20/05/11 Pisa

Organizzato dalla Sezione di Pisa dell'Osservatorio sul diritto di famiglia, con l'intervento dei Magistrati del Tribunali di Pisa maggiormente impegnati nella materia, si è tenuto a Pisa il 20 maggio 2011 un convegno sul contributo di mantenimento e sull'assegno divorzile. Si pubblicano il programma e le relazioni.

Relazione della Dr Milena Balsamo by Milena Balsamo
Relazione del Dr. Salvatore Lagana by Salvatore Lagana
Relazione del Dr. Salvatore Lagana' by Salvatore Lagana\'
Relazione della Dr Maria Sanmarco by Maria Sanmarco
Il programma by Osservatorio Pisa

Relazione del Dr. Salvatore Lagana

I PROVVEDIMENTI PRESIDENZIALI IN MATERIA DI ASSEGNO DI MANTENIMENTO AI FIGLI

di

Salvatore Laganà

Presidente del Tribunale di Pisa

1. L’assegno di mantenimento dei figli in regime di affido condiviso.

I criteri di determinazione dell’assegno di mantenimento da parte del genitore ai figli minorenni dovrebbero aver subito un radicale mutamento a seguito della modifica dell’art. 155 cod. civ. , sostituito dall’art. 1 L. 8 febbraio 2006 n. 54.

Il condizionale è d’obbligo, in quanto il criterio del mantenimento diretto dei figli da parte di ciascuno dei genitori in misura proporzionale al proprio reddito, che doveva costituire la regola generale secondo la previsione legislativa, come si evince dall’utilizzo della locuzione “ove necessario” , che introduce il ricorso al criterio subordinato dell’assegno perequativo, è stato in realtà scarsamente applicato, sia negli accordi tra i coniugi a seguito di separazione consensuale (con impossibilità per il Tribunale in sede di omologa di contestare il contenuto di tali accordi, stante la previsione del quarto comma dell’art. 155 cod. civ. “salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti” che postula una libera deroga al criterio del mantenimento diretto), sia nei provvedimenti temporanei ed urgenti emessi dal Presidente del Tribunale ai sensi dell’art. 708 c.p.c., in esito alla comparizione personale dei coniugi.

In effetti le ragioni di tale scarsa applicazione possono rinvenirsi nel fatto che tale criterio presuppone l’assenza dei criteri di perequazione successivamente elencati dal legislatore e richiede, quindi, quantomeno risorse economiche paritarie, tempi di permanenza presso ciascun genitore pressoché equivalenti, valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore in sostanza uguali.

In genere appare particolarmente difficile che tutti e tre tali parametri pesino ugualmente sulla bilancia delle circostanze che il giudice deve valutare ai fini di stabilire il contributo di mantenimento per i figli, inducendolo molto più spesso a ricorrere all’assegno perequativo al fine di realizzare il principio di proporzionalità.

Allora bisogna chiedersi se veramente il mantenimento diretto costituisce la regola generale e l’assegno perequativo l’eccezione.

La verità è molto banale: quando si fissa una regola e, nel contempo,si prevedono una serie di eccezioni che finiscono per coincidere con l’id quod plerumque accidit, le eccezioni, quantomeno sulla base di un solo calcolo statistico, finiscono per diventare la regola, che diviene, a sua volta, un’eccezione per l’impossibilità di applicarla nella maggior parte dei casi concreti.

Questa è anche la posizione della giurisprudenza di legittimità, che con la recentissima sentenza della sez. I, 4 novembre 2010 n. 22502, ha ribadito il principio secondo il quale ciascun genitore deve provvedere alla soddisfazione dei bisogni dei figli in misura proporzionale al suo reddito, precisando che, in applicazione di questa regola “il giudice deve disporre, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico che, in caso di collocamento prevalente presso un genitore, va posto a carico del genitore non collocatario, prevedendone lo stesso art. 155 la determinazione in relazione ai tempi di permanenza del figlio presso ciascun genitore” (cfr., anche, Cass. 4 novembre 2009, n. 23411, Cass. 6 novembre 2009, n. 23630).

Tale decisione è stata criticata in quanto “gattopardesca”, cioè applicativa del principio “cambiare tutto perché nulla cambi” e direttamente derivata dall’istituto di creazione giurisprudenziale della “collocazione prevalente”, che avrebbe finito per svuotare di significato il principio dell’affidamento condiviso per riportarlo, al di là delle scelte puramente nominalistiche adottate dai singoli giudici, nell’alveo dell’affidamento esclusivo.

