Il parereSESTA COMMISSIONE
ORDINE DEL GIORNO EX ART. 45, CO. 3 R.I.
SEDUTA DEL 5 LUGLIO 2012 »“ ORE 12.00
INDICE
" \\l 2 1) Fasc. 92/PP/2012 - Parere sulle disposizioni concernenti
l'amministrazione della giustizia contenute nello schema di decreto legge
recante misure urgenti per la crescita sostenibile (cd. decreto sviluppo).
(relatore Consigliere CORDER)
La Commissione a maggioranza propone al Plenum di adottare la seguente delibera:
«Art 54 del D.L. n. 83 del 22 giugno 2012
1) Le norme di nuova introduzione. Il decreto legge 22 giugno 2012, n. 83,
recante «Misure urgenti per la crescita del Paese», pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale del 26 giugno 2012, si pone l’obiettivo di favorire la
crescita, lo sviluppo e la competitivita' dell’intero sistema
produttivo e di realizzare un effettivo rilancio dello sviluppo economico
del Paese, ed a tal fine, prendendo atto che l’inefficienza della giustizia
civile »“ ed in particolare del sistema delle impugnazioni - costituisce uno
dei maggiori ostacoli allo sviluppo dell’attività economica nel nostro paese,
introduce rilevanti innovazioni della disciplina dei giudizi di appello e di
cassazione nel settore civile, nella disciplina della legge 24 marzo 2001 n. 89,
c.d. «legge Pinto», prevede una rimodulazione degli istituti del concordato
preventivo e degli accordi di ristrutturazione dei debiti.
»‹La ratio ispiratrice del provvedimento nel suo insieme risiede, quindi,
nell’adozione di misure normative che, nei diversi settori affrontati,
aggrediscano snodi problematici operativi che hanno dimostrato di costituire un
freno al dispiegarsi efficiente e funzionale dell’iniziativa economica tesa
allo sviluppo del Paese .
»‹Come è noto, il corretto funzionamento di un’economia di mercato non può
prescindere, tra le altre condizioni, dalla presenza di un sistema giudiziario
capace di garantire un’adeguata tutela dei diritti, un’efficace applicazione
dei contratti e una tempestiva risoluzione delle controversie che insorgono tra
privati, e tra questi e lo Stato.
Le disposizioni rilevanti in materia di giustizia, si collocano, pertanto,
nell’ambito di un intervento legislativo molto più ampio ed eterogeneo,
animato da un intento unitario esplicito.
Poiché queste disposizioni incidono «sull'ordinamento giudiziario» e
«sull'amministrazione della giustizia» ed in particolare produrranno
effetti rilevanti sulla organizzazione degli uffici giudiziari il Consiglio
Superiore della Magistratura esprime il proprio parere, in virtù delle
attribuzioni conferitegli dall’art. 10 della legge 195 del 1958.
Il giudizio di secondo grado è inciso in maniera particolarmente significativa,
con la previsione, inedita nel sistema vigente, di un filtro di inammissibilità
nel merito dell’impugnazione proposta. Secondo quanto si legge nella Relazione
governativa di accompagnamento al decreto, con il nuovo articolo 348 bis del
codice di procedura civile, si è tentato di «congegnare un filtro di
inammissibilità incentrato su una prognosi di non ragionevole fondatezza del
gravame, formulata dal medesimo giudice dell’appello in via preliminare alla
trattazione dello stesso.»
Così la novella stabilisce che, oltre ai casi già contemplati dal codice di
dichiarazione di inammissibilità o l’improcedibilità dell’appello con
sentenza, l’impugnazione è dichiarata inammissibile dal giudice competente
quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta. Sostanzialmente
quindi, si crea un sistema di scrematura degli atti di gravame, fondato sulla
probabilità di accoglimento del mezzo, finalizzato a selezionare quelli
meritevoli di essere trattati approfonditamente, cui destinare in via esclusiva
le risorse destinate dall’ordinamento alla correzione delle decisioni di primo
grado; risorse che, nell’attuale situazione delle Corti d’Appello, come si
vedrà in prosieguo, si sono dimostrate drammaticamente inadeguate all’enorme
afflusso di affari, ed incapaci di garantire l’efficienza e la tempestività
della risposta giudiziaria alle istanze dei cittadini.
Da tale meccanismo, secondo il nuovo testo di legge, sono escluse le cause di
cui all’articolo 70, primo comma c.p.c., e cioè quelle in cui è previsto
l’intervento obbligatorio del pubblico ministero, che si presumono quindi
connotate da un interesse pubblicistico che sconsiglia l’adozione di
limitazioni procedimentali all’accertamento.
La nuova valutazione preliminare di inammissibilità, inoltre, non si applica ai
casi in cui le parti abbiano optato, in primo grado, per il procedimento
sommario di cognizione di cui all’art. 702 bis del codice di procedura civile,
caratterizzato da una spiccata deformalizzazione istruttoria, bilanciata dalla
maggiore apertura »“ disciplinata all’art. 702 quater c.p.c. »“ del giudizio
di secondo grado ai nuovi mezzi di prova. Tale esclusione, oltre a rispondere ad
una necessità di intima coerenza del sistema, appare dettata anche dalla
finalità, utilmente esplicitata nella relazione di accompagnamento, di
incentivare l’utilizzo dello strumento processuale semplificato in primo
grado, che fino ad ora non pare avere avuto significativa rilevanza statistica
nella pratica processuale.
L’art. 348»“ter disciplina in rito la pronuncia sull’inammissibilità
dell’appello, stabilendo che essa venga adottata all’udienza di cui
all’articolo 350 c.p.c. «con ordinanza succintamente motivata, anche
mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa
e il riferimento a precedenti conformi».
E’ evidente quindi l’intenzione del legislatore di introdurre una modalità
di definizione del contenzioso non meritevole di approfondimento nel merito con
uno strumento processuale sintetico ed essenziale nel contenuto, con motivazione
succinta, che contenga, anche per rinvio, soltanto i riferimenti argomentativi
minimi necessari ad individuare le ragioni della prognosi negativa di
fondatezza. Ciò, naturalmente, allo scopo di marcare la differenza »“ in
funzione di una concreta effettività deflattiva - con il diverso impegno
richiesto dalla struttura motivazionale e dalla funzione decisoria della
sentenza che, per quanto semplificata, al contrario, affronti
approfonditamente l’esame delle questioni di merito oggetto del contendere.
In ogni caso, il provvedimento contiene la decisione sulle spese a norma
dell’articolo 91 c.p.c., e deve riguardare sia l’impugnazione principale
che quella incidentale eventualmente proposta. La dichiarazione di
inammissibilità legittima le parti alla proposizione del ricorso in cassazione
contro la sentenza di primo grado secondo i motivi di legittimità di cui
all’art. 360 c.p.c.. Per rendere esperibile tale rimedio la legge prevede che
i termini per la proposizione di esso decorrano dalla ordinanza di
inammissibilità dell’appello.
Allorché l’ordinanza di inammissibilità si fondi sulle medesime ragioni »“
inerenti alle questioni di fatto - affermate nella sentenza di primo grado, il
ricorso in cassazione non potrà essere proposto per le ragioni di cui al n. 5
dell’art. 360 c.p.c.. Analogo limite è previsto per il ricorso in cassazione
avverso le sentenza di appello che abbiano respinto nel merito l’impugnazione,
utilizzando le medesime ragioni concernenti le questioni di fatto poste a
sostegno della pronuncia gravata.
Si tratta dell’esplicitazione del principio, di obbiettiva ragionevolezza
tecnica ed economia processuale per cui quando una questione sia stata già
risolta, per ciò che concerne la ricostruzione dei fatti sottoposti a giudizio,
in termini conformi in due gradi di giudizio, tale ricostruzione non può più
essere posta in discussione - attraverso la valvola del vizio di motivazione di
cui all’attuale n. 5 dell’art. 360 c.p.c., o per omesso esame di un fatto
decisivo secondo il tenore della norma di nuova introduzione di cui subito si
dirà »“ ed il controllo in cassazione potrà estendersi solo alle questioni di
diritto, secondo la funzione propria del giudizio di legittimità.
L’art. 54 del decreto propone quindi la sostituzione dell’attuale testo del
n. 5 dell’art. 360 c.p.c., che elenca i motivi di ricorso in cassazione, con
la dizione secondo cui il ricorso è ammissibile «5) per omesso esame circa un
fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le
parti.»
Come ricorda la relazione di accompagnamento l’attuale tenore letterale del
motivo, che consente l’impugnazione di legittimità «per omessa
insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e
decisivo per il giudizio», ha costituito la valvola attraverso cui si è
consentita avanti alla Suprema Corte la riproposizione delle questioni di fatto
che, in quanto tali, dovrebbero essere estranee alla sede istituzionalmente
preposta alla nomofilachia. Né l’eliminazione del motivo di cassazione
relativo alla motivazione rischia di provocare un vuoto di tutela, atteso che
l’ipotesi di motivazione inesistente o solo apparente costituirebbe un vizio
di legge sempre censurabile ex art. 111 Cost.
Le ulteriori norme dell’art. 54 attuano il coordinamento del nuovo istituto
con la disciplina del contenzioso lavoristico.
Infine, è definito il regime transitorio stabilendosi che le nuove disposizioni
si applicano ai giudizi di appello introdotti ed alle sentenze pubblicate dal
trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di
conversione.
