Appunti sulla cognizione piena2Lezioni di diritto processuali civile
Anno accademico 07/08
(Prof. Claudio Cecchella)
Il rito ordinario
1. Il modello a fasi separate e necessariamente progressive.
Il rito ordinario si presenta come il rito generale, ovvero applicabile nelle materie nelle quali non è previsto un rito speciale o comunque applicabile in genere, come disciplina generale, quando non esiste una disciplina del rito speciale espressamente derogativa.
La riforma del 1990 (legge n. 353) e ancor più quella del 2005 (legge n. 80) ha radicalmente modificato il regime del codice del 1942, dovuto alla novella del 1950, ove - salvo la preclusione alla formulazione della domanda e coincidente con gli atti introduttivi - nessuna preclusione era fissata alle altre attività difensive, come la formulazione delle eccezioni e le deduzioni probatorie, con la conseguenza che - innanzi alla nuova eccezione o al nuovo mezzo probatorio deducibile sino alla udienza di precisazione delle conclusioni - il processo poteva in ogni momento regredire alla fase di trattazione, dalla fase istruttoria o decisoria a cui era stato condotto.
Il nuovo regime ha imposto al rito una cesura netta tra le fasi, decorsa l'una il processo deve necessariamente condurre all'altra, senza possibilità di regredire alla precedente.
Esiste una sola possibilità di regresso, che andrà approfondita - come eccezione al regime generale, dettata per esigenze di contraddittorio - costituito dall'eventuale iniziativa officiosa, nella rilevazione dell'eccezione o del mezzo probatorio, la quale non è soggetta a limiti preclusivi (espressamente l'art. 183, 4° e 8° comma c.p.c.) e quindi può concretizzarsi anche nelle fasi successive a quelle di trattazione e può perciò condurre ad una nuova fase di trattazione.
Lo stesso fenomeno deve ipotizzarsi pure per il caso della rilevazione di questioni d'ufficio diverse dalla quaestio facti, secondo quanto stabilisce l'art. 183, 4° comma c.p.c., che impone la fissazione di un termine per replica e deduzione delle parti: quindi il fenomeno può originarsi anche dalla individuazione di una quaestio iuris (ad esempio il rilievo di una norma imperativa che provoca la nullità del contratto).
La giurisprudenza, dettata sotto il rito della riforma degli anni 1990-1995, quando la trattazione si svolgeva in tre udienze (artt. 180, 183 e 184 cpc), proprio al fine di esaurire tutti i termini preclusivi fissati alle allegazioni e deduzioni delle parti tendeva, tuttavia, a dare svolgimento pedissequo alle udienze della fase di trattazione, con lo svolgimento anche di quattro udienze iniziali (in tale senso a titolo esemplificativo cfr. Trib., Modena 6 marzo 1996, in Giur. it., 1998, I, 2, 690; in senso contrario v. invece Pret. Torino 3 giugno 1996, in Giur. it., 1998, I, 2, 690), ancorché esistesse una questione preliminare di merito o una questione pregiudiziale di rito che ex art. 187 c.p.c. avrebbe reso opportuna una immediata rimessione alla fase della decisione. Al contrario una corretta applicazione di tale disposizioni avrebbe reso necessario il transito alla fase di decisione, anche eventualmente sin dalla udienza di prima comparizione (e l'ipotesi è regolata dall'art. 187, 4° comma c.p.c., ove nel caso in cui il giudice ritenendo successivamente infondata la questione preliminare deve nel rimettere alla fase di trattazione rifissare i termini di cui all'art. 184 c.p.c., qualora non fossero stati fissati dal giudice nella fase anteriore; invero si deve dire peraltro che l'art. 187 c.p.c. è richiamato per la prima volta soltanto nell'art. 184 c.p.c.; tutto ciò fa pensare ad un potere di rimettere in decisione solo a partire da tale udienza e non nelle udienze di trattazione precedenti). Anche questa ipotesi può essere all'origine di un regresso alla fase di trattazione.
