APPUNTI PER L’ INTERVENTO AL III CONVEGNO DI STUDI VOLTERRANI DEL 29.9.2011 L’ ACCORDO DI RISTRUTTURAZIONE DEL DEBITO PER I SOGGETTI NON FALLIBILIAPPUNTI PER L’ INTERVENTO AL III° CONVEGNO DI STUDI VOLTERRANI DEL 29.9.2011
L’ ACCORDO DI RISTRUTTURAZIONE DEL DEBITO PER I SOGGETTI NON FALLIBILI AI SENSI DELLA LEGGE 3/2012
(Attualmente è alla Camera, all’esame della Commissione Giustizia, il d.d.l. n. 5117, d’iniziativa governativa, approvato dal Cons. Ministri il 9.3.2012, per la introduzione di una specifica procedura per la composizione della crisi da sovraindebitamento del consumatore e per la revisione della legge n. 3/2012).
La L. 27 gennaio 2012 n. 3, recante "disposizioni in ma¬teria di usura e di estorsione, nonché di composizio¬ne delle crisi da sovra-indebitarnento", ha introdotto la possibilità per il debitore “non assoggettabile alle procedure concorsuali” di conseguire, attraverso un accordo omologato dal Tribunale e la relativa esecuzione, l'effetto esdebitatorio che fino ad oggi era conseguibile solo da parte dell’ imprenditore sog¬getto alla legge fallimentare.
Si tratta di una misura di cui si discuteva da tempo e alla cui introduzione ha dato certo impulso la crisi economica come espressamente detto nella relazione di accompagnamento al decreto legge 212 del 22 dicembre 2012 che costituisce l’immediato precedente della l. n. 3. In effetti è indubbio che consentire ad un soggetto di superare la propria situazione di indebitamento, significa rimetterlo in gioco come soggetto del mercato.
Darò sinteticamente conto dei presupposti soggettivi ed oggettivi richiesti per la applicazione della procedura di composizione della crisi, dei profili procedurali (dalla definizione e presentazione del piano, alla conclusione e omologazione dell’ accordo, all’ esecuzione e all’ eventuale perdita di effetto dell’accordo), per poi soffermarmi sulla questione della natura dell’accordo e dell’ individuazione dei terzi “estranei”.
I requisiti soggettivi.
L'ambito di applicazione della normativa è definito con riferimento ai requisiti soggettivi dal primo comma dell’ art. 6 che parla di situazioni debitorie «non soggette né assoggettabili alle vigenti procedure concorsuali» (fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi).
L’art. 7, c.2, esclude coloro che abbiano già fatto ricorso alla procedura, nei precedenti tre anni.
Sotto il profilo soggettivo, dunque, tutti coloro che non sono imprenditori commerciali assoggettabili alla legge fallimentare, secondo l’art.1, c.2, l.fall., possono accedere alla procedura:
a) le persone fisiche che non esercitano un'attività d'impresa commerciale e secondo una tesi (F Macario, La nuova disciplina del sovraindebitamento e dell'accordo di ristrutturazione per i debitori non fallibili, I contratti , 2012, p. ) in questa categoria rientrano anche gli imprenditori individuali che, pur essendo in astratto assoggetta¬ti alle procedure concorsuali, intendano proporre un accordo ai creditori "personali", il cui credito non derivi dall'esercizio del¬l'attività d'impresa. La tesi non è da tutti condivisa essendovi chi sostiene il contrario -l’imprenditore fallibile non può mai accedere alla procedura anche se il suo indebitamento deriva da debiti personali- (v. A. Guitto, La nuova procedura per l’insolvenza del soggetto non fallibile: osservazioni in itinere, in Il Fallimento 2012, 21 ss, il quale alla nota 8 di p. 22 fa questi esempi: imprenditore individuale che si trovi in sovraindebitamento per debiti sorti da fideiussioni che non abbiano alcun riferimento all’impresa oppure per incapacità, dovuta a diminuzione del reddito o a aumento dei tassi di interesse, di ripagare un mutuo contratto per l’acquisto di una casa di abitazione).
b) gli imprenditori commerciali esclusi dal fallimento, in ragione dei requisiti dimensionali definiti dall’ art. 1, L. fall.;
c) pic¬coli imprenditori, ai sensi dell'art. 2083 c.c.;
d) gli imprenditori esercenti un'attività agricola, ai sensi dell'art. 2135 c.c. (nel disegno di legge di riforma a cui si è fatto riferimento questo è specificamente precisato ma già in base al diritto vigente l’ imprenditore agricolo può usufruire della procedura di composizione della crisi se si ritiene –v. in questo senso M. Fabiani, Procedimenti da sovraindebitamento, in il Corriere giuridico 4/2009, p. 451- che tra le procedure concorsuali non rientrano gli accordi di ristrutturazione del debito di cui all’ art. 182 bis l.fall, ai quali, con l’ entrata in vigore del decreto legge 6 luglio 2011, n.98 convertito dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, l’imprenditore agricolo può accedere);
e) gli enti non commerciali;
f) i soci di società di persone, assoggettabili al fallimen¬to della società in estensione, ai sensi dell'art. 147 L.f. Quanto a questo si nota che il socio illimitatamente responsabile non fallisce perché imprenditore fallibile ma perché illimitatamente responsabile per un soggetto fallibile (Sul punto, v. A. Guitto, La nuova procedura per l’insolvenza del soggetto non fallibile: osservazioni in itinere, in Il Fallimento 2012, 23, secondo cui proprio per evitare che i soci illimitatamente responsabili restino esclusi dalla procedura occorre pensare che “la definizione in negativo adottata dal legislatore debba essere circoscritta alle procedure concorsuali attivabili su iniziativa dello stesso debitore”).
Per l’ imprenditore che inizialmente non fallibile per ragioni dimensionali diviene invece poi fallibile, l’ art. 6, che parla di “situazioni non soggette e non assoggettabili” a fallimento (cioè che devono essere inizialmente e restare per tutto il tempo di esecuzione dell’accordo non soggette a fallimento), l’ eventuale dichiarazione di insolvenza travolge l'accordo (determinandone la risoluzione di diritto ex art. 12, comma 5) e la relativa procedura eventualmente in corso si blocca.
Requisiti oggettivi.
Il requisito oggettivo richiesto per accedere alla procedura è il sovraindebitamento, definito dall’art. 6 comma 2: a) situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte ed il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte; b) definitiva incapacità del debitore di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni.
La valutazione del presupposto spetta al giudice e si incentra essenzialmente sulla liquidabilità del patrimonio in termini tali da garantire l’adempimento del piano e spetta prima ancora ai creditori che devono decidere se dare il consenso o meno alla proposta.
