy e nell’ambito delle intestazioni fiduciarie.

Con riguardo alle intestazioni fiduciarie, queste ultime determinano un divario tra soggetto al quale il bene sostanzialmente appartiene e la diversa apparenza esterna circa la titolarità del medesimo ( Pezzuto: Le indagini reddituali e patrimoniali della polizia tributaria).

La principale difficoltà dell’accertamento tributario presso le società fiduciarie è il segreto che copre le relazioni col fiduciante.

In realtà la normativa non prevede espressamente il segreto fiduciario, il quale è tuttavia inferibile dalle disposizioni che regolano l’accesso alle informazioni detenute dalle società fiduciarie, atteso che alcune norme prevedono la deroga al segreto.

Invero, già il Consiglio di Stato aveva, con parere 2005 /2345, escluso la possibilità di opporre il segreto agli uffici fiscali, poi con l’intervento legislativo 311/2004 che ha modificato il DPR 600/1973, i poteri di indagine nei confronti delle società fiduciarie comprendono la possibilità di richiedere alle società fiduciarie atti, notizie, documenti relativi ai rapporti intrattenuti od operazione effettuata, ivi compresi i servizi prestati.

La normativa prevede una serie di cautele per l’esercizio di detto potere di indagine ( autorizzazione del Direttore centrale del’Agenzia delle entrate, termine per l’adempimento etc) e, soprattutto, consente alla polizia tributaria di risalire dall’oggetto intestato al soggetto accertato derogando al “segreto fiduciario” a condizione che l’oggetto della indagine sia esattamente indicato con specifica indicazione del bene intestato fiduciariamente e del periodo temporale di interesse per l’indagine.

Dunque, il segreto fiduciario cede di fronte ad interessi pubblicistici dell’accertamento tributario.

Ciò è desumibile dal fatto che la novella dell’art. 155 c.c. è norma successiva e speciale rispetto alle disposizioni in materia di segreto fiduciario che finiscono, dunque, col “cedere” in presenza della esigenza di tutela di interessi prevalenti.

Sotto altro profilo, si pone il problema della compatibilità tra le esigenze pubblicistiche ora menzionate e la tutela della riservatezza del terzo indagato.

La normativa contenuta nel Codice della privacy non è finalizzata ad assicurare l'assoluta intangibilità delle sfere private individuali, bensì a contemperare le diverse (e contrapposte) esigenze dell'operatore del mercato dell'informazione( utilizzazione etc) e del soggetto al quale le informazioni si riferiscono, con ciò prendendo atto che la sfera privata individuale può essere tutelata, in certi ambiti, unicamente tenendo conto che il soggetto è necessariamente coinvolto in una serie di relazioni sociali, commerciali, giuridiche, etc.

Se è consentito l’ accesso agli atti amministrativi contenenti dati sensibili, in ordine ai quali è demandata alla p. a. di valutare se l’accesso sia strettamente indispensabile alla tutela di altre situazioni giuridiche soggettive di vantaggio ovvero nel caso di dati super sensibili - ossia quello di atti contenenti dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale - la p. a. deve, invece, verificare se e come l'accesso sia funzionale alla tutela di un diritto della personalità o ad un altro diritto fondamentale ed inviolabile, deve ritenersi configurabile una compressione del diritto alla riservatezza del terzo rispetto ad interessi preminenti.

Del resto, limiti alla tutela della riservatezza sono previsti dagli artt. 118 c.p.c. in materia di ispezione, 211 c.p.c. in materia di esibizione dei documenti, laddove addirittura il terzo può intervenire nel processo al fine di ottenere la revoca dell’ordine di esibizione.

Milena Balsamo