2) Le ragioni delle modifiche. L’esame dei dati statistici relativi alla
durata dei procedimenti civili in Italia evidenzia come la fase processuale in
cui si accumulano maggiori ritardi nella definizione sia quella di impugnazione.
In base ai dati resi noti dal Ministero della Giustizia (Direzione Generale di
Statistica), nel periodo 1 luglio 2010 »“ 30 giugno 2011 la pendenza
complessiva del contenzioso civile nel sistema processuale italiano è
diminuita, rispetto all’anno precedente (1 luglio 2009 »“ 30 giugno 2010) da
5.561.383 a 5.429.148 procedimenti, con un decremento del 2,4%, in conseguenza
di una rilevante diminuzione delle sopravvenienze passate da 4.780.985 al 30
giugno 2010 a 4.365.561 al 30 giugno 2011 (- 8,7%).
In relazione alla ripartizione tra gli uffici di merito, la pendenza complessiva
nel periodo 2010 »“ 2011 è in aumento nelle Corti d’Appello (444.908 nel
2011 a fronte di 430.503 nel 2010, con un incremento del 3,3%), mentre è
stabile nei tribunali (3.479.367 a fronte di 3.478.745), ed è in forte
diminuzione negli uffici del giudice di pace (1.389.431 a fronte di 1.534.082.
con una flessione di »“ 9,4%).
Nonostante si sia verificata nel 2010 »“ 2011 una lieve flessione delle
iscrizioni di nuovi giudizi in appello (da 171.887 a 162.940) la durata media
dei procedimenti di secondo grado è aumentata da 947 a 1032 giorni (+9%).
Tale ultimo dato dimostra che il giudizio di secondo grado pone una seria
ipoteca negativa sulla possibilità del sistema giudiziario italiano di
conformarsi alle prescrizioni della Corte EDU in relazione ai tempi di
definizione dei processi civili.
Il giudizio di primo grado, pur rimanendo sicuramente non conforme ad un modello
di giustizia tempestiva ed efficace, offre un valore medio in aumento »“ da 456
nel 2010 a 470 giorni nel 2011 »“ ma compatibile con i limiti massimi stabiliti
in sede sopranazionale.
Si deve infine dare atto, quanto alle modalità di definizione che le
impugnazioni in appello di sentenze civili risultano essere accolte in una
percentuale vicina al 30% dei casi
Per quanto riguarda il giudizio di Cassazione, la pendenza complessiva dei
procedimenti civili risulta essere diminuita nel periodo 31 dicembre 2010 »“ 31
dicembre 2011, da 97.653 a 95.594 (-2,14%). Nello stesso periodo si è
verificato un aumento delle sopravvenienze da 30.383 a 30.889 procedimenti, ed
un aumento delle definizioni »“ da 28.963 a 32.948 (+14%) - . E’ aumentata la
produttività media dei magistrati, passandosi da 273 del 2010 a 278 definizioni
per singolo consigliere nel 2011.
Cionondimeno la durata media del procedimento civile in cassazione è aumentata
nel 2011 a 36,7 mesi, contro i 35,4 mesi del 2010.
Anche il giudizio di legittimità non corrisponde alle attese di effettività e
tempestività in sede CEDU.
Con riferimento agli esiti del giudizio, la percentuale di accoglimento
dell’impugnazione in cassazione corrisponde al 35%, essendo per il resto i
ricorsi rigettati, dichiarati inammissibili, improcedibili o estinti.
Non può dirsi che esista un incentivo, in termini di risultato processuale
atteso, per le parti ad impugnare le sentenze di primo grado.
Esistono, come è noto, delle condizioni esterne particolarmente favorevoli alla
promozione del contenzioso ed alla sua protrazione in ogni sede disponibile.
Tra di esse, indubbio incentivo all’impugnazione delle decisioni »“ quali che
siano le possibili aspettative di successo nel merito della lite »“ è
costituito dalla prospettiva di lucro relativa all’indennizzo riconosciuto
dalla legge cd. «Pinto», dipendente dalla violazione del termine ragionevole
di durata del processo.
Il perseguimento di tale guadagno, nelle attuali condizioni del sistema
processuale civile, costituisce esito generalmente prevedibile con rilevante
livello di probabilità, cosicché è un forte stimolo alle parti del processo
anche soccombenti a non desistere dalla lite.
Come è noto, si ingenera spesso un circolo vizioso per cui l’ordinamento non
riesce a garantire una tempestiva definizione neanche del procedimento per
l’indennizzo del danno per irragionevole durata della lite, cosicché sarà
possibile introdurre nuove richieste di indennizzo relative alla sua durata.
Ed effettivamente risulta dai dati che il contenzioso relativo alla cd. «legge
Pinto» è in continuo aumento, essendo i ricorsi alle Corti d’appello, che
decidono in unico grado, pervenuti al numero di 53.138 nel 2011 (erano 44.101
nel 2010), con un incremento annuale del 20,5%.
Quanto alla Corte di Cassazione, il contenzioso relativo alla legge Pinto è una
delle aree di principale impegno, considerato che nel 2011 sono stati definiti
3.709 ricorsi in tale materia, pari all’11,3% del totale della produzione.
Non è possibile quindi nelle attuali condizioni, attribuire alle impugnazioni
alcun «effetto» o «equilibrio» di «separazione», cioè la capacità
di discernere tra i provvedimenti suscettibili di gravame, con tendenziale
limitazione degli appelli o dei ricorsi alla Corte di Cassazione alle sole
sentenze non corrette nel merito.
Premesse le condizioni «esterne» di cui si è detto, è evidente che il
funzionamento del meccanismo delle impugnazioni è in concreto fortemente
determinato dalle regole che ne disciplinano l’accesso, l’oggetto, i
presupposti e l’ampiezza del sindacato ammesso sulle decisioni oggetto di
contestazione.
Il giudizio di secondo grado in appello, nell’attuale sistema normativo
italiano è disciplinato quale nuovo processo con effetto pienamente devolutivo,
cosicché realizza una sostanziale duplicazione del giudizio di primo grado, sia
pure con limiti relativi alla proposizione di domande nuove ed alla richiesta di
nuova attività istruttoria. Pur richiedendo formalmente la legge (art. 342
c.p.c.) la indicazione di specifici motivi di impugnazione, la parte ottiene
comunque un riesame complessivo della questione la cui soluzione in primo grado
non l’abbia soddisfatta.
Dal punto di vista dogmatico, la possibilità di rivedere la prima decisione in
appello in maniera integrale, con la stessa estensione di giudizio contraddice
l’indirizzo che sembra prevalente nella più recente elaborazione dottrinale e
legislativa, teso ad attribuire centralità al ruolo del giudice in primo grado
ed alla immediatezza del contraddittorio tra le parti e con il giudicante, sia
con riferimento al merito che al metodo di conduzione del processo, in cui la
interlocuzione diretta, sia a scopi definitori che decisori, ha un rilievo
preminente.
Del resto, l’organico naturalmente più ridotto delle Corti d’Appello »“ la
pianta organica prevede complessivamente, tra consiglieri, direttivi e
semidirettivi, 1304 posti di magistrato in Corte d’appello, mentre in
Tribunale, come giudici, direttivi e semidirettivi, sono previsti
complessivamente 5063 posti - impedisce di fare fronte in maniera tempestiva
alla revisione delle sentenze emesse in primo grado ed impugnate. Per lo stesso
motivo non possono essere in quella sede investite rilevanti risorse di
interlocuzione con le parti caratteristiche del primo grado.
L’esperienza peraltro dimostra che il giudice di appello »“ che è in linea
di principio normalmente vincolato all’istruttoria del fatto esperita dal
primo giudice »“ nella maggioranza dei casi non si avventura nella
rivalutazione della ricostruzione della fattispecie, indirizzando il proprio
nuovo giudizio piuttosto sulle affermazioni in diritto.
Quanto al giudizio di cassazione, l’art. 360 c.p.c., nell’individuare i
motivi per il ricorso di legittimità, prevede »“ oltre ai vizi di stretta
legittimità - il vizio di «omessa, insufficiente o contraddittoria
motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio». Tale
ipotesi finisce per consentire una nuova censura, ed un nuovo giudizio, sul
contenuto della decisione, sia in fatto che in diritto.
3) La valutazione della disciplina introdotta.
a) Il giudizio d’appello.
Gli artt. 348 bis e ter cpc consentono di dichiarare inammissibile l’appello
sol perché esso abbia una probabilità non ragionevole di essere accolto.
L’approccio interpretativo radicalmente negativo - connesso soprattutto al
timore di un utilizzo assai spregiudicato della formula legislativa della
ragionevole probabilità anche al fine di ridurre il carico dei ruoli - sembra
eccessivo.
Il possibile rischio è semmai quello opposto che la riforma possa avere una
limitata, se non scarsa, applicazione.