Il perdurante squilibrio è una situazione che non coincide con l’insolvenza sia perché si tratta di situazione statica –ha riferimento al patrimonio non ai flussi finanziari- sia perché può anche consistere in una crisi che pur dovendo essere “perdurante” non necessariamente è irreversibile come l’insolvenza (“definitiva incapacità”) e può semmai essere uno stato anticipatorio della insolvenza. Il riferimento alla situazione statica sarebbe interamente giustificabile se si trattasse di debitore comune ma lo è meno in riferimento al debitore professionista e al debitore imprenditore (non fallibile) perché per chi esercita un’attività è rilevante una concezione dinamica di incapacità di pagare i debiti mediante la gestione dell’azienda.
Per lo “squilibrio tra le obbligazioni assunte ed il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte” occorre notare che:
deve essere uno squilibrio “perdurante” cioè non transitorio e non occasionale perché altrimenti ogni stato di difficoltà potrebbe consentire al debitore di avvalersi della procedura scaricando sui creditori i sacrifici (v. per questa considerazione riferita all’ art. 1 del decreto 212/2012, R. Crisaldi, Eccedenza di tipo perdurante e non momentanea, in Guida la diritto, n.3, 14 gennaio 2012, p. 32);
per “patrimonio prontamente liquidabile” alcuni intendono patrimonio di cui, in un dato contesto economico e di mercato, è probabile si possa ottenere in tempi brevi la conversione in denaro mentre altri, cercando di dare al termine “prontamente” un significato preciso, pensano che si debba avere riguardo al termine di 120 giorni della moratoria di cui all’art. 10, comma 3, perché dopo questo termine il debitore deve essere in grado di cominciare ad adempiere l’accordo eventualmente concluso. Esempi di beni certamente liquidabili in modo pronto: il denaro, contante o su conti correnti, gli assegni, i crediti scaduti o destinati a scadere a breve verso debitori solvibili, i titoli negoziabili sul mercato (azioni di società quotate in borsa, titoli del debito pubblico), a seconda della tipologia i prodotti finiti in magazzino. Esempi di beni per i quali la pronta liquidazione non è scontata ma deve essere attentamente valutata di caso in caso: gli immobili, le immobilizzazioni immateriali (marchi e brevetti) e materiali (macchinari), le materie prime o i prodotti non finiti, i titoli che non sono negoziabili sul mercato (quote di società di persone), le opere o gli oggetti d’arte o di antichità;
la legge menziona le sole obbligazioni “assunte” e il termine conduce, secondo una tesi (v.R. Grisaldi, in Guida al dir., 2012, fasc. 3, 32-36), ad escludere le obbligazioni extracontrattuali mentre, per altra e preferibile opinione (M. Ferro, Sovraindebitamento e usura, p. 64), lex dixit minus quam voluit.
Il contenuto del piano e la proposta.
Il debitore, con l’ausilio di un organismo di composizione della crisi (art. 15), deve definire un piano per poi formulare, sulla base di esso, ai creditori, la proposta di accordo (art. 7).
Per la definizione del contenuto del piano il debitore deve rivolgersi ad un organismo di composizione della crisi con sede nel circondario del tribunale competente, ossia il tribunale in cui il debitore ha la residenza o la sede. L’ organismo, ai sensi dell'art. l5, assume "ogni iniziativa funzionale alla predisposizione del piano di ristrutturazione, al raggiungimento dell'accordo e all'esecuzione di esso" e verifica i dati contenuti nella proposta e nei documenti allegati ed attesta la fattibilità del piano.
Il piano può avere un contenuto molto variegato: il nucleo è costituito da previsioni dilatorie anche a condizioni differenziate per ciascun creditore (art. 7, c.1: “il piano prevede le scadenze …”; art. 4, comma 4: “il piano può prevedere una moratoria fino ad un anno per il pagamento dei creditori estranei a condizione che il piano risulti idoneo ad assicurare il pagamento alla scadenza del nuovo termine e che la moratoria non riguardi i titolari di crediti impignorabili”; tra i crediti il cui pagamento può essere dilazionato rientrano anche i crediti privilegiati che l'art. 7, comma 1, stabilisce che debbano essere pagati integralmente. Per tali crediti anzi la proposta può pertanto avere solo carattere dilatorio) o esdebitatorie; il piano può prevedere un pagamento in denaro o mediante cessione dei propri beni o dei propri crediti presenti o futuri; può prevedere la dismissione dei beni o la loro liquidazione a mezzo di un fiduciario incaricato di pagare i creditori; può prevedere la costituzione di garanzie a favore dei creditori aderenti, può prevedere, che per i debitori-imprenditori, siano destinati all’ adempimento dell’ accordo i proventi dell’impresa che continua; se vi sono terzi garanti, la proposta dovrà esser sottoscritta anche da questi (art. 8, c. 3).
Come detto, il piano deve comunque prevedere il pagamento integrale dei creditori privilegiati, salvo loro rinuncia, anche parziale al privilegio: il riferimento letterale ai crediti privilegiati deve logicamente essere esteso in via interpretativa ai creditori garantiti da diritto di prelazione diverso dal privilegio.
In base ad una tesi, il creditore può cioè presentare un piano che preveda una falcidia dei privilegiati fermo restando che l’ accordo è condizionato al fatto che questi creditori rinuncino in parte al loro diritto di prelazione; la norma si riferirebbe a quelli tra i creditori privilegiati che hanno accettato la proposta e rinunciato al privilegio; non potrebbe riferirsi agli altri privilegiati, i privilegiati che non hanno accettato, perché questi sono pagati sempre per intero in quanto estranei (per questa tesi estranei sono tutti i creditori che non hanno accettato), senza che la presenza del privilegio rilevi in alcun modo.
In pratica, il creditore privilegiato rinunciante (che avrebbe interesse a rinunciare) sarebbe quello il cui credito è assistito da un privilegio di valore inferiore alla percentuale di soddisfacimento del credito garantita dal piano (Numericamente: credito di importo uguale a 100; privilegio di valore uguale a 30; piano che assicura il pagamento di 40).
Secondo una tesi diversa, occorre invece considerare che in tanto i privilegiati sono estranei, in quanto sono certamente soddisfatti per intero e sono certamente soddisfatti per intero quelli che hanno una garanzia di valore maggiore rispetto al valore del credito. I creditori che hanno una garanzia di valore inferiore al valore del credito hanno queste possibilità: se rinunciano al privilegio per la parte del credito eccedente il valore della garanzia, sono estranei per la parte del credito per la quale non abbiano rinunciato alla garanzia (perché per questa parte hanno la certezza di essere soddisfatti per intero tramite la liquidazione della garanzia) e sono invece vincolati dall’accordo, anche in mancanza di espressa accettazione, per la parte residua del credito; se invece non rinunciano alla garanzia, sono estranei interni per intero con conseguente assoggettamento alla falcidia prevista dall’ accordo.
Il piano può infine anche prevedere la distinzione dei creditori in classi (art. 7, c.1). Le classi non hanno altra funzione che quella di agevolare la formazione del consenso accumunando determinati creditori che il debitore propone di trattare nello stesso modo e possono essere formate dal debitore liberamente.