In realtà la sentenza criticata, come emerge da una sua attenta lettura, non si è adagiata sull’affermazione che la collocazione prevalente presuppone necessariamente la corresponsione di un assegno perequativo, ma ha fondato la sua decisione sulla circostanza che da parte del ricorrente nulla fosse stato allegato in ordine a consistenti periodi di permanenza continuativa della minore presso di sé, con ciò presupponendo che la collocazione prevalente fosse anche indicativa di un maggior tempo di permanenza della minore presso il genitore collocatario. La corte di legittimità ha fatto, quindi, buon uso della regola di cui ai numeri 3) e 5) del comma 4° dell’art. 155, che appunto prevedono che l’assegno perequativo vada determinato tenuto conto dei tempi di permanenza presso ciascun genitore e della valenza dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore. Nulla vieta che, qualora vi sia questa equivalenza, nonostante la formale domiciliazione (sarebbe preferibile così appellarla, piuttosto che collocazione) del minore presso un genitore, possa farsi luogo al principio del mantenimento diretto (e posso citare qualche caso in cui in sede di provvedimenti presidenziali da parte del Tribunale di Pisa è stato fatto uso di questo principio) o che l’assegno perequativo possa essere proporzionalmente ridotto in funzione dei tempi di permanenza del minore presso il genitore non formalmente domiciliatario.

Ritengo, poi, che sia solo un pregiudizio quello secondo il quale l’assegno di mantenimento indiretto costituisca nella maggioranza dei casi una sorta di “rendita di posizione” del coniuge domiciliatario; nella maggior parte dei casi, di redditi marginali e che si impoveriscono con l’aumento delle spese conseguenti alla separazione, l’assegno perequativo non arriva neppure a coprire le spese che il coniuge domiciliatario affronta per il mantenimento del minore. Certo vi sono altri casi, sicuramente minoritari e riguardanti coniugi separati o divorziati appartenenti a fasce di reddito medio – alte, in cui il rischio paventato potrebbe realizzarsi, in cui un elevato contributo perequativo potrebbe solo in parte essere destinato ai bisogni del minore. Vi sono certamente dei correttivi, uno dei quali è rappresentato dal controllo che il genitore non collocatario può sempre effettuare sulle spese concretamente effettuate in favore del figlio (con richiesta di riduzione dell’assegno qualora possa provare che parte dell’importo dello stesso sia stato impiegato per scopi diversi) e l’altro dall’ampliamento della platea delle spese da rimborsare dietro rendiconto o accordo, non limitate soltanto a quelle classiche di natura straordinaria (mediche, scolastiche, ricreative, sportive, etc.). Appare anche funzionale ad evitare tali possibili distorsioni dell’assegno perequativo la previsione di spese per categorie specifiche da porre a carico del genitore non collocatario (ad esempio pagamento di rette universitarie, vacanze studio, finanche spese di abbigliamento, etc.), sempre che tale previsione rispetti i principi di proporzionalità previsti dalla legge e sia conforme agli altri principi previsti nell’art. 155 cod. civ. (esigenze del figlio, tenore di vita goduto in costanza di convivenza con entrambi i genitori).

2. La natura dell’assegno di mantenimento

Il concetto di “mantenimento” del figlio, di cui al comma 4° dell’art. 155 cod. civ. va indubbiamente sostanziato con le previsioni specifiche dello stesso art. 155, che prevede che il minore ha diritto di ricevere cura, educazione, istruzione da entrambi i genitori e che, nella determinazione dell’assegno perequativo, fa riferimento alle “attuali esigenze del figlio” nonché al “tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori”.

La Corte di Cassazione ha avuto più volte modo di precisare la caratteristiche dell’assegno di mantenimento. Particolare rilievo assume la sentenza della sez. I del 21 marzo/3 agosto 2007 n. 17043, che, in una situazione di redditi particolarmente elevati delle parti, ha ribadito come il dovere di mantenere, istruire ed educare la prole impone ai genitori, anche in caso di separazione o di divorzio, di far fronte ad una molteplicità di esigenze dei figli, certamente non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma inevitabilmente estese all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale, all’assistenza morale e materiale, all’opportuna predisposizione, fin quando la loro età lo richieda, di una stabile organizzazione domestica, adeguata a rispondere a tutte le loro necessità.