La S.C. in proposito, in caso di contumacia della parte, aveva ritenuto necessario lo svolgimento della udienza di prima comparizione e di quella di prima trattazione, con fissazione del termine anteriore per la deduzione di eccezioni riservate, anche se l'attore chiedeva l'immediata fissazione di udienza di conclusioni (Cass. 24 maggio 2000, n. 6808, Corr. giur. 2000, fasc. 10, con nota di Consolo). Sul consenso di entrambe le parti la giurisprudenza ha tuttavia ritenuto possibile l'immediata fissazione del termine per le deduzioni istruttorie, con rinuncia alle fasi anteriori previste dal legislatore (Trib. Lecce 14 settembre 1996, in Giur. it., 1998, I, 2, 708). Infine una più recente pronuncia sempre della S.C. aveva ritenuto non ammissibile un differimento tout court della udienza ex art. 183 cpc all'udienza ex art. 184 cpc, senza richiesta espressa di concessione dei termini per lo scambio di memorie dettato dal 5° comma.
Perciò è intervenuta la riforma del 2005, riconducendo tutto ad un unica udienza di trattazione e comprimendo la progressività in una sola duplice fase e non più in una triplice fase: attività asservite da un lato e attività probatorie dall'altro.
2. Il modello a preclusioni progressive.
Oltre alla progressività necessaria delle fasi del processo a cognizione piena, il rito ordinario si caratterizza per la progressività delle preclusioni, che non maturano tutte contestualmente in relazione ad un certo atto o termine o udienza della fase di trattazione. Al contrario le preclusioni si perfezionano prima per le attività di individuazione del thema decidendum; solo successivamente maturano le preclusioni che sono dettate alle iniziativa volte ad individuare il thema probandum, distinguendosi l'attività di allegazione dei fatti dall'attività di deduzione dei mezzi probatori.
Le domande devono a pena di preclusione essere formulate con gli atti introduttivi: la citazione e la comparsa di costituzione e risposta (il principio si desume dall'art. 167, 2° e 3° comma c.p.c., che regola la posizione del convenuto, ma che simmetricamente deve ritenersi per parità di armi applicabile anche all'attore, come si è ritenuto nella interpretazione sistematica degli artt. 414 e 416 c.p.c. per il rito del lavoro). Per domande devono intendersi non soltanto quelle rivolte alle parti, ma anche ai terzi quando danno origine ad una chiamata in giudizio ex art. 106 c.p.c.
Le eccezioni riservate alla parte (quelle d'ufficio sono rilevabili in ogni momento), siano esse di merito che processuali sono deducibili a pena di decadenza anch'esse nell'atto introduttivo, ovvero nella comparsa del convenuto, art, 167, 2° comma cpc.
Le deduzioni istruttorie riservate alla parte (l'iniziativa probatoria d'ufficio non ha limiti temporali) si precludono qualora non vengano dedotte nel duplice termine che nella prima udienza di trattazione il giudice fissa ai sensi dell'art. 183, 6° comma c.p.c., su istanza di parte, dopo il termine per l'esercizio dello ius poenitendi.
Certamente non è accettabile, ed è per buona sorte lettura minoritaria (v. nel senso criticato, Trib. Roma 14 luglio 1997, in Giust. civ., 1998, I, 2957), l'indirizzo secondo il quale le deduzioni istruttorie di cui all'art. 183, 6° comma c.p.c. devono originarsi esclusivamente dalle novità discendenti dalle iniziative prese alla udienza del medesimo art. 183 c.p.c. (donde la necessità di una deduzione istruttoria sin dagli atti introduttivi a pena di decadenza). Nel senso maggioritario, tra le tante, v. Trib., Milano 3 febbraio 1999, in ß, 1999, 711 e tutta la dottrina).
La formazione progessiva del thema probandum (fermo restando la formazione ab initio del thema decidendum) è soluzione che ha dimostrato nonostante tutto un impatto positivo sul processo di rito ordinario e corrisponde alla caratteristica delle fattispecie in esso dedotte.
Si tratta, infatti, per effetto del principio di autonomia privata di fattispecie atipiche ove non è semplice non soltanto identificare i fatti rilevanti, ma anche collocarli tra quelli costitutivi del diritto o al contrario impeditivi del medesimo, gli uni che aprono l'onere probatorio di chi agisce e i secondi di chi resiste. Ne risulta una maggior difficoltà di allegazione e deduzione probatoria, il cui onere è attenuato dalla progressività del termine preclusivo e quindi dalla possibilità di beneficiare del contraddittorio svoltosi in occasione della allegazione dei fatti (poi, come vedremo, è regolato pure uno ius poenitendi che attenua il rigore della perentorietà del termine che grava la parte).