Il procedimento.
Il procedimento inizia con il deposito, da parte del debitore, della proposta di accordo nella cancelleria del tribunale ove risiede o ha sede.
Nulla si dice con riferimento allo spostamento di sede nell’imminenza della domanda; manca una norma analoga agli art. 9 e 161 L.F. che neutralizzano il trasferimento di sede nell’anno antecedente il ricorso; il cosiddetto forum shopping è però superabile utilizzando il criterio della non vincolatività di una sede meramente fittizia: la residenza e la sede quindi devono essere effettive.
La proposta ha la forma del ricorso.
Per il deposito non si richiede l’assistenza di un avvocato; l’assistenza è invece necessaria quando il contenzioso attivato implichi decisioni in grado di incidere su diritti soggettivi, come nel caso delle contestazioni sulla esecuzione dell’accordo sollevate da un creditore dinanzi al giudice (art. 13, c.2).
Unitamente al piano di ristrutturazione vanno depositati alcuni documenti (art. 9, c. 2):
A) l’elenco di tutti i creditori e dei relativi crediti. Appare opportuno che venga indicato quantomeno il titolo produttivo dell’obbligazione, la scadenza, gli interessi, l’ eventuale presenza di contestazioni e di pretese già avanzate, stragiudizialmente o giudizialmente (questa indicazione serve per consentire ai creditori di valutare la possibilità di tenuta del piano).
B) l’elenco dei beni del debitore, comprensivo sia dei beni di cui il debitore abbia già la disponibilità sia di ogni altra utilità suscettibile di tradursi in un valore di liquidazione, compresi i crediti futuri. L’elenco dei beni è un documento eventuale posto che la proposta può essere avanzata da un debitore privo di beni il quale si avvalga per l’attuazione del piano di un garante);
C) la lista degli atti di disposizione patrimoniale compiuti negli ultimi cinque anni dal debitore, elemento essenziale per escludere l’abuso dell’istituto da parte di creditori che si siano resi nullatenenti. Va osservato che il periodo di riferimento coincide con il termine quinquennale per l’esercizio dell’azione revocatoria ex art. 2901 c.c., nonché con il termine per l’azione di annullamento (art. 14).
La ricostruzione degli atti di disposizione può risultare problematica per gli imprenditori in presenza di molti atti di ridotto valore, e per i privati in presenza di atti di difficile documentazione, ma che l’Organismo deve attestare.
Probabilmente vanno indicati tutti gli atti che hanno comportato una sensibile diminuzione di valore o un rilevante cambiamento nella composizione del patrimonio del debitore, e sicuramente tutti gli atti che implichino una forma solenne, adottata in concreto o prevista dalla legge.
E’ dubbio che possano ricomprendersi nella norma i pagamenti, che costituiscono atti dovuti, e normalmente costituiscono il corrispettivo di una controprestazione.
D) la dichiarazione dei redditi degli ultimi tre anni (può mancare in caso di mancanza di redditi);
E) le scritture contabili dell’ultimo triennio, con attestazione di conformità all’originale, che presumibilmente può essere effettuata anche dell’OCC;
F) l’elenco delle spese correnti per il sostentamento del debitore e della sua famiglia;
G) l’attestazione sulla fattibilità del piano redatta dall’organismo di composizione della crisi che assiste il debitore.
Questi documenti per il caso di non imprenditore difficilmente sono in grado di fornire un quadro significativo ossia di dar conto di tutto il patrimonio e di tutte le obbligazioni; l’insufficienza può essere in parte colmata grazie alla facoltà (art. 18) degli Organismi di accedere a banche dati pubbliche.
A seguito del deposito della proposta, si apre, davanti al Tribunale, in composizione monocratica, una procedura di ammissione in due fasi.
Il Tribunale, in camera di consiglio e senza contradditorio, innanzi tutto verifica che sussistano i presupposti di cui all’art. 7 ivi inclusa la fattibilità del piano (per quanto emerge dalla relazione dell’ Organismo) e che sia stata depositata la documentazione di cui all’art. 9.
Se il ricorso non è corredato dalla documentazione richiesta dall’art. 9, posto che manca la previsione della concessione di un termine per integrare la domanda o la documentazione e che invece è previsto un provvedimento “immediato” si potrebbe essere indotti ad escludere la possibilità di assegnare al debitore un detto termine. Tuttavia l’istanza è sempre ripresentabile per cui, in nome del principio di economia processuale e del favor debitoris, è da ritenere che possa concedersi al debitore un termine per l’integrazione della documentazione; tanto più in considerazione della mancanza di effetti protettivi derivanti dal deposito del ricorso, e quindi della assenza di un pregiudizio per i creditori.
Se non vi sono i requisiti di cui all’ art. 7 o se manca definitivamente la documentazione richiesta dall’ art. 9, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
In entrambi i casi, il decreto di inammissibilità è reclamabile entro 10 giorni dalla comunicazione (art. 739 c.p.c.), davanti al collegio del quale non può far parte il giudice reclamato (art. 10 u.c.).
Nel solo di inammissibilità per ritenuta mancanza dei requisiti dell' art. 7, deve ritenersi che il provvedimento emesso in sede di reclamo sia suscettibile di ricorso in Cassazione, in quanto deci¬sorio e definitivo, mentre, nell' altro caso (mancanza di documenti), la domanda potrà essere sempre ripresentata, debitamente inte¬grata degli allegati.
La valutazione positiva della sussistenza dei requisiti dell’ art. 7 e dell’art. 9, può essere rivista in qualsiasi momento (art. 742 c.p.c.) anche tenuto conto del fatto che, in sede di omologa, quei presupposti saranno nuovamente oggetto di vaglio da parte del giudice, quanto meno per ciò che attie¬ne alla “idoneità [dell'accordo] ad assicurare il pa¬gamento dei creditori estranei" (I. Pagni, op.cit.).
Se il ricorso soddisfa i requisiti previsti dagli artt. 7 e 9, il giudice emette “immediatamente” un decreto con cui fissa un’ udienza (art. 10 comma 1) per la decisione, in camera di consiglio e nel contraddittorio di debitore e creditori, sulla ammissione del debitore alla procedura.
Il Giudice non ha un termine entro cui emettere il decreto di fissazione di udienza (la legge dice solo che deve farlo “immediatamente”) e neppure ha un termine (dal deposito della proposta) entro cui tenere l’udienza. Il Giudice deve, da un lato, procedere con particolare tempestività perché solo all’udienza (salvo che, come subito sarà detto, si ritenga applicabile l’art 669 sexies) può essere emesso il decreto che vieta l’inizio e la prosecuzione delle azioni esecutive mentre nel tempo tra la comunicazione del decreto e l’udienza i creditori che non intendono accettare la proposta possono affrettarsi ad aggredire il patrimonio del debitore, vanificandone l’iniziativa, dall’ altro lato, deve però garantire le esigenze assertive e difensive dei creditori, del debitore e di eventuali terzi interessati.