Nella normalità dei casi l’assegno perequativo disposto, tenuto conto dei criteri di determinazione dei quali si parlerà subito dopo, è appena sufficiente a far fronte a tali molteplicità di esigenze ed in più casi consente soltanto di salvaguardare quelle, tra le esigenze segnalate, che hanno carattere primario ed indifferibile, ma è da chiedersi, in un caso come quello della sentenza in precedenza menzionata (in cui il reddito del padre superava il milione di euro l’anno) o in altri casi oggetto anche recentemente di valutazione presidenziale davanti al Tribunale di Pisa, possono le esigenze del figlio ed il tenore di vita in precedenza goduto costituire un limite al contrario, nel senso che, pur in presenza di redditi molto elevati, non è consentito superare tali due parametri?

La Cassazione che si è pronunciata in merito (cfr. Cass. Civ., sez. I, 19 maggio 2009 n. 11534) ha precisato che in tema di assegno di mantenimento da corrispondere ai figli minori, il giudice del merito non può disporre la riduzione, pur trattandosi di una somma cospicua, sul rilievo che un assegno elevato potrebbe risultare diseducativo; “tale motivazione - ha aggiunto la Corte – seppur non illogica, non è aderente al dettato normativo che impone di determinare la contribuzione considerando le esigenze della prole in rapporto al tenore di vita goduto in costanza di convivenza con entrambi i genitori e le risorse ed i redditi di costoro”.

In realtà la sentenza citata non esclude che, una volta soddisfatti i criteri delle esigenze del minore e dell’assicurazione allo stesso di un tenore di vita equivalente a quello goduto in costanza della convivenza con i genitori, le risorse economiche usufruite dal genitore tenuto al contributo perequativo assumano un minor rilievo, a differenza di quanto previsto per il contributo di mantenimento al coniuge in cui è possibile ravvisare un più rigido rapporto di interdipendenza tra reddito e mantenimento.

In altre parole, una volta salvaguardate le due esigenze in precedenza menzionate, anche un reddito particolarmente elevato di uno dei genitori non costituisce fattore di crescita esponenziale del contributo di mantenimento, che non può essere elevato oltre le necessità di assicurare le esigenze del figlio ed il suo precedente tenore di vita.

Il concetto di “esigenza”, seppur strettamente correlato a quello di “tenore di vita”, non va confuso con quello di arbitraria volontà di ottenere la soddisfazione dei propri desideri, bensì con quello di necessità di aver tutelati i propri interessi, per cui, in presenza di un reddito particolarmente elevato dei genitori, buon ben costituire “esigenza” l’interesse a frequentare una scuola di alta formazione o un master qualificato, ma non certo l’ aspirazione ad aver soddisfatto ogni capriccio o la voglia di ottenere dal facoltoso genitore il possesso di alcuno oggetti di status symbol (autovetture lussuose, frequentazione di locali alla moda, etc.), non certamente tutelate dall’ordinamento ed anche legittimamente negabili dal genitore in costanza di convivenza matrimoniale, nell’ottica di un progetto educativo del tutto condivisibile.

3. I criteri di determinazione dell’assegno di mantenimento.

Certamente, ad eccezione delle ipotesi – limite in precedenza citate, in cui le risorse economiche del genitore sono addirittura superiori alla necessità di salvaguardare le esigenze del figlio ed il tenore di vita in precedenza goduto, nella normalità dei casi le risorse economiche godute dai genitori rappresentano il principale criterio di valutazione, alle quali si aggiungono, come criteri correttivi ed in qualche modo di calmierizzazione, i tempi di permanenza presso ciascun genitore e la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.

Se il criterio dei tempi di permanenza appare più agevolmente quantificabile, trattandosi di suddividere per i genitori i tempi prefissati di frequentazione (un poco più difficile, invece, quando non ci siano tempi predeterminati e ci si affidi alla volontà di ciascun genitore ed a quella del minore rapportata ai suoi impegni ricreativi, scolastici, sportivi, etc.), appare di più difficile determinazione il secondo criterio, che tenta di conferire un equivalente economico a quelle attività domestiche e di cura che normalmente vengono assolte dal genitore presso cui viene collocato il minore ma che potrebbero anche essere svolte dal genitore non domiciliatario impegnato, per esempio, a seguire il minore in tutte le attività di studio.