Infatti, il carico dell’arretrato già pendente, con cause fissate per la
decisione in talune Corti d’appello già ad oltre cinque anni da oggi, rende
obiettivamente poco plausibile che, in specie, i collegi delle Corti di
appello, peraltro tenuti anche allo smaltimento dell’arretrato per effetto dei
programmi di gestione di cui all’art. 37 d.l. 98/2011, conv. in l. 111/2011,
siano in grado di procedere allo scrutinio richiesto dalla norma. Al riguardo,
deve considerarsi che la norma così redatta mette a disposizione termini assai
ristretti: nei giudizi sottoposti al rito ordinario venti giorni intercorrenti
fra la scadenza del termine di costituzione dell’appellato e l’udienza
fissata in citazione; ovvero, nei giudizi sottoposti al rito laburista, dieci
giorni previsti dall’art. 436 I comma cpc fra il termine di costituzione
dell’appellato e quello dell’udienza. In tali ristretti termini il collegio,
sempre che abbia a disposizione il fascicolo di primo grado, usualmente, invece,
trasmesso dall’ufficio di primo grado con grave ritardo, deve, oltre al lavoro
ordinario, procedere allo studio dei nuovi processi di appello per individuare
quelli che non presentano una ragionevole probabilità di essere accolti,
soltanto per i quali direttamente, quanto unicamente, all’udienza ex art. 350
c.p.c. deve pronunciare l’ordinanza di inammissibilità.
Si reputa allora opportuno suggerire di ipotizzare accorgimenti normativi ed
organizzativi che, in primo luogo, attribuiscano al collegio un tempo ulteriore
per lo scrutinio richiesto e che soprattutto, al contempo, agevolino ed
incentivino l’esame del fascicolo processuale di appello già anteriormente
alla prima udienza, quale necessario presupposto per il raggiungimento dello
scopo prefissato dalla norma.
E’ invero dato notorio che, in considerazione del poderoso carico di lavoro
oggi gravante sulle Corti di appello, alla prima udienza i collegi si limitino
solo a verificare la regolarità della notifica e l’integrità del
contraddittorio, usualmente rinviando all’udienza delle conclusioni ogni più
approfondita valutazione del merito della controversia. Solo nell’ipotesi di
richiesta di inibitoria si procede alla, comunque sommaria, delibazione della
possibile fondatezza dell’interposto gravame. Prova ne è la non eccessiva
applicazione della sanzione prevista nell’art. 283 II co c.p.c. per il caso
in cui l’istanza di sospensiva sia inammissibile o manifestamente infondata
introdotta dall'art. 27 della l. 12 novembre 2011, n. 183.
Donde può sorgere il dubbio che la disposizione nella sua attuale formulazione
possa realisticamente trovare applicazione solo nell’ipotesi in cui il
collegio, si ribadisce già oberato del carico pregresso, sia investito della
richiesta di inibitoria.
Ed allora i rimedi potrebbero essere quelli della reintroduzione nei giudizi
davanti alla Corte di Appello della figura del consigliere istruttore, al quale
concedere il potere di emettere l’ordinanza di inammissibilità di cui si
discorre, eventualmente poi reclamabile innanzi al collegio, che potrà poi
decidere con ordinanza parimenti succintamente motivata, ricorribile per
cassazione; oppure la previsione di una sezione speciale, a composizione
turnaria, preposta unicamente al vaglio preventivo dei fascicoli sopravvenuti
(semmai con contestuale temporanea esenzione o riduzione del lavoro ordinario),
onde discernere quali fra questi possono essere immediatamente definiti con
l’ordinanza di inammissibilità di cui si discorre.
In altri termini, il rischio da evitare, e che può far tristemente naufragare
il tentativo di riforma, è quello che il giudice prenda una cognizione
adeguatamente approfondita della controversia, in assenza di correlativa istanza
di sospensiva, solo all’udienza di precisazione delle conclusioni.
Peraltro, sotto altro profilo la compiuta delibazione della sussistenza o meno
della ragionevole probabilità di accoglimento dell’appello può essere
aiutata ove si preveda espressamente, così rafforzando il disposto dell’art.
342 c.p.c. (e, nel rito del lavoro, dell'art. 434 c. p.c.) in un’ottica di
leale collaborazione delle parti alla pronta definizione del giudizio, che
l’atto di appello, al pari dell’eventuale appello incidentale, debba
contenere, a pena di inammissibilità, un vero e proprio progetto alternativo di
sentenza. Sarebbe, in altri termini, auspicabile che il legislatore preveda, al
pari, peraltro, di quanto opera il codice di rito tedesco al § 520 comma terzo,
che la parte, in relazione ai singoli passi della sentenza impugnata non
condivisi, indichi con inequivocabile nettezza i motivi, anche a mezzo di
preciso rinvio a documenti, atti istruttori, allegazioni difensive,
dell’evidenziato dissenso, proponendo essa stessa un ragionato progetto
alternativo di decisione fondato su precise censure rivolte alla sentenza di
primo grado.
E’ indubitabile che, in tal guisa, il collegio, per un verso, vede agevolato
il proprio compito e, per altro verso, può vedere fugato il rischio di un
utilizzo arbitrario del novello rimedio processuale: una delibazione sommaria e
colposamente superficiale è, infatti, ex seimpedita qualora la parte
appellante, in via principale od incidentale, tracci puntualmente la strada su
cui deve incamminarsi il ragionamento del giudice di secondo grado.
Inoltre, mutuando dall’esperienza tedesca, occorrerebbe prevedere una
ridefinizione dei motivi d’appello che dovrebbe essere proposto solo per
violazione di legge ovvero se i fatti di cui occorre tener conto ai fini della
valutazione dell’impugnazione giustificano una diversa decisione.
Tale proposta risente della necessità, imposta dal sopra esposto sostanziale
fallimento dell’attuale sistema delle impugnazioni, di giungere ad una
ricostruzione del giudizio di secondo grado unicamente come revisio prioris
instantiae.
L’attuale stato del giudizio di appello, caratterizzato dall’incapacità del
sistema di dare una risposta giudiziaria in tempi ragionevoli, che, in ultima
analisi, si traduce in una sostanziale denegata giustizia ex se violativa del
disposto di cui all’art. 6 Cedu, impone l’adozione di un appello chiuso,
caratterizzato dall’impossibilità della parte di depositare nuovi documenti,
quantunque essi siano indispensabili alla definizione del giudizio, a meno che
essi non si siano formati successivamente o la parte ne sia entrata in possesso
solo dopo la sentenza di primo grado per ragioni non ad essa imputabili.
Il processo civile non va allora concepito come un work in progress, che si
dipana in più stadi e volto al progressivo accertamento della realtà
materiale, bensì, valorizzando e responsabilizzando il giudizio di primo grado,
anche eventualmente accentuando momenti di controllo endoprocessuali sempre
all’interno di tale grado di giudizio, i giudici dei gradi successivi possono
- e devono essere chiamati a - soltanto delibare il quadro istruttorio
definitivamente maturato allo scadere delle preclusioni di legge, sulla scorta
delle allegazioni difensive una volta e per sempre delineate nel giudizio di
primo grado.
Tale ricostruzione, peraltro, conforme al dato costituzionale, secondo cui i
giudici si distinguono solo per le funzioni svolte, di modo che non può
riconoscersi né alla Corte di Cassazione, né tantomeno alle singole Corti di
Appello nessuna posizione gerarchicamente sovraordinata, consegue, come detto,
all’abbandono definitivo di ogni residua concezione del giudizio di appello
come novum iudicium.
In tale ottica che vede il giudizio di appello non più come step successivo,
come un quasi naturale secondo tempo, aperto ad ulteriori sviluppi, della
partita processuale, ma come mera rivisitazione del giudizio già ottenuto, non
può menar scandalo la previsione che sanzioni il ricorso abusivo al giudizio
impugnatorio, anche mediante una condanna, suppletiva alla statuizione ex art.
91 c.p.c., avente ad oggetto il versamento di un multiplo del contributo
unificato all’erario, come già avviene in altri paesi europei con cultura
giuridica vicina alla nostra.
Del resto una tale forma di sanzione avrebbe anche il significato di compensare
i notevoli esborsi che lo Stato è tenuto a versare alle parti in attuazione
della c.d. legge Pinto, determinati dalle lungaggini dei processi indotte dalla
proliferazione del contenzioso.
Coerente con l’appena menzionata ricostruzione si presenterebbe anche la
possibile opzione, peraltro prevista anche dal codice processuale tedesco al §
514, di rendere non appellabili le sentenze contumaciali. Il che ovviamente
richiederebbe di abbandonare il criterio - ereditato dalla tradizione francese
- della contumacia come ficta contestatio e ad accogliere l’inverso principio,
proprio del processo tedesco ed austriaco, della contumacia come ficta
confessio. Infatti, se una parte manifesta la propria indifferenza per l’esito
del processo non vi è nessuna ragione di costringere l’altra parte a
sostenere un’istruttoria, che costa denaro ed allunga i tempi del processo.
All’uopo spunti interessanti possono essere tratti dal modello tedesco di
processo contumaciale, da recepirsi per così dire cum judicio, in quanto
l’effetto della ficta confessio potrebbe essere ricollegato non già alla mera
mancata costituzione a seguito di regolare notifica dell’atto introduttivo,
ma anche alla mancata presentazione della parte a rispondere
all’interrogatorio formale. In tal senso sarebbe possibile evitare una
gestione strumentale e capziosa della tempistica di introduzione della lite da
parte dell’attore, salvaguardando nei limiti ragionevoli la posizione del
convenuto, la cui ficta confessio »“ si ribadisce »“ potrebbe essere tratta
dalla condotta omissiva perseverata nel corso del processo, finanche dopo la
notifica dell’ordinanza con cui è disposto l’interrogatorio formale.