Proposta e decreto, con l'avvertimento dei provvedimenti che potranno essere adottati all'udienza per paralizzare le iniziative dei creditori e consentire la protezione temporanea del patrimo¬nio del debitore, vengono poi comunicati, ad opera dell' organismo di composizione della crisi (art. 17, c.3), ai creditori presso la residenza o la sede legale, mediante raccomandata con av¬viso di ricevimento, telefax, posta elet¬tronica certificata.
La proposta e decreto sono poi pubblicizzati secondo forme definite dal giudice in modo che ne vengano a conoscenza anche soggetti diversi dai creditori ma ugualmente toccati dagli effetti dell'accordo quali i fideiussori, i coobbligati e gli obbligati di regresso, che, per espressa previsione dell' art. 11, sono esclusi dall'effetto esdebitatorio, nonostante il debitore principale abbia convenuto di ridurre l'ammontare del debito, e si trovano così sicura¬mente esposti all'azione del creditore che non ven¬ga soddisfatto per l'intero.
All’ udienza, il giudice, ove non vi siano state iniziative o atti in frode ai creditori, pronuncia un decreto con cui vieta, per non oltre centoventi giorni, l’ inizio o la prosecuzione di azioni esecutive, vieta che siano disposti sequestri conservativi o acquisiti di diritti di prelazione da parte di creditori aventi titolo o causa anteriore; con il medesimo provvedimento fissa il termine entro il quale i creditori devono esprimere il loro consenso o dissenso rispetto alla proposta.
Nel medesimo periodo, le prescrizioni rimangono sospese e le decadenze non si verificano. Le procedure esecutive individuali possono essere sospese per una sola volta, anche in caso di successive proposte di accordo.
In base alla lettera dell’art. 10, l’inibitoria viene adottata e gli effetti protettivi possono prodursi solo dopo la instaurazione del contraddittorio.
Questo lascia aperta la possibilità di azioni esecutive individuali tra il deposito del ricorso e l’udienza.
Peraltro, avendo l’inibitoria natura cautelare (I. Pagni, op. cit.), si è sostenuto (S.F. Filocamo, L'ammissione e l'anticipazione degli effetti pro¬tettivi, in M. Ferro (a cura di), So¬vraindebitamento e usura. Commento della L. 27 gennaio 2012, n. 3 e del D.L. 22 dicembre 2011, n. 212, conv. in L. 17 febbraio 2012, n. 10, Milano, 2012, 154) che possa trovare impiego l’ art. 669 sexies c.p.c. consentendosi così di disporre l’ inibitoria con lo stesso decreto con cui viene data la comunicazione dell’ udienza. A seguire questa tesi, tuttavia, l’udienza dovrebbe in ogni caso essere tenuta entro il termine di 15 giorni; termine che potrebbe non essere sempre sufficiente a garantire il pieno esplicarsi del contraddittorio.
Per quanto concerne la portata del provvedimento preclusivo, merita sottolineare i seguenti aspetti:
- l’ inibitoria riguarda solo il sequestro conservativo e non le azioni cautelari in generale con la conseguenza che restano possibili il sequestro preventivo penale, il sequestro giudiziario, le azioni di nuova opera o di danno temuto, i provvedimenti d’urgenza;
- l’inibitoria riguarda solo i beni del debitore mentre non riguarda i beni di cui il debitore abbia il possesso o la detenzione ma che siano di terzi e pertanto l’inibitoria non preclude, ad esempio, l’azione di sfratto, rilascio, restituzione di cose detenute dal debitore in comodato o in leasing;
- il provvedimento inibitorio è riferito all’ acquisto di diritti di prelazione ma vanno esclusi i diritti acquisiti in attuazione del piano;
- l’inibitoria riguarda le azioni esecutive individuali ma non l’esecuzione concorsuale che resta invece esperibile non solo da parte di soggetti estranei all’accordo (esempio il PM o i titolari di crediti impignorabili) ma anche da parte dei creditori soggetti all’accordo e agli effetti protettivi;
- sotto il profilo soggettivo, l’inibitoria si riferisce ai “creditori aventi titolo o causa anteriore”, senza distinzione tra intranei e estranei, e senza specificazione del momento al quale l’anteriorità debba essere riportata. Per quest’ultimo aspetto l’”ancoraggio” potrebbe essere o al giorno del deposi¬to della proposta (come sembrerebbe argomentabile dal collegamento tra questa parte della disposizione e quella immediatamente precedente: “… sul patrimonio del debitore che ha presentato la proposta”) o al giorno del¬la pubblicità della stessa o al giorno di adozione del decreto di inibitoria (come pare preferibile essendo l’anteriorità correlata all’ inibitoria e questa prendendo effetto fino dal deposito del decreto);
- dal tenore letterale della legge, secondo cui non possono essere rilasciati diritti di prelazione a favore dei creditori per titolo o causa anteriore, deriva che invece possono essere rilasciati a favore di creditori che siano divenuti tali per aver concesso finanziamenti destinati a fornire la provvista per l’esecuzione del piano (Fabiani, op.cit.).
La conseguenza della violazione della inibitoria è la nullità (art. 10, c.3: “… sotto pena di nullità…”). Sicuramente tale effetto si verifica in relazione alle azioni esecutive iniziate da creditori anteriori ed ai sequestri conservativi disposti su domanda dei creditori anteriori dopo il decreto inibitorio.
Per le azioni esecutive già iniziate, la nullità può essere intesa come temporanea improseguibilità cioè come loro sospensione per 120 giorni; la sospensione delle procedure esecutive pendenti non è automatica e non viene disposta con il decreto inibitorio, ma richiede uno specifico provvedimento del giudice dell’esecuzione, eventualmente sollecitato dal debitore, il quale deve verificare che i creditori procedenti ed intervenuti con titolo esecutivo siano tutti soggetti al divieto che deriva dal decreto inibitori.
Quanto infine ai titoli di prelazione, dalla sanzione di nullità si è ricavato (PANZANI) che i titoli di prelazione restano invalidi ed inefficaci erga omnes anche in caso di insuccesso della procedura ma la conclusione pare per vero apodittica laddove si consideri che si tratta di nullità che colpisce la violazione di una misura cautelare la quale, se la procedura non ha successo, perde effetto definitivamente e retroattivamente.
L’ ultimo comma dell’art. 10 stabilisce che per entrambe le fasi della procedura di ammissione si applicano “in quanto compatibili”, le norme sul rito camerale (artt. 737 ss.).
Premesso che la trattazione è monocratica e non collegiale (come di regola ex art. 50 bis c.p.c.), le norme non compatibili sono: l’art. 738 c.p.c., c.1 e c.2; l’art. 739 c.p.c., c.1 e c.3, l’art. 740.