E’, in qualche modo, un criterio premiale, che intende conferire un valore aggiunto ad un’attività specialmente dedicata in favore dei figli, che comporta un diretto sacrificio, anche in termini di rinuncia ad altre potenzialità economiche, ed un oggettivo risparmio se un genitore pone in essere un’attività che potrebbe essere, in maniera onerosa, demandata ad altri (baby sitter, insegnanti addetti alla ripetizione di lezioni, strutture di assistenza e ricreative) ed è giusto che se ne avvantaggi, sia nelle forme dell’aumento dell’assegno perequativo che in quelle della sua diminuzione, il genitore che effettivamente si impegna in tali attività.

Quanto al criterio della proporzionalità dei redditi di entrambi i coniugi, è da ritenere, in linea con la giurisprudenza in materia, che non ci si possa limitare ad una rigida comparazione della situazione patrimoniale di ciascun coniuge. E’ stato ritenuto, in particolare, che il successivo arricchimento professionale della madre affidataria non comporta una proporzionale diminuzione del contributo posto a carico dell’altro genitore, tenuto conto che un simile accadimento garantisce al minore un miglior soddisfacimento delle sue esigenze vitali (cfr. Cass., sez. I, 19 dicembre 2006/24 gennaio 2007 n. 1607). E’ stato ritenuto, ancora, che, nel fissare il contributo che ogni genitore è tenuto a versare, per determinare l’importo dell’assegno di mantenimento, non rilevano soltanto le sostanze a disposizione dei due genitori; il giudice del merito, infatti, deve valorizzare anche le le potenzialità reddituali che sono state accertate in capo a ciascuno dei coniugi, tenuto conto delle rispettive capacità di lavoro, professionale o casalingo (cfr. Cass., sez. I, 15 maggio 2009, n. 11291).

Anche con riferimento al criterio delle risorse economiche in sé vanno certamente ravvisati dei correttivi, al fine di ristabilire il criterio di proporzionalità.

Anzitutto vanno considerati gli oneri gravanti sul coniuge astrattamente onerato del versamento del contributo perequativo. Rientrano tra questi certamente gli oneri derivanti da obbligazioni contratte nell’interesse della famiglia: pagamenti di ratei di mutuo, di finanziamenti stipulati per far fronte ad esigenze ordinarie o straordinarie familiari. Vanno considerati, altresì, gli oneri derivanti dalle esigenze di una diversa sistemazione abitativa, sempre che quella prescelta sia proporzionale al proprio reddito e necessitata (non potrebbe trovare tutela, per esempio, la scelta di una soluzione eccessivamente onerosa rispetto alle risorse economiche godute e penalizzante per il mantenimento dei figli minori), e quelli conseguenti ad una diversa situazione familiare. In quest’ottica, per esempio, è stato ritenuto che il giudice non può trascurare di considerare, nel valutare la capacità patrimoniale del genitore, anche gli obblighi di natura economica che incombono per legge sul medesimo genitore per il mantenimento di altro figlio, nato fuori dal matrimonio (cfr. Cass. sez. I, 16 maggio 2005 n. 10197).

Un’identica tutela – specie a fronte di situazioni reddituali marginali – non potrebbero ricevere oneri che si presentino come sub valenti rispetto all’obbligo primario di mantenimento del figlio, come, ad esempio, quello che capita spesso nella pratica di un’esposizione debitoria per il pagamento delle rate di un’autovettura o, ancor peggio, per debiti contratti per la soddisfazione di esigenze voluttuarie, del tutto svincolate dagli interessi familiari.

Problema diverso è quello che riguarda l’incidenza del godimento della casa familiare che, ai sensi dell’art. 155 quater cod. civ. deve essere attribuita tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli. La stessa norma prevede che dell’assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori e, in applicazione di tale principio, è stato ritenuto che il godimento della casa familiare costituisce un valore economico – corrispondente, di regola, al canone ricavabile dalla locazione dell’immobile – del quale il giudice deve tener conto ai fini della determinazione dell’assegno dovuto all’altro coniuge per il suo mantenimento o per quello dei figli (cfr. Cass., sez. I, 24 febbraio 2006, n. 4203, sez. Un. n. 11297/1995). Naturalmente l’incidenza di tale godimento rileva anche nel caso contrario, nell’ipotesi in cui la casa coniugale (per esempio per rinuncia del coniuge che ne avrebbe avuto diritto) sia stata assegnata al coniuge non collocatario dei figli, con effetti, naturalmente, in astratto del tutto opposti, sia avuto riguardo al valore aggiunto sul reddito derivante da tale assegnazione che con riferimento alle maggiori spese gravanti sul coniuge non assegnatario. Tutto ciò presuppone naturalmente che trattasi di casa di proprietà comune o esclusiva o, comunque, in godimento gratuito al coniuge assegnatario, in quanto se sull’abitazione coniugale gravano oneri, come il pagamento di una canone di locazione, l’incidenza del godimento non assumerà alcun rilievo o un rilievo limitato nel caso in cui trattasi di canone sociale, come quello relativo al godimento di una casa di edilizia popolare.