Il quadro potrebbe trovare poi logica coerenza, laddove si attribuisca, in caso
di procedimento contumaciale, il potere-dovere al giudice di disporre, anche
d’ufficio e sin dalla prima udienza, l’interrogatorio formale del convenuto
contumace ed, indi, in caso di sua mancata presentazione all’udienza
all’uopo fissata per tale incombente processuale, il potere »“dovere sempre
del giudice di decidere la causa oralmente in udienza col modello dell’art.
281 sexies c.p.c., prevedendo espressamente una motivazione assolutamente
concisa, semmai strutturata sul modello francese del cd. attendu.
Sarebbe dunque ingiustificata in relazione alla disciplina, già oggi prevista,
per l’ordinanza di convalida di licenza o di sfratto, prevedere una qualche
forma di impugnazione del provvedimento così redatto, il quale deve cadere
more solito in cosa giudicata.
Giova aggiungere che l’occasione si palesa propizia anche per l’estensione
del modello motivatorio di cui al disposto degli artt. 132, 118 disp. att.
c.p.c., siccome novellato dalla legge 69/2009, anche ai giudizi di appello già
pendenti alla data del 4 luglio 2009. Si tratta, infatti, di razionalizzare la
disciplina della motivazione civile, atteso che attualmente, per effetto
dell’art. 58 della legge 69/09 esiste un doppio binario: le cause pendenti in
primo grado alla data del 4 luglio 2009 sono decise con il nuovo modello
motivatorio, così come i giudizi di appello riguardanti sentenze pronunciate
con riguardo alle cause già pendenti in primo grado alla detta data; viceversa,
in relazione alle cause pendenti in grado di appello alla detta data del 4
luglio 2009, il nuovo modello motivatorio non si applica, rimanendo il vecchio
regime che impone la redazione dello svolgimento del processo e dei motivi di
diritto. E’ palese che si tratti di un discrimine in sé non rispondente a
criteri di logica giuridica, tanto più che l’alleggerimento del percorso
motivatorio consentirebbe di aiutare i giudici del gravame a ridurre
l’arretrato e porrebbe i capi delle Corti di appello in grado di formulare
più agevolmente il programma di gestione dell’arretrato. Ovviamente, la
possibile novità non ridurrebbe i diritti di difesa delle parti né si può
prestare a sospetti di irrazionalità, limitandosi essa solo ad allargare
l’ambito applicativo del già vigente testo dell’art. 132 c.p.c., peraltro
in conformità con il principio tempus regit actum (la data del 4 luglio 2009 è
appunto quella di entrata in vigore della l. 69/09).
Tuttavia, una premessa fondamentale preliminare a qualsiasi intento riformatore
del giudizio di appello richiede che il legislatore individui ed affronti con il
necessario realismo il problema dell’attuale arretrato delle cause civili che
grava presso le Corti d’appello del paese.
E’ noto, infatti, che il più significativo ostacolo ad un rapido esame delle
cause civili in appello dipende dal numero esorbitante delle impugnazioni
proposte rispetto alla capacità di smaltimento delle nostre Corti d’appello.
Ciò determina inevitabilmente le condizioni per fissare le udienze per la
decisione a notevole distanza di tempo dalla data di proposizione dell’atto di
appello, in quanto i ruoli dei collegi risultano gravemente ingolfati.
Una semplice rilevazione statistica consente di verificare che, nonostante la
produttività media delle Corti d’appello risulti già molto elevata ed in
costante crescita, la decisione su un appello civile viene fissata in media dopo
4 o 5 anni.
Ebbene, in presenza di una tale situazione problematica, gli effetti positivi
della prospettata riforma non potrebbero che essere tangibili prima di 10/12
anni, in quanto solo allora potranno verificarsi i benefici di una riduzione
delle sopravvenienze dopo lo smaltimento delle cause giacenti in attesa della
decisione.
Al proposito, quindi, si suggerisce di prendere in considerazione l’adozione
di misure straordinarie e temporanee volte a consentire rapidamente di adeguare
i ruoli delle pendenze alle nuove norme così da rendere possibile agli appelli,
che superino il filtro di ammissibilità, di essere decisi entro due anni senza
incorrere nelle conseguenze della cd. legge Pinto ed offrendo al cittadino una
risposta giudiziaria in tempi ragionevoli.
In tal senso potrebbe essere utile costituire alcune sezioni per lo smaltimento
dell’arretrato civile presso le Corti d’appello per l’assunzione della
decisione delle cause fissate per la sentenza a distanza di tempo, in maniera
tale da assicurare una decisione in tempi anticipati e nel contempo sfoltire i
ruoli dei consiglieri consentendo loro di garantire la pronuncia sui nuovi
appelli a distanza di due anni. Tali sezioni stralcio dovrebbero essere
costituite esclusivamente da magistrati, ordinari o amministrativi, collocati a
riposo prima del raggiungimento del limite d’età. In alternativa, analogo
risultato potrebbe essere raggiunto attraverso la costituzione dell’ufficio
del giudice presso le Corti d’appello dotato di assistenti dei magistrati
capaci di coadiuvare gli stessi nella redazione delle motivazioni delle sentenze
fissate per la decisione in data superiore al biennio.
Ciò che è necessario sottolineare è che tali misure straordinarie e
contingenti sono assolutamente imprescindibili nell’auspicata direzione di una
tangibile riduzione dei tempi complessivi nella trattazione delle cause civili,
senza determinare un ulteriore aggravio dei carichi di lavoro dei magistrati.
Infine, sarebbe comunque opportuno modificare le piante organiche presso le
Corti d’appello e presso la Corte di cassazione, al fine di adeguare il numero
degli incarichi di presidente di sezione alle reali necessità direttive dei
rispettivi uffici. Ciò potrebbe comportare il recupero di alcune unità che, a
pieno ritmo, possono essere destinate alla redazione delle sentenze e non
soltanto alla direzione dei collegi.
b) Il giudizio di cassazione.
Per quanto concerne la modifica del regime del giudizio per cassazione,
l’intervento riformatore si pone il condivisibile obiettivo di restituire alla
Corte di cassazione la funzione nomofilattica che le è propria, nel quadro di
una corretta ridefinizione della dinamica del processo civile.
La modifica riscrive il n. 5 dell’art. 360 c.p.c. nel senso che il vizio della
sentenza denunciabile in cassazione deve consistere nell’ «omesso esame
circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra
le parti» e non più per «omessa, insufficiente o contraddittoria
motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio». In tal
modo si intende definire in modo più circoscritto l'ambito del controllo della
Corte di cassazione, in quanto limitato all’eventuale omissione dell’esame
di un fatto decisivo contenuto nella sentenza impugnata. L’esigenza della
radicale modificazione della norma di cui all’art. 360 n.5 c.p.c. nasce, come
è noto, dall’attuale formulazione della disposizione la cui ampiezza è stata
capace di determinare non infrequenti sconfinamenti del giudizio di legittimità
nell'area di quello di fatto.
E’ noto, infatti, che, specie attraverso i canoni dell’insufficienza e
contraddittorietà della motivazione, è risultato agevole investire il giudice
di legittimità di un riesame degli elementi fattuali della controversia
chiedendo una diversa ricostruzione delle circostanze già esaminate in sede di
merito.
Il governo ha quindi ritenuto preferibile rifarsi alla formula già contenuta
nel codice di procedura civile del 1942, prima della riforma del 1950, e poi
indicata dalla cosiddetta "Bozza Brancaccio-Sgroi" curata dalla Corte di
cassazione e dalla Procura generale e trasmessa al CSM nel marzo del 1988. Su
tale formulazione della norma, sostanzialmente contenuta anche nel disegno di
legge governativo del 1987 avente ad oggetto «provvedimenti urgenti per
l’accelerazione dei tempi della giustizia civile», si era sviluppato un
ampio dibattito da parte di molti studiosi del processo civile. In verità in
precedenza la Commissione Liebman, insediata dal Ministro della giustizia per
elaborare le proposte di intervento sul codice di procedura civile, aveva
proposto l’integrale cancellazione del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. proprio per
marcare ancor più incisivamente i compiti esclusivi della Suprema Corte nel
giudizio di legittimità.
Tuttavia, non si è scelta una strada così radicale, sebbene autorevolmente
sostenuta da più parti, in favore di un controllo di legittimità affidato alla
Corte di cassazione sulla sentenza caratterizzato, in modo chiaro ed inequivoco,
dall'esistenza, nella motivazione censurabile, di un vuoto obiettivo, escludendo
la possibilità per la Corte di sostituire le proprie valutazioni di fatto a
quelle di competenza del giudice del merito.
Tale opzione è senz’altro condivisibile laddove si propone come obiettivo
principale il ripristino per la Corte di Cassazione della funzione principale di
riesame dei profili di legittimità della sentenza, senza dover costringere la
Corte ad affrontare la ricostruzione dei fatti e concentrando così
l’attenzione sui profili di diritto coinvolti nella controversia.
In tal modo si intende evitare l'abuso dei ricorsi per cassazione basati sul
vizio di motivazione non strettamente necessitati dai precetti costituzionali,
favorendo la generale funzione nomofilattica della Suprema Corte di cassazione,
per agevolare, nel contempo, il raggiungimento dell’obiettivo di ridurre la
durata complessiva dei processi contenendola nei termini ragionevoli previsti
dall’art. 111 Cost.