Quanto all’art. 741 (“I decreti acquistano efficacia quando sono decorsi i termini di cui agli articoli precedenti senza che sia stato proposto reclamo. Se vi sono ragioni d'urgenza, il giudice può tuttavia disporre che il decreto abbia efficacia immediata”), si può pensare che il decreto con cui all’udienza si dispone la moratoria deve produrre gli effetti da subito (come del resto avviene ex lege, ai sensi dell’art. 12, comma 3, per il decreto con cui viene omologato l’accordo) perché altrimenti fino alla scadenza del termine per il reclamo o fino all’esito del reclamo sarebbero ammissibili le azioni esecutive, ottenibili i sequestri e acquisibili diritti di prelazione, con pregiudizio per la realizzabilità del piano (I. Pagni, Procedimento. Provvedimenti cautelari ed esecutivi, in Il Fallimento 8/2012).
Quanto all’ art. 742 c.c., che prevede la modifica e la revoca in ogni tempo del decreto da parte del giudice che lo ha emesso, occorre distinguere a seconda che il provvedimento in questione sia o meno ricorribile in cassazione. La giurisprudenza infatti consente la revoca e la modifica unicamente quando il provve¬dimento camerale sia privo dei caratteri di deciso¬rietà e definitività e quindi quando si tratta di provvedimenti non suscettivi di ricorso in Cassazione.
Da quanto precede segue che il decreto che, ai sensi del primo comma dell’art. 10, decide dell'inammissibilità della proposta per difetto dei requisiti di cui all’art. 7, e quello che decide nello stesso senso in base al comma 3, non sono revocabili o modificabili ma (dopo il reclamo) è possibile il ricorso in Cassazione trattandosi di de¬creti evidentemente definitivi e decisori su diritti (il diritto del debitore ad avere accesso alla misura protettiva e all'avanzamento della procedura di composizione della crisi).
Il decreto che nega l’ammissibilità per difetto di documentazione non è revocabile non perché abbia carattere decisorio (e sia quindi ricorribile in Cassazione) - la domanda può essere infatti essere sempre ripresentata con corredo di tutta la documentazione- ma perché la revoca presuppone che si tratti di provvedimento ad effetti permanenti (il ché nella specie non è).
Il decreto che dispone l’ inibitoria è revocabile. Il decreto è altresì reclamabile ex art. 739 c.p.c.; la successiva ricorribilità in cassazione del provvedimento con emesso in sede di reclamo è esclusa posto che detto provvedimento ha natura cautelare ed è destinato ad essere assorbito dal successivo decreto di omologa o di rigetto dell’omologa oppure a perdere effetto a seguito del decorso dei centoventi giorni.
Il raggiungimento o non raggiungimento dell’ accordo. Entro il termine fissato dal giudice, i creditori devono esprimere il loro consenso alla proposta mediante dichiarazione nelle forme di cui all’art. 11, indirizzata all’ Organismo di composizione.
Il giudice, cui la legge lascia di determinare il termine per le adesioni, deve fissarlo in modo da evitare che si giunga al¬l' omologazione quando nel frattempo sia scaduto il termine di centoventi giorni di blocco delle azioni esecutive.
Se il consenso con la percentuale del 70% dei creditori non è raggiunto, l’Organismo deve darne comunicazione al giudice per un provvedimento di estinzione della procedura o, più precisamente, per un decreto di diniego di omologa. Si nota in proposito che l’ Organismo dà a tutti i creditori comunicazione solo dell’accordo e non del mancato raggiungimento dell’accordo dacché consegue che i creditori possono fare contestazioni avverso la relazione nella quale si dica che l’accordo non è stato raggiunto non in via preventiva ma solo mediante il reclamo contro il diniego dell’omologa.
Se l’accordo è raggiunto, l’Organismo (art. 12, c.1) trasmette a tutti i creditori una relazione con i consensi raggiunti e il testo dell’accordo. Nei dieci giorni successivi i creditori possono sollevare contestazioni: contestazioni sul computo delle adesioni, sulla pretermissione di crediti, sulla effettiva fattibilità del piano.
L’ Organismo quindi trasmette al giudice la relazione, le contestazioni ricevute, la attestazione definitiva sulla fattibilità del piano. La relazione definitiva sarà diversa da quella depositata insieme al piano solo nel caso di modifica del piano stesso o di modifica del giudizio sul piano da parte dell’ Organismo. Almeno nel primo caso si giustificano le perplessità di una dottrina (Guiotto, op. cit., p.27) per cui dovrebbe essere consentito ancora ai creditori di esprimersi.
Successivamente (art. 12, c.2), il giudice verifica la maggioranza, la idoneità del piano ad assicurare il pagamento degli estranei, risolve le contestazioni, omologa l’accordo e ne dispone la pubblicazione. Nella verifica il giudice valuta quanto detto dall’Organismo e, secondo un’opinione (Guiotto), valuta anche il merito dell’ accordo sotto il profilo della fattibilità fermo che invece non valuta l'opportunità cioè la convenienza dell’ accordo (I.Pagni, op.cit.). La verifica si svolge in camera di consiglio; il giudice può avvalersi dei poteri istruttori di cui all’art. 738 c.p.c. Non è prevista una udienza cosicché alcuni ritengono che il giudice decida senza previa instaurazione del contraddittorio; altri ritengono che quando vi sono contestazioni il contraddittorio debba essere assicurato.
Il provvedimento di omologa è suscettivo di reclamo (art.12, c.2) avanti al tribunale in composizione collegiale della quale non può far parte il giudice che ha emanato il provvedimento impugnato. Contro il provvedimento emesso dal Collegio deve ritenersi consentito il ricorso in Cassazione “perché dall'omologazione discendono non soltanto il divieto di azioni esecutive per un anno e l'affidamento della liquidazione ad un liquidatore o al fiduciario designato nell'accordo (ma salvo che per i beni pignorati la liquidazione può avvenire anche per atto del debitore), ma la nullità dei pagamenti e degli atti dispositivi di beni posti in essere in violazione dell'accordo o del piano ( art. 8, comma 4, D.L.). Ne deriva che il provvedimento ha carattere decisorio”(così M.FABIANI, La gestione del sovraindebitamento del debitore "non fallibile ... (d.l. 212/2011), cit.).
Anche il provvedimento di reiezione dell'omologazione é suscettibile di reclamo, come afferma espressamente l'art. 12, comma 2.
Il ricorso in Cassazione è stato ritenuto (Panzani) possibile nel caso in cui il Tribunale rigetti l’omologa per motivi diversi dalla mancato raggiungimento delle maggioranze previste dalla legge, perché in quest’ ultimo caso la reiterabilità della proposta di accordo impedisce di affermare il carattere decisorio del provvedimento.