Del pari, non assumerà alcun rilievo ai fini della valutazione dell’esistenza e della consistenza del contributo di mantenimento in favore del figlio minore l’eventuale prestazione di assistenza di tipo coniugale del convivente more uxorio del coniuge collocatario, che potrà incidere solo sullo stato di bisogno del coniuge, al fine di escluderlo o di ridurlo, ma mai sull’obbligo del genitore in favore del figlio, che non potrà mai giovarsi di eventuali condizioni di favore esistenti nei rapporti tra il collocatario ed il convivente medesimo (cfr. Cass., sez. I, 21 marzo/3 agosto 2007 n. 17043, cit.).

Quanto al tenore di vita goduto dal minore prima della separazione tra i genitori, lo stesso non rappresenta un valore assoluto ma deve sempre essere corrispondente alle attuali risorse della famiglia, assumendo una funzione parametrica e non di rigida comparazione (cfr., a tale proposito, Cass., sez. I, 22 marzo 2005 n. 6197).

In altre parole, se il reddito del genitore che, in costanza di matrimonio, assicurava un determinato tenore di vita al figlio, è successivamente diminuito di una determinata percentuale, il contributo per salvaguardare il precedente tenore di vita va corrispondentemente ridotto, sempre che il reddito, per le sue caratteristiche di particolare elevatezza, non sia tale da consentire, comunque, anche a prescindere dal suo decremento, di garantire il precedente assetto.

E’ ben possibile, infine, che l’obbligo di mantenimento dei figli minori possa essere legittimamente adempiuto dai genitori attraverso un accordo che, in sede di separazione personale o di divorzio, attribuisca direttamente – o impegni il promittente ad attribuire – la proprietà di beni mobili o immobili ai figli, senza che tale accordo “integri gli estremi della liberalità donativa, ma assolvendo esso, di converso, ad una funzione solutorio – compensativa dell’obbligo di mantenimento. Esso comporta l’immediata e definitiva acquisizione al patrimonio dei figli della proprietà dei beni che i genitori abbiano loro attribuito o si siano impegnati ad attribuire…” (cfr. Cass., sez. II, 21 febbraio 2006 n. 3747). Naturalmente un tale accordo può rientrare nella previsione del primo periodo del 4° comma dell’art. 155 cod. civ., ma non potrebbe mai essere oggetto di un provvedimento giudiziario che prevede che l’obbligo possa essere assolto solo mediante la corresponsione di un assegno periodico di mantenimento.

4. Profili processuali dell’assegno di mantenimento con riguardo alla fase presidenziale

A differenza dei provvedimenti in materia di mantenimento del coniuge, nell’ambito dell’assegno di mantenimento ai figli minori, sia nella separazione che nel divorzio, non solo, come si dirà in seguito, vi è una deroga ai principi generali sull’onere della prova, ma il giudice ha anche il potere di adottare, di ufficio in mancanza di domanda o in difformità della domanda e persino degli accordi in merito intervenuti tra i genitori, i provvedimenti più opportuni per il mantenimento del minore. “Siffatta adozione, segnatamente per quanto attiene alla determinazione del contributo cui il genitore non affidatario è tenuto in caso di divorzio o di separazione, non è governata dal principio della domanda, la necessità della quale non ricorre attese le preminenti finalità pubblicistiche relative alla tutela e alla cura dei minori stessi” (cfr. 21 marzo/3 agosto 2007 n. 17043, cit., nonché Cass. 4 maggio 2000 n. 5586; Cass. 22 novembre 2000 n. 15065; Cass. 24 febbraio 2006 n. 4205).