Parimenti va accolta con favore la modifica normativa di cui ai commi 4 e 5 del
nuovo art. 348 ter c.p.c. in base alla quale il ricorso per cassazione, avente
ad oggetto una sentenza d’appello che abbia confermato la decisione di primo
grado ovvero quando l’inammissibilità dell’appello sia fondata sulle stesse
ragioni inerenti a questioni di fatto poste a base della decisione impugnata,
può essere proposto per i motivi di cui all’art. 360 c.p.c. con esclusione
del motivo di cui al n. 5 della stessa norma.
Anche in tale caso la misura intende favorire il consolidamento degli effetti
giuridici suggellati in una doppia pronuncia basata su motivi conformi,
escludendo così la possibilità di rimettere in discussione, anche solo
indirettamente, la ricostruzione dei fatti compiuta dai giudici di merito.
Lo scopo dell’intervento normativo va ancor più nella condivisibile direzione
di affidare alla Corte di cassazione principalmente il ruolo di giudice di
legittimità cui è riconosciuto il sindacato sulla violazione di legge
dall’art. 111 della Costituzione.
4) Gli altri possibili strumenti di intervento.
In sostanza, può dirsi che in tutti gli ordinamenti sono previsti gli strumenti
finalizzati a limitare l’accesso ai gradi di impugnazione, al fine di
selezionare le domande effettivamente meritevoli di considerazione, e quindi
sfoltendo il contenzioso da iniziative strumentali, opportunistiche o comunque
non rispondenti alle esigenze di un sistema di giustizia improntato a
tempestività, effettività ed efficienza. Tra di essi vi è in primo luogo la
preventiva valutazione di ammissibilità della domanda in concreto, secondo un
giudizio di merito che consideri la correttezza della decisione resa nel grado
precedente, valutando la necessità di correzione. Alternativamente può essere
perseguito l’obbiettivo della limitazione a priori, in via generale ed
astratta, delle ragioni per cui essa può essere impugnata, limitandone i casi,
operando quindi sull’oggetto della cognizione nei gradi di giudizio successivi
al primo.
La prima modalità è maggiormente indirizzata al perseguimento della giustizia
della soluzione del caso concreto, e quindi della effettiva soddisfazione del
diritto, nell’interesse delle parti coinvolte.
La seconda corrisponde piuttosto alle esigenze generali dell’ordinamento di
uniformità e prevedibilità delle procedure e delle pronunce, offrendo un
sistema che si preoccupi di riformare le sentenze che, a prescindere dalle
conclusioni raggiunte nel caso concreto, non siano in sintonia con le regole che
dovrebbero governare il metodo e l’applicazione della legge.
A tale ultima istanza è ispirata, nelle originarie intenzioni del legislatore
italiano, il giudizio di Cassazione che, nel riferirsi alla legittimità del
procedimento e della decisione, dovrebbe essere limitato ai vizi relativi allo
svolgimento del processo, ed alla interpretazione del diritto, in sintonia con
il ruolo di nomofiliachia attribuito alla Suprema Corte. Il fallimento di questo
obbiettivo, che ha visto esplodere il contenzioso in Cassazione è originato,
come si è visto, dalla pratica del riesame anche del merito della controversia,
attraverso la valvola del controllo della motivazione.
Nel sistema italiano è stato previsto anche un filtro di ammissibilità del
ricorso per cassazione, che non ha avuto esiti uniformi nelle varie sezioni.
Ed infatti, con la legge n. 69/09 è stato introdotto un procedimento per la
decisione sull’inammissibilità del ricorso per cassazione e per la decisione
in camera di consiglio previsto dall’art. 380 bis c.p.c.
Lo strumento prevede un preventivo esame sui requisiti di ammissibilità dei
ricorsi che viene svolto presso la sesta sezione della cassazione civile la
quale viene distinta in sottosezioni attribuite presso ogni sezione per
l’esame preliminare dei ricorsi e la definizione di quelli da trattare in
camera di consiglio laddove si rinvengano motivi di inammissibilità.
L’analisi dei dati statistici dal 2009 ad oggi dimostra che la sesta sezione
ha esaminato complessivamente 24.431 ricorsi dei quali 12.101 (pari al 49,54%)
sono stati da essa trattenuti ai fini della decisione in camera di consiglio,
mentre 12.330 (pari al 50, 46%) sono stati trasmessi alle sezioni ordinarie ai
fini della trattazione in udienza pubblica.
La disaggregazione del dato dimostra che presso la sottosezione della prima
sezionecivile sono stati destinati alla sesta sezione il 68,95% dei ricorsi
mentre solo il 31,05 % è stato inviato alla udienza pubblica, presso la
sottosezione della seconda sezione il 56,21% è stato trattenuto in sesta
sezione ed il 43,79% inviato all’udienza pubblica, presso la sottosezione
della terza sezione il 55,39% dei ricorsi è stato destinato alla sesta per la
camera di consiglio mentre il 44,61% è stato inviato in udienza pubblica,
presso la sottosezione della sezione lavoro il 34,51% è stato trattenuto in
camera di consiglio per prospettata inammissibilità mentre il 65,49% è stato
inviato in udienza pubblica ed infine presso la sottosezione dellasezione
tributaria il 39,29% è stato trattenuto in sesta mentre il 61,71% è stato
inviato all’udienza pubblica.
I dati così proposti dimostrano che l’efficacia deflattiva dello strumento
non è stata omogenea e ciò dipende in gran parte dalla natura del contenzioso
attribuito alle varie sezioni civili della Corte di cassazione distinto per
materia ed anche dalla capacità che hanno avuto i vari dirigenti delle sezioni
di investire sulla nuova opportunità.
Complessivamente, comunque, si può affermare che, non potendosi pretendere un
ulteriore aggravio dell’impegno dei vari collegi cui è affidato il preventivo
esame di ammissibilità, il meccanismo offre una valida occasione per ridurre la
capacità espansiva del contenzioso civile in cassazione.
Alternativamente è già stata autorevolmente prospettata la diversa soluzione
della delimitazione rigorosa dell’oggetto del giudizio in Appello e
Cassazione.
Si potrebbe così restituire centralità al giudizio di primo grado, con effetto
radicalmente deflativo delle impugnazioni, prevedendo che la sentenza sia
impugnabile in appello solo per motivi specifici, corrispondenti a vizi
tassativi.
Tra di essi, oltre alle violazioni di legge, potrebbe comprendersi la revisione
della motivazione, che comunque consente di correggere anche gli errori
nell’interpretazione e la qualificazione del fatto.
Si dovrebbe, pertanto, modulare la proposizione dei motivi di appello civili
sulla falsariga dei motivi per cassazione, per realizzare un giudizio di natura
impugnatoria così da evitare una nuova integrale valutazione sugli stessi atti
ed indirizzarlo su più precise contestazioni della sentenza, così come accade
nella gran parte dei paesi europei.
Tale sistema, oltre ad avere un immediato effetto deflattivo, sarebbe inoltre
utile a promuovere l’esigenza di stabilità delle decisioni e di uniforme
applicazione del diritto oggettivo e, conseguentemente, di accelerazione e di
prevedibilità della giurisprudenza
L’eventuale giudizio di cassazione andrebbe, quindi, limitato alla sola
denunzia di violazione di legge, conformemente alla previsione dell’art. 111
della Costituzione, sottraendo al sindacato di legittimità il vizio relativo
alla motivazione, così come accade in tutti i più significativi sistemi
europei.
Tale disegno è già stato sostenuto dal CSM nelle risoluzioni del 22 febbraio
2012 e del 17 maggio 2012 in occasione dell’espressione dei pareri
rispettivamente resi sul tribunale delle imprese e sulla riforma del processo
del lavoro, inoltre le linee di un siffatto intervento riformatore sono state
autorevolmente affermate nella Relazione del Primo Presidente della Corte di
Cassazione per l’Inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2012.
Il sistema potrebbe del resto orientarsi ad introdurre entrambi i metodi di
filtro, prevedendo cioè limitazioni di oggetto della nuova valutazione, nonché
un filtro preliminare di ammissibilità che permetta, con procedura snella e
semplificata, di evitare che le impugnazioni non corrispondenti al modello
legale pervengano alla fase della decisione, più impegnativa proceduralmente.
Il filtro, naturalmente può essere relativo alla mera valutazione
dell’oggetto della contestazione, oppure estendersi anche al giudizio di
merito sulla prognosi di accoglimento, e, quindi, limitarsi a scartare i ricorsi
che non attengano a profili sindacabili della sentenza, oppure riferirsi anche
ai ricorsi che, pur rispettosi dei prescritti criteri di legge, siano ritenuti
manifestamente infondati.
Art. 55 (Modifiche alla legge Pinto)
L’art. 55 del decreto legge oggetto di conversione interviene sulla legge 24
marzo 2001 n. 89, apportando significative modifiche alla disciplina sostanziale
e processuale, dei procedimenti relativi alle domande di indennizzo per
violazione del termine di durata ragionevole del processo civile e penale »“
cd. legge Pinto.
L’intervento è animato dagli obbiettivi paralleli di razionalizzare il
procedimento giurisdizionale presso la Corte d’Appello e di contenere la spesa
pubblica collegata agli indennizzi che ne derivano .