Dalla data di omologa si producono gli effetti di cui all’ art. 10 comma 3 cioè il blocco delle azioni esecutive e dei sequestri conservativi e dei diritti di prelazione. Sebbene non sia previsto, deve ritenersi che di producano anche gli effetti di cui al comma 4 dell’art. 10.
La legge come all’art. 10 dice che gli effetti di cui al comma 3 dello stesso articolo si producono interinalmente per un massimo di 120 giorni, all’art. 12 dice che detti effetti di producono per un massimo di un anno.
In concreto il periodo viene quindi definito dal giudice; la valutazione discrezionale “dovrà contemperare la possibilità concreta di esecuzione dell'accordo con l'esigenza di protezione dei creditori, prima di tutto dei creditori estranei” (Panzani, Composizione delle crisi da sovraindebitamento).
Va notato che l’accordo (così come i provvedimenti cautelari), non riguarda i coobbligati, i fideiussori e gli obbligati in via di regresso (art. 11,c.3).
Questa disposizione è stata giudicata positivamente (Guiotto, op.cit., p. 28) sul rilievo che, in sua mancanza, i creditori sarebbero indotti a non accettare l’ accordo per evitare il prodursi degli effetti previsti dagli articoli 1239 e 1301 c.c. di perdita della possibilità di escussione dei coobbligati e fideiussori; si è però, in senso contrario, osservato che “la consapevolezza del debitore di non poter (almeno) salvare i beni dei propri garanti - spesso suoi congiunti - potrebbe rappresentare un disincentivo all'accordo (D. Galletti, Insolvenza civile e fresh start: il problema dei coobbli¬gati, in G. Presti-L. Stanghellini-F.Velia (a cura di), L'insolvenza del debitore civile dalla prigione alla liberazione, in Analisi Giu¬ridica dell'economia, 2004, n. 2, 395).
L’ esecuzione.
Completato il procedimento di omologazione (art. 12), l'accordo deve essere eseguito: il debitore deve adempiere le obbligazioni che ha assunto con la proposta accettata e deve soddi¬sfare i creditori estranei alla scadenza originaria o entro l'anno (se così è previsto).
Un’ esecuzione, destinata a durare oltre un anno, potrebbe essere ostacolata dalla perdita degli effetti della sospensiva (art. 12, comma 3).
L’ esecuzione dell'accordo può essere affidata al debitore, ad un fiduciario, ad un liquidatore.
Poiché l'apertura della procedura non determina uno spossessamento del debitore, questi non solo conserva la disponibilità dei propri beni ma può incaricarsi di eseguire l'accordo. Resta fermo che gli atti di disposizione in violazione del piano sono nulli ai sensi dell’ art.13, c.4.
Il debitore, peraltro, può anche proporre che come modalità di esecuzione dell'accordo il suo patrimo¬nio sia affidato ad un fiduciario da lui nominato il quale ha il potere di liquidare, custodire il patrimonio e di distribuire il ricavato (art.7).
L’ accordo ¬può prevedere la nomina, da parte del tribunale, di un liquidatore col compito di eseguire l'accordo (art.13, c.1).
Il liquidatore è figura necessaria e deve essere nominato dal tribunale su proposta dell'Organismo di composizione della crisi se tra i beni necessari a soddisfare i creditori vi sono beni pignorati (art. 13). In questo caso sembra che la lettera della legge dia al liquidare la legittimazione a disporre solo dei beni pignorati e non anche degli altri (“…dispone in via esclusiva degli stessi …”).
Il liquidatore previsto dall’ accordo o nominato obbligatoriamente dal tribunale non ha potere di distribuzione del ricavato se non previa autorizzazione da parte del giudice (art. 13, c. 3).
Sotto questo profilo acquista rilievo la differenza tra liquidatore nominato in base alla previsione dell’accordo e fiduciario perché solo quest’ ultimo, ai sensi dell’art. 7, ha il potere di distribuire il ricavato della vendita dei beni del debitore senza bisogno di alcuna autorizzazione.
L’ art. 13, c.1., richiama l’art. 28 della L. fallimentare quanto ai requisiti per la nomina a liquidatore mentre non specifica alcunché sui relativi compensi e responsabilità.
Nella fase di esecuzione, ha un ruolo importante l'Organismo di composizione della crisi (art.13, c.2): esso “risolve le eventua¬li difficoltà insorte nell'esecuzione dell'accordo” e “vigila sull'esatto adempimento dello stesso, comunicando ai credito¬ri ogni eventuale irregolarità”, mentre il giudice in¬terviene sulle contestazioni relative a violazioni di diritti soggettivi e sulla sostituzione del liquidatore.
Le cause di caducazione degli effetti dell’accordo
L’ accordo diviene inefficace in caso di revoca (art. 11, c.5), di risoluzione di diritto per sopravvenuto fallimento (art.12, c. 5), di annullamento (art. 14, c.1), di risoluzione giudiziale (art 14, c. 2).
La revoca ha luogo per mancato pagamento dei debiti tributari o contributivi nel termine di 90 giorni dalle scadenze previste.
E’ stato posto in luce (P. Celentano, op.cit.) che se dalla indisponibilità dei crediti de quibus si traesse la conseguenza che il termine di novanta giorni debba decorrere dalle scadenze originarie, dato il rilievo che in pratica questi crediti spesso assumono, vi sarebbero sovente forti limitazioni alla praticabilità della procedura di composizione: dovrebbe quindi propendersi per una interpretazione che faccia decorrere i 90 giorni dalla fine del periodo di moratoria di cui all’art. 8 c. 4.
La risoluzione di diritto che consegue alla dichiarazione di fallimento dell’imprenditore opera automaticamente per effetto di questa dichiarazione.
La norma non chiarisce se il provvedimento di omologazione ha effetto di giudicato quanto alla insussistenza della condizioni di fallibilità al momento in cui l’omologazione è pronunciata e se quindi il fallimento possa essere dichiarato solo per fatti sopravvenuti.
Si pone poi il problema se gli atti, le garanzie e i pagamenti posti in essere in esecuzione dell’accordo vengano meno di diritto a seguito della dichiarazione di fallimento oppure occorra aggredirli con azioni revocatorie oppure possano essere considerati salvi ai sensi dell’art. 67, c.3., lett. e) della Legge fallimentare.
Altra causa di perdita di effetti dell’accordo è l’ annullamento.
L’annullamento presuppone la frode: il debitore dà una falsa rappresentazione del passivo (espone debiti insussistenti o al contrario non espone i debiti) o sottrae o dissimula una parte rilevante dell’ attivo (non dà conto di attività, occulta materialmente beni o denaro, non denuncia crediti, simula di avere alienato o intesta fiduciariamente beni a terzi, adotta – se imprenditore- artifici contabili per nascondere una parte dei profitti) o simula attività inesistenti (crea l’apparenza di una disponibilità di beni, denaro, crediti, inesistente).