Ciò significa soprattutto, essendo molto raro il caso in cui non venga avanzata alcuna domanda nell’interesse dei figli, che il giudice, sin dalla fase dell’emissione dei provvedimenti urgenti presidenziali, dovrà prestare particolare attenzione agli accordi intervenuti tra i genitori previsti dai commi 2° e 4° dell’art. 155 cod. civ., che non potranno semplicemente essere ratificati e trasfusi nel provvedimento presidenziale, ma dovranno passare il vaglio di un rigoroso esame nell’interesse del minore, come, del resto, è previsto dallo stesso comma 2° della norma citata, che stabilisce che il giudice “prende atto” di tali accordi “se non contrari all’interesse dei figli”.

Per effettuare un simile esame, il giudice deve avere gli strumenti per farlo. E soccorre, in primo luogo, la giurisprudenza, pur recente, formatasi sull’originario testo dell’art. 155, comma 7°, cod. civ., applicabile anche testo novellato, secondo la quale tale norma nonché l’art. 6, comma 9°, L. n. 898/1970, operano “una deroga alle regole generali sull’onere della prova, attribuendo al giudice poteri istruttori di ufficio per finalità di natura pubblicistica, con la conseguenza che le domande delle parti non possono essere respinte sotto il profilo della mancata dimostrazione degli assunti sui quali si fondano e che i provvedimenti da emettere devono essere ancorati ad un’adeguata verifica delle condizioni patrimoniali dei genitori e delle esigenze di vita dei figli esperibili anche di ufficio” (cfr.Cass., sez. I, 12 dicembre 2005 n. 27391).

Il nuovo testo dell’art. 155 cod. civ. prevede, infatti, all’ultimo comma, che, ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi.

La norma è rafforzata, in sede di emanazione dei provvedimenti presidenziali, dalla previsione di cui al 1° comma dell’art. 155 sexies cod. civ., che consente al giudice, prima dell’emanazione, anche in via provvisoria, dei provvedimenti di cui all’art. 155, di assumere, su istanza di parte o di ufficio, “mezzi di prova”.

Se, pertanto, l’ultimo comma dell’art. 155 delinea uno strumento di accertamento tipico, costituito da ricorso alle verifiche della polizia tributaria, ancorandolo ad informazioni delle parti non sufficientemente documentate, l’art. 155 sexies sembra ampliare la gamma dei poteri officiosi di accertamento del giudice, neppure subordinati ad un’inerzia totale o parziale delle parti, ma legati esclusivamente all’esigenza di decidere, anche in via provvisoria, sulla base di elementi il più completi possibile.

Un’interpretazione molto ampia di tale norma ha condotto, come è noto, in alcuni Tribunali ad introdurre, sin dalla fase presidenziale, lo strumento della consulenza tecnica contabile, con notevole appesantimento di tale fase sia nei tempi che nei costi. Personalmente ritengo che il ricorso allo strumento dei mezzi di prova integrativi, senz’altro utilissimo quando le parti non hanno fornito sufficienti elementi per una decisione anche provvisoria, debba necessariamente coniugarsi con la natura della fase presidenziale, che è sempre una fase a sommaria cognitio, caratterizzata dalla provvisorietà dei provvedimenti emessi e dalla urgenza, che spesso è così pressante che poco tollera approfondimenti lunghi e complessi.

Pertanto, fermo restando che la consulenza contabile potrebbe essere riservata alla fase del merito, rimanendo in quella presidenziale relegata a situazioni limite, nell’ipotesi di patrimoni particolarmente importanti o di situazioni reddituali che, per loro natura, non possono essere accertati attraverso l’ordinario strumento della verifica attraverso la polizia tributaria, ritengo che tale ultimo strumento, anche per la precisa indicazione del legislatore, rimanga quello da utilizzare ordinariamente in tutti i casi di insufficienti informazioni delle parti, e che, nell’ipotesi in cui, nonostante tali accertamenti, emerga un divario tra quanto formalmente accertato ed altri elementi di fatto dedotti dalle parti o risultanti dagli atti, possano essere usati più agili strumenti di accertamento, come la richiesta alle banche di copia di estratti di conti correnti o del rendiconto di altre operazioni bancarie, l’acquisizione di informazioni su attività di fatto esercitate da uno dei genitori, anche a mezzo di prestanome, l’acquisizione di documentazione presso l’Agenzia delle Entrate, etc.

5. L’assegno di mantenimento in favore dei figli maggiorenni.

L’art. 155 quinquies ha introdotto specificamente la possibilità del giudice, valutate le circostanze, di disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente un assegno periodo, da versare direttamente all’avente diritto, salvo diversa determinazione del giudice.