Le due esigenze sono evidentemente strettamente collegate considerando che, come
si è già rilevato nei paragrafi relativi alla funzionalità delle Corti
d’Appello, la scarsezza delle risorse disponibili e le condizioni di
sovraccarico di contenzioso »“ in parte dipendente proprio dal proliferare
delle domande di accertamento della responsabilità dello Stato per
irragionevole durata dei processi »“ fanno sì che anche i ricorsi ai sensi
della legge n. 89 del 2001 non siano definiti in tempi compatibili con i
principi e le regole contenute nell’art. 6 della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo, e finiscano per generare a loro volta ulteriori richieste
di indennizzo per eccessiva durata del procedimento, in una sorta di circolo
vizioso che si autoriproduce potenzialmente senza fine.
Il risultato è, evidentemente, un processo di progressivo e costante drammatico
aggravamento del carico di lavoro delle Corti d’Appello, dei ritardi della
definizione dei procedimenti, e, in ultima analisi, la crescita esponenziale ed
inarrestabile degli oneri di spesa per l’erario che deve fare fronte agli
indennizzi liquidati.
Si è già detto, peraltro, di come, al di là della sua intima disfunzionalità
e del suo autonomo peso finanziario, il sistema di liquidazione a carico dello
Stato dei danni derivanti dal ritardo nella definizione dei procedimenti civili
e penali, ha finito in concreto per costituire un serio incentivo alla
litigiosità in tutti i settori del diritto, atteso che rende conveniente la
proposizione del contenzioso e la resistenza in giudizio in tutti i gradi
possibili, a prescindere dalla fondatezza della specifica pretesa fatta valere,
nella consapevolezza che l’incapacità del sistema giudiziario di produrre
definizioni tempestive, comunque, consentirà alle parti di lucrare un guadagno
patrimoniale.
Sarebbe stato dunque auspicabile un intervento volto in prima battuta alla
degiurisdizionalizzazione della materia, affidata ad una pubblica
amministrazione, e restituita al giudice solo in caso di opposizione al
provvedimento amministrativo, sollevata dal soggetto volta per volta
interessato.
Le norme di nuova introduzione intervengono su entrambi i fronti della
questione, correggendo sia le regole processuali che i presupposti sostanziali
della liquidazione.
Sotto il primo profilo, radicale è l’innovazione ipotizzata: infatti il
procedimento, che continua a svolgersi innanzi alle corti di appello, viene
modellato sulla falsariga del procedimento monitorio: esso è, infatti, reso
monocratico ed a contraddittorio posticipato ed eventuale, a seguito
dell’introduzione facoltativa della fase di opposizione.
La conseguente sostanziale razionalizzazione e semplificazione dell’iter
procedurale si coglie considerando alcuni possibili aspetti della riforma:
innanzitutto, il requisito motivatorio che deve connotare il decreto con cui si
provvede sulla domanda di equa riparazione può anche essere soddisfatto
mediante un rinvio per relationem all’istanza e agli atti posti a corredo
della stessa, al pari di quanto oggi si ritiene per il decreto ingiuntivo. In
altri termini, il giudice che emette il decreto di cui all’art. 3 legge 89/01,
siccome novellato dal decreto legge, accogliendo le ragioni del ricorrente ne
farà propri i motivi, per cui il riferimento a questi »“ portati a conoscenza
del soggetto nei cui confronti la domanda è proposta mediante la notificazione
sia del ricorso sia del pedissequo decreto »“ sarà sufficiente ad integrare
per relationem la motivazione del provvedimento. Quanto precede renderà poi
possibile in un prossimo futuro, anche sulla scorta dell’esperienza maturata
in ordine ai decreti ingiuntivi telematici, informatizzare integralmente la
procedura, assicurando una risposta giudiziaria ancora più immediata.
Condivisibile è l’opzione di rendere l’istanza non più proponibile
allorché la stessa sia stata rigettata, residuando in tal caso quale unico
rimedio l’eventuale opposizione di cui all’art. 5 ter.
Utile al fine di evitare un abusivo ricorso al procedimento di cui alla legge
89/01 è la sanzione processuale prevista dall’art. 5 quater. Essa, però, per
essere realisticamente efficace deve essere formulata in modo da non lasciare
nessuna discrezionalità in merito al giudice. Eventualmente, può altresì
ipotizzarsi una sua ulteriore graduazione, mediante un possibile aumento del
minimo per il caso in cui la sanzione sia emessa a seguito della »“ eventuale
»“ fase di opposizione.
Sotto il profilo sostanziale il legislatore ha proceduto a normare un saldo
approdo giurisprudenziale quanto alla determinazione concreta della ragionevole
durata del giudizio. Al riguardo, infatti, già da tempo la giurisprudenza
nazionale si è uniformata a quella della Cedu, e conseguentemente ha
determinato in tre anni la ragionevole durata del giudizio di primo grado, in
due anni quella del giudizio di appello ed in un anno quella del giudizio di
legittimità. E’ probabile che sia opportuna una migliore specificazione dei
tempi occorrenti per la definizione del procedimento esecutivo e fallimentare, a
volte non dipendenti dall’ufficio giudiziario: come nel caso in cui non si
riesca a procedere alla vendita dopo il primo incanto oppure nell’ipotesi in
cui il procedimento ex art. 612 c.p.c. rimanga fermo per effetto del mancato
rilascio dei titoli abilitativi ad opera dell’ente territoriale ovvero nei
casi di procedure fallimentari complesse cui si intrecciano revocatorie e
giudizi che coinvolgono il fallimento.
Dunque, sarebbe più confacente alla realtà concreta ed alla comune esperienza
giudiziaria prevedere, per il processo esecutivo e fallimentare, in luogo di
un’aprioristica e generale definizione temporale del giudizio, una normativa
dettagliata che determini la durata complessiva delle singole fasi
endoprocedimentali che li caratterizzano.
Preme evidenziare che una lettura combinata della nuova disposizione con
l’art. 81 bisdisp. att. c.p.c., per come recentemente novellato, potrebbe
indurre a ritenere che il calendario del processo che il giudice, sentite le
parti, è tenuto a stilare debba essere contenuto nei termini sopra indicati.
Tale evenienza va sicuramente scongiurata, eventualmente con un intervento
chiarificatore del legislatore in tal senso. Una diversa lettura inevitabilmente
creerebbe problemi di oggettiva praticabilità della fattispecie, soprattutto
negli uffici particolarmente oberati di carichi di lavoro.
Appare in ogni caso condivisibile la scelta di delineare talune ipotesi in cui
non è riconosciuto alcun indennizzo: si tratta di casi in cui vi è stato o un
abuso del processo, ovvero un abuso delle condotte processuali.
Un contributo di chiarezza può però essere atteso in sede di conversione al
fine di affermare o meno la legittimazione dei singoli condomini ad agire per il
risarcimento dei danni per la violazione del termine di ragionevole durata di un
processo di cui sia stato parte un condominio.
Del pari appare necessario meglio puntualizzare la computabilità o meno dei
rinvii chiesti dalle parti per la pendenza di trattative, tanto più nel caso
in cui le trattative siano in parte andate a buon fine.
L’art. 55 modifica integralmente la disciplina della legge 24 marzo 2001, n.
89 in tema di equa riparazione e, sostituendone l’art. 5 con il nuovo 4 comma,
riproduce sostanzialmente la precedente disposizione secondo cui «Il decreto
che accoglie la domanda è altresì comunicato al procuratore generale della
Corte dei conti, ai fini dell’eventuale avvio del procedimento di
responsabilità, nonché ai titolari dell’azione disciplinare dei dipendenti
pubblici comunque interessati dal procedimento».
Sul punto si osserva che il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione,
titolare dell’azione disciplinare obbligatoria nei confronti dei magistrati,
più volte negli ultimi anni ha evidenziato, anche in occasione
dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, il sempre maggior numero di
decreti di condanna per violazione del termine ragionevole del processo che
viene trasmesso al proprio ufficio. Per ciascuno di questi decreti la Procura
Generale è obbligata a svolgere accertamenti preliminari che si concludono con
richieste di archiviazione per l’oggettiva difficoltà di individuare un unico
responsabile della violazione a distanza di tanti anni. Non solo, ma spesso gli
accertamenti evidenziano responsabilità ascrivibili in tesi a magistrati già
cessati dall’appartenenza all’ordine giudiziario per svariate ragioni
(pensionamento, morte, dimissioni) ovvero a magistrati onorari o ancora a
magistrati che per lo stesso periodo sono già stati oggetto di procedimento
disciplinare per gli stessi fatti.
La disciplina del 2001, inoltre, si confrontava con un sistema di
responsabilità disciplinare non tipizzato e facoltativo, mentre »“ come è
noto »“ l’attuale sistema prevede espressamente tra gli illeciti
disciplinari, nell’esercizio delle funzioni, molte fattispecie che assumono
diretta rilevanza sulla violazione del principio della ragionevole durata del
processo: (art. 2 lett. q) reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel
compimento degli atti; (art. 2, lett. dd) la responsabilità dei dirigenti per
omessa denuncia dei fatti di possibile rilevanza disciplinare).
In conclusione può, quindi, affermarsi che la comunicazione del decreto
costituisce una inutile reiterazione di notizie di possibile rilevanza
disciplinare ovvero spesso si rivela come denuncia non circostanziata e priva di
rilevanza disciplinare (art. 16, 5 co. bis).