La legge dice che l’accordo “può” essere annullato non che “è” senz’altro annullato. Questo pare significare che se le condotte dolose non hanno di fatto avuto rilievo ai fini del raggiungimento delle maggioranze e dell’ omologazione e non hanno causato pregiudizio apprezzabile ai creditori intranei o estranei, l’accordo non deve essere annullato.
Infine, la risoluzione giudiziale (art.12, c.2).
Questa presuppone l’ inadempimento dell'accordo, la mancata prestazione delle garanzie promesse o la sopravvenuta impossibilità di adempimento per fatti non imputabili al debitore.
E’ stato evidenziato che l’inadempimento dell’accordo dovrebbe portare alla risoluzione solo se grave (art. 1455 c.c.) discutendosi ulteriormente se la gravità vada riferita al singolo creditore che ha agito per la risoluzione o al complesso dei creditori aderenti o di tutti i creditori anche estranei.
A sostegno della prima tesi si osserva (P. Celentano, op.cit.) che solo in base ad essa un creditore insoddisfatto può avere tutela anche se il suo interesse individuale non è significativo di fronte all’interesse del complesso dei creditori.
E’ invece causa di cessazione degli effetti protettivi sul patrimonio del debitore ma non di perdita di efficacia complessiva dell’accordo, il mancato pagamento dei creditori estranei (art.12, c.4).
L’azione di accertamento è soggetta a rito camerale davanti al Tribunale in composizione monocratica (“il giudice”) e si svolge in contraddittorio con il debitore; la decisione è reclamabile alla Corte di Appello (tanto deve ritenersi in base all’art. 739 c.p.c. e stante la mancata previsione, per il caso in esame, di una norma che attribuisca questa competenza al tribunale in veste collegiale); la decisione della Corte è ricorribile in Cassazione.
La relatività e non assolutezza della perdita degli effetti conseguente all’accertamento corrisponde alla logica per cui l’interesse del creditore estraneo è integralmente soddisfatto dal venir meno degli effetti che lo riguardano mentre il venir meno di ogni effetto sarebbe ultroneo e potrebbe contrastare con gli interessi degli altri creditori. Né una conclusione diversa è imposta dall’ accostamento tra risoluzione e mancato pagamento degli estranei, operato dall’ art. 12, c. 4: la risoluzione, a differenza del mancato pagamento degli estranei, è infatti poi ripresa in considerazione dall’ art. 14 che elimina ogni dubbio sul fatto che la risoluzione riguarda tutti gli effetti dell’ accordo salvo solo gli effetti per i terzi di buona fede. Merita sottolineare che la perdita di effetti per accertato inadempimento è relativa solo al creditore che ha agito e non anche gli altri creditori estranei.
Qualora i presupposti delle varie ipotesi di perdita degli effetti dell’ accordo omologato si verifichino prima della definitività dell’omologazione, integrano motivi per chiedere, tramite il reclamo, la revoca dell’ omologazione.
La legge non stabilisce alcun termine per l’azione di annullamento.
Secondo una tesi sarebbe esperibile senza limiti di tempo. Altra tesi (P. Celentano, La caducazione degli effetti dell’accordo omologato, in Il Fallimento, 8/2012) ritiene invece che sia applicabile il termine di cinque anni previsto dall’art. 1442 c.c.
La legge stabilisce invece il termine di un anno dalla scadenza del termine fissato per l'ultimo adempimento previsto dall'accordo per l’azione di risoluzione.
La legge riconosce la legittimazione per l’azione di annullamento e di risoluzione a “ciascun creditore” senza distinguere tra creditori interni ed estranei.
La dottrina favorevole alla tesi contrattualistica interpreta la norma in senso limitativo e, in conformità agli articoli 1441 e 1453 c.c., attribuisce la legittimazione ai soli creditori aderenti (esclusi gli estranei che, in questa concezione, sono tutti i creditori che non hanno dato espressamente il consenso all’ accordo): i creditori estranei, in quanto sono pagati per intero e in quanto hanno la possibilità di agire per la perdita degli effetti dell’accordo nei loro confronti (art. 12. c.4), non hanno di regola interesse all’annullamento né alla risoluzione (per questa inoltre si tratterebbe di far valere l'inadempimento o l'impossibilità sopravvenuta dell'adempimento de¬gli obblighi assunti dal debitore o dai suoi eventuali garanti non nei propri confronti ma nei confronti dei creditori aderenti all' accordo).
Peraltro, anche in una concezione contrattualistica, ai creditori estranei va riconosciuta la legittimazione e l’interesse ad agire per l’annullamento quando si tratti di azioni che tendano far venire meno gli effetti della eventuale moratoria fino ad un anno prevista dall’art. 8. c. 4. Per la risoluzione, invece, la legittimazione dei creditori estranei è esclusa stante il fatto che tali creditori hanno –per i vizi funzionali- la specifica azione di annullamento prevista dall’ art. 12 comma 4.
Le azioni di annullamento e di risoluzione si svolgono davanti al Tribunale che ha omologato l’accordo (il ché sebbene non precisato sembra scontato nella logica della legge), con il rito camerale, previa instaurazione del contraddittorio. La legittimazione passiva spetta per entrambe le azioni al debitore e ai garanti. Della pendenza delle due azioni devono essere notiziati anche il liquidatore e il fiduciario posto che altrimenti questi potrebbero procedere oltre con la loro attvità.
La decisione del tribunale in composizione collegiale (la composizione collegiale deriva dall’ art. 50 bis, u.c.; diversamente ma senza particolari motivazioni Panzani Composizione delle crisi da sovraindebitamento) è impugnabile davanti alla Corte di Appello e la decisione della Corte è impugnabile con ricorso ex art. 111, c. 7 (e, per converso, non modificabile ex art. 742 c.p.c.).
Sia la risolu¬zione sia l'annullamento dell'accordo determinano il venir meno di tutti i relativi effetti salvo i diritti acquistati dai terzi in buona fede ossia dai terzi che ignoravano la causa di annullamento o risoluzione.
I creditori potranno agire liberamente su tutto il patrimonio del debitore.
Nel patrimonio sul quale i creditori riacquistano il diritto di agire pare che vadano inclusi il denaro con cui il debitore ha effettuato pagamenti o i beni di cui disposto in violazione dell’accordo anche se in favore di terzi in buona fede perché la nullità stabilita dall’art. 13, c.4, è una sanzione che prescinde dall’ annullamento o risoluzione e l’art. 13, comma 4, non fa salvi i diritti dei terzi in buona fede (v. P. Celentano, op. cit.; i diritti dei terzi di buona fede fatti salvi dal comma 4 dell’art. 14, sono solo i diritti acquistati in conformità delle previsioni dell'accordo omologato).