Se è vero che la Corte di Cassazione ha fatto specifico riferimento, anche con una sentenza successiva alla riforma del 2006, al “carattere sostanzialmente alimentare dell’assegno di mantenimento” (cfr. Cass., sez. I, 10 dicembre 2008 n. 28987), non sembra che i criteri per la determinazione dell’assegno siano alla fine sostanzialmente diversi da quelli già illustrati con riferimento ai minori, soprattutto avuto riguardo alle esigenze del figlio ed al tenore di vita precedentemente goduto in costanza di convivenza con entrambi i genitori, e che la definizione della S.C. trovi giustificazione nella contestuale affermazione dell’applicazione dei principi di irreperibilità, impignorabilità e non compensabilità di dette prestazioni.

Ciò che muta profondamente sono, invece, i presupposti per il diritto di mantenimento del figlio maggiorenne e la prova di detti presupposti.

E’ stato ribadito, infatti, che “fatto costitutivo del diritto del figlio al mantenimento da parte dei genitori non è tuttavia il solo rapporto di filiazione, ma anche la mancata indipendenza economica” (cfr. Cass. n. 16612 del 2010). Da ciò deriva che “ La mancanza di indipendenza economica, benché possa di regola presumersi, con la conseguenza che incomba sul genitore l’obbligo di provare l’autonomia economica del figlio, non è dunque una fattispecie impeditiva del diritto del figlio al mantenimento, ma è elemento della fattispecie costitutiva di tale diritto. Deve essere pertanto allegata da chi postuli il diritto al mantenimento. E se questa allegazione può essere ritenuta implicita nella domanda del figlio minorenne, deve invece essere esplicitata nella domanda del figlio maggiorenne. Ne consegue che, quando agisce per il riconoscimento del diritto al mantenimento, il figlio maggiorenne deve allegare una condizione legittimante, cui riferire l’onere del genitore di provarne l’inesistenza”.

La prova, poi, non può che ispirarsi al principio di relatività, anche al fine di verificare se il mancato svolgimento di un’attività economica da parte del figlio dipenda da un atteggiamento di inerzia o da un rifiuto ingiustificato o sia invece ancorato alle aspirazioni di un percorso scolastico, universitario o post universitario, del soggetto legittimato o ad un’attuale situazione del mercato del lavoro, con specifico riguardo al settore in cui il soggetto abbia indirizzato la propria formazione e la propria specializzazione (cfr. , fra le tante, Cass. sez. I, 24 novembre 2004 n. 22214; Cass., sez. I, 11 luglio 2006 n. 15756).

In applicazione di tale principio, è stato ritenuto che il dovere di mantenimento del figlio maggiorenne, gravante sul genitore separato non convivente, cessa all’atto del conseguimento da parte del figlio di uno status di autosufficienza economica, consistente nella percezione di un reddito corrispondente alla professionalità – quale che sia – acquisita in relazione alle normali e concrete condizioni di mercato. “Ne consegue che, una volta che sia provata la prestazione di attività lavorativa retribuita, resta rimessa alla valutazione del giudice del merito la eventuale esiguità del reddito percepito, al fine di escludere la cessazione dell’obbligo di contributo di mantenimento” (cfr. Cass., sez. I, 17 novembre 2006 n. 24498).

Le valutazioni sono certo diventate più difficili nell’attuale fase di precariato che caratterizza gran parte del mondo del lavoro, connotata da una serie di prestazioni a tempo determinato, da contratti di collaborazione professionale in part time e spesso da lavori “in nero” o sottopagati, scelti dal giovane che si affaccia alle attività lavorative per magari poter continuare a studiare o perché non riesce a reperire un’occupazione più stabile e meglio retribuita. E’ stato così ritenuto che “la mera prestazione di lavoro da parte del figlio occupato come apprendista non è di per sé tale da dimostrare la totale autosufficienza economica, atteso che il complessivo contenuto dello speciale rapporto di apprendistato…si distingue sotto vari profili, anche retributivi, da quello degli ordinari rapporti di lavoro subordinato, onde, non essendo sufficiente il mero godimento di un reddito quale che sia, occorre altresì la prova del trattamento economico percepito nel medesimo rapporto di apprendistato e, in particolare, dell’adeguatezza di detto trattamento, nel senso esattamente dell’idoneità di quest’ultimo, che pure deve essere proporzionato e sufficiente ai sensi dell’art. 36 Cost. ad assicurare all’apprendista, per la sua stessa entità e con riferimento anche alla durata, passata e futura del rapporto, l’autosufficienza sopra indicata” (cfr. Cass., sez. I, 11 gennaio 2007 n. 407). Tali principi potrebbero indubbiamente applicarsi agli aspetti del precariato lavorativo sopra evidenziati.