Si propone, pertanto, che la comunicazione di cui al 4 comma dell’art. 5 della
legge n. 89/2001, così come modificato dal provvedimento legislativo in esame,
venga limitata solo alla Procura Generale della Corte dei Conti ovvero ai
titolari dell’azione disciplinare dei dipendenti pubblici diversi dai
magistrati.
Art. 56. Modifiche alla Scuola della magistratura.
L’art. 56 del D.L. 83 2012 introduce alcune innovazioni al decreto legislativo
30 gennaio 2006, n. 26, e successive modificazioni, concernente l’istituzione
della Scuola superiore della Magistratura.
In particolare sostituisce all’articolo 1 il comma 5, che, a seguito delle
modifiche apportate dall’art. 3 della legge 30 luglio 2077 n. 111, prevedeva
l’individuazione di tre sedi operative della scuola, di cui una destinata alle
riunioni del comitato direttivo preposto alle attività di direzione e
coordinamento delle sedi.
Il nuovo testo della norma stabilisce che «Con decreto del Ministro della
giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sono
individuate fino a un massimo di tre sedi della Scuola. Con il medesimo decreto
è individuata la sede della Scuola in cui si riunisce il Comitato direttivo».
L’innovazione, al di là della sede effettivamente scelta, deve essere
salutata con favore in quanto corrispondente agli auspici più volte formulati
dal Consiglio Superiore, tesi al perseguimento di un obbiettivo di maggiore
semplificazione, economicità e coerenza del funzionamento dell’istituzione
creata con la riforma del 2006.
Essa consente infatti che le sedi in cui si svolgeranno le attività di
formazione siano ridotte di numero, evitando i rilevantissimi costi, materiali
ed in termini di risorse umane, necessari per garantire la operatività di tre
diversi presidi territoriali.
E ciò tanto più ove si consideri il senso della funzione attribuito
all’ente.
La formazione professionale, iniziale e continuativa periodica, della
magistratura togata ed onoraria costituisce fondamentale patrimonio culturale,
di cui il Consiglio Superiore della Magistratura, nell’ambito delle sue
attribuzioni di governo autonomo, si è fino ad ora fatto carico in via
esclusiva con il massimo impegno, consapevole dell’estremo rilievo che la
competenza e la qualità professionale dei magistrati riveste sotto il profilo
dell’attuazione dei principi costituzionali di autonomia ed indipendenza della
giurisdizione, nonché, in ultima analisi, della legittimazione stessa di cui
ciascun magistrato deve godere nell’ordinamento democratico.
La previsione di tre diverse sedi di esercizio della scuola, oltre ai rilevanti
costi organizzativi di cui si è accennato, ha introdotto il rischio di
frammentazione, su base geografica, di un settore di attività che per sua
intima natura deve essere unitario ed omogeneo, responsabile delle aspettative
di verifica e promozione della professionalità di tutti i magistrati allo
stesso modo, non potendosi ammettere elaborazioni separate, né distinzioni, dal
punto di vista della adeguatezza professionale, su base territoriale.
Allo stesso modo non può sottacersi il rischio che si creino, attraverso la
limitazione territoriale del confronto e del dibattito interno alla
magistratura, soluzioni interpretative autonome e separate, che finiscano per
differenziare, su base geografica, le forme e lo stesso contenuto della
risposta giurisdizionale offerta ai cittadini.
La concentrazione di tutte le attività in un’unica sede, che il Ministero
della Giustizia ha la possibilità di determinare, rappresenta quindi una
novità, permettendo di sviluppare un percorso formativo coerente ed unitario
rivolto in termini coincidenti a tutti i magistrati. Essa garantisce peraltro,
con la creazione di occasioni di confronto ed interlocuzione tra coloro che
esercitano l’attività giurisdizionale in tutte le sedi del Paese,
un’opportunità di confronto ed omogeneizzazione delle pratiche.
Merita, quindi, condivisione una modifica che rimetta una valutazione conclusiva
sul numero delle sedi solo dopo una prima fase di attuazione del nuovo modello
di formazione.
L’art. 56 prosegue incidendo sull’art. 6 del medesimo testo di legge di
istituzione della Scuola della Magistratura, che disciplina la nomina dei
componenti del Comitato direttivo.
Il testo fino ad ora in vigore del comma 2 prevedeva che i magistrati ancora in
servizio nominati al Comitato direttivo «sono collocati fuori dal ruolo
organico della magistratura per tutta la durata dell’incarico» .
Tale previsione discendeva dall’intensità dell’impegno quantitativo e
qualitativo richiesto dall’incarico descritto all’art. 2 del medesimo
decreto legislativo, che attribuisce al comitato direttivo il compito di
adottare e modificare lo statuto ed i regolamenti interni della scuola, di
tenere l’albo dei docenti, di adottare e modificare il programma annuale
dell’attività didattica, di approvare una relazione annuale, di nominare i
docenti di ciascuna singola sessione formativa e ammettere i partecipanti, di
vigilare sul corretto andamento dell’istituzione, di approvare il bilancio di
previsione ed il bilancio consultivo.
Ora, come si evince dalla sommaria elencazione che precede, si tratta di
incombenze amministrative di grande articolazione e complessità operativa, che
presuppongono un’attenzione ininterrotta all’elaborazione didattica.
La determinazione di radicale incompatibilità dell’esercizio di funzioni
giudiziarie con la nomina a componente del comitato direttivo della scuola è
messa in discussione dal nuovo intervento legislativo che aggiunge al comma 2
dell’articolo 6 citato sopra, in fine, le seguenti parole «ovvero, a loro
richiesta, possono usufruire di un esonero parziale dall’attività
giurisdizionale nella misura determinata dal Consiglio superiore della
magistratura» .
Si introduce, così la possibilità che il magistrato componente del Comitato
direttivo continui ad esercitare le proprie funzioni giurisdizionali, in tutto o
in parte, e si stabilisce che ciò possa accadere a sua richiesta.
La disposizione rischia di frustrare l’obiettivo di perseguire la massima
funzionalità quantitativa e qualitativa nell’assolvimento dei delicati ed
impegnativi compiti affidati alla scuola della magistratura nonché
l’efficienza dell’ufficio giudiziario nel quale l’assolvimento delle
funzioni di giustizia sia significativamente condizionato dal diverso impegno
didattico.
Di contro, non può sottacersi che la scelta si pone in sintonia con
l’esigenza di assicurare che i magistrati siano destinati principalmente allo
svolgimento delle funzioni giurisdizionali.
Al di là del giudizio sull’opportunità della nuova soluzione normativa in
sé, desta perplessità il meccanismo procedimentale cui il legislatore affida
la concreta attuazione dell’esonero solo parziale.
In particolare appare distonica rispetto al sistema la scelta di far dipendere
l’eventualità di esonerare solo parzialmente i magistrati nominati al
Comitato direttivo dalla loro richiesta.
Tale disposizione, infatti, finisce per affidare al singolo interessato la
decisione in ordine alla integralità della sottrazione alle funzioni
giudiziarie, residuando al CSM solo la quantificazione dell’esonero parziale,
se richiesto. Cosicché, se il magistrato nulla chiede, avrà diritto
all’esonero totale per legge.
Ciò appare in primo luogo irragionevole nella sostanza: è evidente che, in
tutti i settori, la decisione di sottrarre un magistrato ai propri compiti
istituzionali per assegnarlo a funzioni diverse dipende da una valutazione
effettuata in via generale ed astratta dalla legge o dalla normativa secondaria
consiliare, oppure dall’organo di governo autonomo nel caso concreto, sulla
base dell’impegno che le diverse funzioni prevedibilmente richiedano.
La valutazione di bilanciamento tra le esigenze delle diverse sfere di possibile
impegno del magistrato dovrebbe essere affidato all’organo di governo del
settore, sulla base della considerazione degli interessi pubblici in concreto
rilevanti.
D’altra parte, sotto il profilo formale, tale soluzione normativa può
suscitare qualche perplessità rispetto alle prerogative costituzionali del
Consiglio Superiore della Magistratura.
Da ultimo, la previsione sembra porsi in contrasto con la norma dell’art. 9,
d.lg. n. 26/2006 che prevede: «Salva l’attività di studio e di ricerca,
l’ufficio di componente del comitato direttivo è incompatibile con qualsiasi
carica pubblica elettiva o attività di componente di organi di controllo di
enti pubblici e privati».
Art. 33 (revisione della legge fallimentare).
Il decreto in commento interviene sulla legge n. 267/1942 (legge fallimentare),
apportando alcune significative modifiche all’istituto del concordato
preventivo e dell’accordo sulla ristrutturazione dei crediti, nell’ottica di
migliorare l'efficienza dei procedimenti di composizione delle crisi d'impresa.
Sul modello del «Chapter 11» della legge fallimentare americanaè previsto
che il debitore possa accedere alle protezioni previste della legge fallimentare
sulla base della mera presentazione della domanda di concordato preventivo,
riservandosi di presentare la proposta, il piano e ladocumentazione relativi
alla richiesta entro un termine che viene deciso dal giudice, compreso fra 60 e
120 giorni e prorogabile, in presenza di giustificati motivi, per un massimo di
altri 60 giorni (art. 161 comma 6 del nuovo testo della legge fallimentare).
Analoga possibilità è prevista per l’omologazione di un accordo
diristrutturazione dei debiti, stipulato con i creditori rappresentanti almeno
il sessanta per cento dei crediti (art. 182 bis).