Esaminati i requisiti per la fruizione del procedimento di composizione della crisi e gli snodi del procedimento, si tratta ora di affrontare due questioni connesse che hanno importanza fondamentale non solo sul piano teorico ma anche sul piano della concreta utilità del nuovo strumento: la questione della natura –contrattuale o paraconcorsuale- dell’accordo di ristrutturazione del debito e la questione della identità dei creditori estranei.
La legge non offre certezze tanto che è diffuso la qualificazione del procedimento per la composizione della crisi come strumento “ibrido”.
La maggior parte dei commentatori è comunque orientata nel senso che l’accordo abbia natura contrattuale (Macario, I contratti, 2012, 229 e ss; M. Fabiani, Crescita economica, crisi e sovraindebitamento, in il Corriere giuridico, 2012, 451).
Ne deriva che l’accordo vincola solo coloro che danno il consenso alla proposta del debitore (art. 1321 e 1372 c.c.) mentre tutti gli altri creditori sono estranei; come tali possono pretendere l’adempimento del loro credito per intero e, salvi gli effetti della moratoria di cui all’art. 8, c.4, senza alterazioni di tempo non essendo per loro efficace il vincolo creato sui beni predetti dall’art. 12, c. 3.
Per vero, i sostenitori della tesi contrattualistica, cercano di estendere a tutti i creditori i limiti per le azioni esecutive, i sequestri conservativi, i diritti di prelazione, di cui all’articolo 12 comma 3, che richiama l’ art. 10 comma 3.
Questo tentativo è stato giustamente criticato (D’ Amora, Aristotele, Holmes e i creditori estranei …, op.cit, p.2): se l’accordo è un contratto, i creditori estranei non possono subirne gli effetti; l’art. 12 parla appunto degli effetti dell’accordo e il richiamo all’art. 10, che parla invece degli effetti del decreto di inibitoria e che espressamente riferisce tali effetti ai “creditori” senza distinzioni, vale solo a individuare gli effetti non ad estendere l’applicazione degli effetti anche ai terzi estranei.
L’adozione della tesi contrattualistica finirebbe per rendere la procedura, di fatto, poco utile.
I soli vantaggi del debitore a proporre e del creditore ad aderire all’accordo sarebbero (M. Fabiani, op. cit., 456):
- per il debitore poter dilazionare i pagamenti e non dovere subire azioni esecutive per un termine fino a 120 gg. dal deposito del piano e per un termine fino ad anno dall’omologa;
- per il creditore non essere sottoposto a questo termine;
- per il creditore sprovvisto di titolo esecutivo, munirsi di un titolo esecutivo qualora si ritenga che l’omologazione dell’accordo valga anche come titolo esecu¬tivo (al pari del verbale di conciliazione);
- per il creditore ottenere, ma solo eventualmente, magari quando l’ accordo prevede l'affidamento dell'esecuzione ad un terzo, un’ accelerazione del procedimento di soddisfacimento del credito.
Si tratta evidentemente di vantaggi minimi che, per quanto concerne il creditore, sono ridotti ancora dal costo economico della procedura.
Inoltre: ipotizzando un accordo con il 70% dei creditori; nella visione contrattuale l’accordo non vincolerebbe il restante 30% che potrebbe ancora aggredire liberamente il patrimonio del debitore compresi i beni destinati all’adempimento del piano; il debitore che avrebbe teoricamente intenzione di ricorrere alla procedura, magari per salvare certi beni specifici (in ipotesi: la casa), garantendo l’adempimento con l’aiuto di un terzo (in ipotesi: un genitore che intendesse aiutare un figlio mettendo a disposizione dei creditori un immobile), in pratica, temendo di vedersi aggredire anche quello specifico bene dagli estranei, non ricorrerebbe affatto alla procedura; ma anche i creditori sarebbero disincentivati ad accettare il piano perché restando fuori non avrebbero alcun pregiudizio e aderendo non avrebbero garanzia sull’adempimento del piano di fronte ai terzi estranei che potrebbero aggredire i beni destinati al soddisfacimento dei partecipanti e addirittura ottenere la revocatoria di atti adempitivi dell’ accordo.
Qualora si adotti invece una prospettiva paraconcorsuale la situazione cambia: i creditori vengono distinti in creditori intranei, creditori estranei e creditori non consenzienti.
I creditori intranei sono quelli che hanno accettato il piano e sono vincolati dall’accordo.
I creditori estranei sono, da un lato, i creditori che per legge non possono essere riguardati dal piano e dall’accordo, dall’altro, i creditori pretermessi (perché volontariamente tenuti dal debitore fuori dall’accordo o perchè dal debitore non conosciuti) e i creditori sopravvenuti.
I creditori non consenzienti, infine, sono i creditori che non approvano espressamente la proposta.
Solo i creditori estranei non subiscono gli effetti dell’art. 12, c.3, mentre li subiscono i creditori non consenzienti.
A proposito di questa delimitazione delle categorie dei creditori ed in particolare della prima (creditori estranei) si osserva che:
- gli estranei, in base alla previsione della legge, sono i creditori che devono essere tenuti in conto nel piano, sono cioè intranei al piano (anche se estranei all’ accordo);
- ex artt. 7,comma 1 e 8, comma 4 sono estranei i titolari di crediti impignorabili e i titolari di crediti privilegiati che non abbiano rinunciato, almeno in parte, al privilegio;
- i creditori sopravvenuti alla presentazione dell’ accordo sono anch’ essi estranei perché se così non fosse questi creditori si troverebbero soggetti ad una moratoria di un anno sulla quale non avrebbero avuto modo di esprimersi;
- dovrebbero poi essere creditori estranei anche le Agenzie fiscali e i gestori di forme di assistenza e previdenza obbligatorie in quanto i relativi crediti sono non rinunciabili.
Da questi dati emerge la ratio della delimitazione legislativa degli estranei: estranei sono i creditori che sono pagati per intero. Ne deriva che devono essere considerati estranei anche i creditori (titolari di crediti pignorabili e non privilegiati) che il debitore nella proposta di piano si impegna a pagare per intero (per esempio: un credito contestato o un credito litigioso; il debitore, nella prospettiva di poter sostenere con successo la contestazione, lo esclude dall’accordo e precisa, nel piano, che in caso di accertamento della esistenza del credito si impegna a pagare quel credito per intero, magari attraverso un garante; il debitore piccolo imprenditore sceglie di non coinvolgere nell’accordo e pagare interamente un fornitore, suo creditore per crediti relativi alle forniture, e con cui ha interesse, e vi è oggettivo interesse di tutti i creditori, a mantenere il rapporto trattandosi di forniture indispensabili alla continuazione dell’impresa).
In coerenza con quanto precede, i creditori estranei non partecipano al computo delle maggioranze e non votano (poiché non sono interessati dall’accordo non lo condizionano).
In base a queste considerazioni, i creditori dissenzienti sono invece intranei perché sono considerati nella proposta, sono riguardati dagli effetti dell’accordo e si calcolano ai fini delle maggioranze.
Antonio Mondini
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