La cessazione dell’obbligo di mantenimento è stata ritenuta giustificata anche quando il genitore interessato alla declaratoria della cessazione dell’obbligo stesso dia la prova che il figlio è stato posto nelle concrete condizioni per poter essere economicamente autosufficiente, senza averne però tratto utile profitto per sua colpa o per sua (discutibile) scelta. In tal caso il giudice può trarre questa prova anche dall’avvenuto svolgimento, con rapporto di collaborazione continuativa, di attività lavorativa, pur in atto cessata, in quanto elemento indicativo di capacità reddituale (cfr. Cass., sez. I, 17 novembre 2006, n. 24498).

Altro aspetto, di carattere prettamente processuale, riguarda la legittimazione alla richiesta del contributo di mantenimento. Se appare indubbia quella diretta del figlio maggiorenne, personalmente titolare di capacità di agire in giudizio e di far valere i propri diritti, è stato ritenuto che “il genitore, separato o divorziato, a cui il figlio sia stato affidato durante la minore età, pur dopo che il figlio (non ancora autosufficiente), sia divenuto maggiorenne, continua, in assenza di un’autonoma richiesta da parte di quest’ultimo, ad essere legittimato iure proprio ad ottenere dall’altro genitore il pagamento dell’assegno per il mantenimento del figlio, sempre che tra il genitore già affidatario ed il figlio persista il rapporto di coabitazione. Al fine di ritenere integrato il detto requisito della coabitazione, basta che il figlio maggiorenne – pur in assenza di una quotidiana coabitazione, che può essere impedita dalla necessità di assentarsi con frequenza, anche per non brevi periodi, per motivi, ad esempio di studio – mantenga tuttavia un collegamento stabile con l’abitazione del genitore, facendovi ritorno ogniqualvolta gli impegni glielo consentano, e questo collegamento, se da un lato costituisce un sufficiente elemento per ritenere non interrotto il rapporto che lo lega alla casa familiare, dall’altro concreta la possibilità per tale genitore di provvedere, sia pure con modalità diverse, alle esigenze del figlio” (cfr. Cass., sez. I, 27 maggio 2005 n. 11320; Cass. , sez. I, 24 febbraio 2006 n. 4188).

La corte di legittimità ha meglio precisato (cfr. Cass., sez. I, 17 settembre/12 ottobre 2007 n. 21437) che la legittimazione del genitore è concorrente con la diversa legittimazione del figlio, che trova fondamento nella titolarità, in capo a quest’ultimo, del diritto al mantenimento, ma che non si può ravvisare un’ipotesi di solidarietà attiva, trattandosi di diritti autonomi, fondati su presupposti in parte diversi (nel caso dei genitori uno dei presupposti è la coabitazione) e non del medesimo diritto attribuito a più persone.

Ne consegue il diritto del figlio ad intervenire nel giudizio di separazione o di divorzio, sia se la sua maggiore età era preesistente al momento della presentazione della domanda, sia se sia stata raggiunta nelle more del giudizio, per far valere il suo autonomo diritto, in concorrenza o anche in difformità, totale o parziale, con il diritto autonomo fatto valere dal genitore convivente.

Ritengo, poi, che possa ravvisarsi un vero e proprio obbligo di chiamata in causa quando la domanda del genitore preveda una forma di contributo indiretto, in contrasto con la previsione del contributo diretto stabilita come regola dall’art. 155 quinquies, essendo necessario a questo punto, anche al fine di giustificare il provvedimento del giudice, che il figlio esprima il proprio consenso al mantenimento indiretto.

E’ possibile, comunque, che, nonostante la richiesta del figlio di mantenimento diretto, il giudice decida all’opposto per un mantenimento indiretto, totale o parziale, tutte le volte in cui si renda conto che la maggior parte delle spese per il mantenimento siano affrontate dal genitore collocatario e che l’erogazione diretta al figlio maggiorenne potrebbe essere foriera di cattiva amministrazione, nel senso che potrebbe disperdersi nei mille rivoli dei propri capricci personali.