A seguito del deposito del ricorso, l’imprenditore può compiere gli atti
diordinaria amministrazione, mentre per gli atti urgenti di straordinaria
amministrazione è richiesta autorizzazione del tribunale, il quale può
assumere sommarie informazioni.
Non sono soggetti all’azione revocatoria gli atti, i pagamenti e le garanzie
legalmente posti in essere dopo il deposito del ricorso per l’ammissione al
concordato (art. 67 comma 3 lettera e del nuovo testo della legge fallimentare);
pertanto anche gli atti successivi al mero deposito del ricorso di ammissione (e
non più soltanto quelli compiuti in esecuzione del concordato preventivo)
vengono sottratti all’azione revocatoria. Inoltre, a seguito della
pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese e fino al momento in cui il
decreto di omologazione del concordato preventivo diventa definitivo, i
creditori per titolo o causa anteriore non possono, sotto pena di nullità,
iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore e
leipoteche giudiziali iscritte nei 90 giorni che precedono la pubblicazione del
ricorso sono inefficaci rispetto ai creditori anteriori al concordato.
Già da questa sommaria descrizione dell’intervento normativo emerge
l’intento del legislatore di realizzare una anticipazione dei tipici effetti
conseguenti all’attivazione delle procedure concorsuali, ossia l’inibizione
delle azioni esecutive e cautelari, nell’ottica di favorire la continuazione
dell’attività commerciali di imprese in stato di crisi e come tali aventi
accesso alla procedura di concordato preventivo ovvero alla stipula di accordi
di ristrutturazione. Come si legge nella relazione di accompagnamento,
«l’opzione di fondo che orienta l'intervento è quella di incentivare
l'impresa a denunciare per tempo la propria situazione di crisi, piuttosto che
quella di assoggettarla a misure di controllo esterno che la rilevino»; si
tratta di una impostazione senz’altro condivisibile nell’attuale congiuntura
economica, che però assume come riferimento delle esperienze ordinamentali
molto diverse dalla nostra e degli strumenti tecnici non del tutto coerenti
rispetto all’ispirazione della riforma.
Un giudizio ampiamente positivo, ad esempio, merita la nuova disciplina
dell’attestazione di veridicità dei dati aziendali e della fattibilità,
uniformata ed estesa aipiani attestati di risanamento del debito (nuovo testo
dell’art. 67 terzo comma l. fall.): da una parte si richiede l’attestazione
di veridicità dei dati aziendali e di fattibilità anche per i piani di
risanamento (mentre prima si richiedeva una dichiarazione di mera
«ragionevolezza») e si rende omogenea l’attività dell’attestatore nelle
tre ipotesi dei piani attestati, del concordato preventivo e degli accordi di
ristrutturazione, eliminando incertezze applicative e interpretative della
vecchia disciplina; dall’altra vengono precisati i requisiti di indipendenza
del professionista in maniera stringente, sia mediante la definizione del
concetto di «indipendenza», sia mediante la previsione di sanzioni penali
piuttosto severe per il nuovo delitto di «falso in attestazioni e
relazioni», previsto dal nuovo art. 236 bis della legge fallimentare, con le
aggravanti del danno per i creditori e dell’ingiusto profitto per sé od
altri.
La novella va apprezzata perché contribuisce ad assicurare una maggiore
trasparenza nelle operazioni in esame ed un miglior controllo da parte del
giudice.
Più in generale, fermo restando un giudizio complessivamente positivo sulla
nuova disciplina, possono essere svolte alcune considerazioni sugli aspetti più
problematici posti dalla novella, allo scopo di indicare alcuni possibili
correttivi.
Deve infatti considerarsi che, a fronte dell’ampliamento della tutela
preconcorsuale del debitore, si pone una corrispondente restrizione dei poteri
di tutela del credito dei singoli creditori, per cui il punto di equilibrio del
rapporto non può che essere dato dalla massimizzazione della razionalità della
decisione sul governo della crisi di impresa.
Mentre le singole iniziative dei creditori volte alla tutela di ciascuna
posizione isolatamente considerata introducono inevitabilmente un coefficiente
di irrazionalità nella gestione della crisi di impresa, un equilibrato governo
della decisione richiede un coordinamento delle iniziative dei creditori;
tuttavia qualora l’inibizione della iniziativa scoordinata dei creditori non
si dovesse accompagnare ad un razionale coordinamento, si avrebbe come risultato
un depotenziamento ingiustificato della tutela del credito.
Per queste ragioni sarebbe opportuno che la decisione sull’attivazione
dell’ombrello protettivo e sull’estensione di detta protezione fosse assunta
dal giudice in maniera discrezionale, previa valutazione delle variabili del
caso concreto; l’attuale formulazione dell’art. 161 comma 6 della legge
fallimentare, invece, prevede un vero e proprio automatismo, che non consente un
vaglio adeguato da parte del giudice, da calibrare sul singolo caso concreto e
rende quindi sostanzialmente rimessa alla scelta del debitore l’operatività
della protezione.
Altra criticità della normativa, rispetto alla condivisibile finalità sopra
descritta, è quella di non operare alcuna distinzione tra concordati di natura
liquidatoria e concordati cd. in continuità, essendo evidente che nella prima
ipotesi l’automatico sacrificio delle ragioni creditorie appare decisamente
meno giustificato; sarebbe perciò opportuno limitare la protezione alle sole
iniziative concordatarie finalizzate alla prosecuzione dell’attività di
impresa; inoltre sarebbe utile fissare alcuni essenziali criteri di
ammissibilità della istanza (quali almeno l’impostazione generale del piano e
la sua finalità liquidatoria o meno).
In mancanza di tali aggiustamenti della disciplina, si rischia un uso
strumentale - a soli fini dilatori - della nuova fattispecie da parte di imprese
già ampiamente insolventi e destinate a non più operare sul mercato; in altri
termini occorre evitare un irragionevole e ingiustificato incremento del ricorso
all’istituto del concordato preventivo, anche per le gravi ricadute che
potrebbero determinarsi sul piano organizzativo in seno agli uffici giudiziari,
con particolare riguardo al coordinamento di tale disciplina con quella delle
procedure prefallimentari già pendenti (di fatto congelabili per una durata
prorogabile addirittura per un semestre).
Tra le novità introdotte dal decreto in esame deve segnalarsi l’art. 182
quinquies, che detta disposizioni comuni ai concordati preventivi e agli accordi
di ristrutturazione del debito in tema di finanziamenti: secondo la nuova
disposizione della legge fallimentare, l’imprenditore può chiedere al
Tribunale (contestualmente al deposito della domanda di concordato o di omologa
ex art. 182 bis, primo o sesto comma) di essere autorizzato a «contrarre
finanziamenti»(anche «individuati soltanto per tipologia ed entità, e non
ancora oggetto di trattative»), che, se erogati, sono dichiarati
prededucibili. Tale autorizzazione può intervenire se il professionista
designato dal debitore, verificato «il complessivo fabbisogno finanziario
dell’impresa sino all’omologazione», attesta che tali finanziamenti sono
«funzionali alla migliore soddisfazione dei creditori».
Sul punto deve osservarsi che indubbiamente l’intervento autorizzatorio del
giudice rappresenta un importante momento di garanzia dei creditori, rispetto
alla possibilità di nuovi crediti prededucibili derivanti dalla concessione del
finanziamento; va però anche evidenziato che la disciplina non detta dei
criteri che forniscano condizioni e limiti sufficientemente specifici (anche con
riferimento al finanziatore) ai fini di un adeguato esercizio del potere
autorizzativo, per cui il tribunale rischia di essere chiamato a compiere degli
apprezzamenti che attengono alla sfera squisitamente finanziaria.
Per concludere deve segnalarsi una incongruenza riguardante la durata massima
stabilita per le procedure fallimentari, fissata indicando lo stesso termine
complessivo previsto per i giudizi civili (sei anni), senza tener conto della
circostanza che in molti casi il fallimento costituisce origine ed occasione di
giudizi civili, i quali impediscono la sua definizione, sicchè non ha senso
indicare lo stesso termine per la procedura concorsuale e per i processi da essa
derivati, che dovrebbero invece rappresentare delle cause di sospensione del
termine di conclusione della prima.
Il Consiglio è ben consapevole della situazione emergenziale in cui il Paese si
trova a vivere ed in cui le più alte istituzioni si trovano ad operare.
In queste condizioni il Consiglio, nel prendere atto che il Governo e per esso
il Ministro della Giustizia prospetta nel provvedimento legislativo
significative e rilevanti modifiche che incidono sulla disciplina del processo
civile su punti nevralgici e rilevanti, non può omettere di rilevare che si
tratta dell’ennesimo tentativo di porre rimedio a problemi «cronici» del
sistema processuale italiano. »
Osserva, altresì, che l’efficienza del giudizio civile ed il rispetto del
principio della ragionevole durata del processo è obiettivo che, in primo
luogo, pretende la stessa magistratura e che il Consiglio, nel profondo rispetto
dei ruoli, chiede che la ricostruzione del giudizio civile nei suoi aspetti
incidenti sull’organizzazione degli uffici e sulla concreta attività dei
Dirigenti e dei singoli magistrati venga posta in discussione con un preventivo
coinvolgimento del Consiglio Superiore.
Il presente parere viene trasmesso al Ministro della Giustizia ai sensi
Dell’art. 10 legge 24 marzo 1958 n. 195.»
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