I riti speciali, in specie quello del lavoro e delle locazioni, ma anche quello societario, si vengono per lo più a calare in fattispecie tipiche, i cui elementi sono intesamente regolati dalla disposizione imperativa di legge, per cui il compito della parte è meno gravoso (essendo più facile cogliere i fatti rilevanti e la loro qualificazione) ed è giustificato un regime a preclusioni iniziali coincidenti con gli atti introduttivi per ogni difesa (per le controversie societarie questo regime, come vedremo, dipende dall'iniziativa delle parti).
Le difese mere (contestazioni sui fatti e gli effetti giuridici dedotti dall'avversario) non sono assoggettate a preclusioni, anche se l'art. 167, 1° comma c.p.c. impone alla parte di prendere posizione precisa sui fatti dedotti dall'altra. La difesa tardiva di una parte, in tal caso, può dare origine ad una riapertura dei termini ex art. 184-bis per l'altra, poiché l'eventuale preclusione maturata ha ragione di essere per la pacificità del fatto risultante dal comportamento dell'altra parte, che non ha provveduto alla contestazione.
3. Le deroghe per esigenze di contraddittorio.
La riforma del rito ordinario è pregievole anche per l'equilibrio delle soluzioni offerte alla necessità di riapertura dei termini in via di deroga in relazione ad esigenze postulate dal contraddittorio, dalla incolpevole inerzia della parte e infine dallo ius poenitendi. Si tratta ora di esaminare queste deroghe.
Anzitutto è opportuno ricordare come quando l'esigenza è postulata dal contraddittorio alla parte deve essere concessa la facoltà di integrare in modo del tutto innovativo (e non semplicemente modificativo) la controdifesa: alla domanda del convenuto, l'attore potrà replicare con una nuova domanda o con la formulazione di un'eccezione; alla eccezione del convenuto, ancora con una domanda e con una controeccezione. Ad una prova si potrà replicare con una controprova. Naturalmente si dovrà trattare di una difesa che si giustifica come conseguenza della difesa avversaria (ad esempio la domanda dovrà avere una comunanza almeno per titolo o per oggetto con la domanda dedotta ex adverso).
Questa eventualità è molto precisamente regolata nell'art. 183, 5° comma c.p.c., come reazione dell'attore alle difese del convenuto (anche se non espressa, deve essere concesso anche al convenuto di replicare alle novità introdotte dall'attore in esercizio del contraddittorio e ciò nel termine concessogli per memorie ex art. 183, 6° comma c.p.c.).
Questa è la prospettiva postulata dalla formulazione di domande ed eccezioni. Tuttavia, il problema si pone pure per l'iniziativa probatoria e ad esso risponde l'art. 183, 6° comma c.p.c., il quale fissa alle parti un duplice termine, il secondo dei quali, in replica alle deduzioni istruttorie dell'altra parte, si deve intendere nella pienezza delle facoltà di deduzione anche di nuove prove.
Se poi l'iniziativa è dell'ufficio, il termine dovrà essere concesso in ogni momento del processo, nella fase in cui l'iniziativa officiosa ha avuto espressione (art. 183, 7° comma c.p.c.). La disposizione contempla il solo caso dell'iniziativa probatoria del giudice, ma deve postularsi pure per il caso della rilevazione degli effetti giuridici di un fatto: la norma ricondotta al principi di cui all'art. 183, 4° comma c.p.c., ha quindi una portata più ampia. Anche in tal caso l'iniziativa della parte è pienamente innovativa.
5. Lo ius poenitendi.
Ancora con grande sensibilità alle esigenze, non soltanto del contraddittorio ma anche del diritto di difesa (che è concetto più lato del contraddittorio, poiché si esprime come diritto della parte anche non in replica alle iniziative dell'altra), il rito ha ritenuto di favorire nella progressività del maturarsi delle preclusioni inevitabili adattamenti delle difese della parte che non sempre sono indotti dalla necessità di replicare alle difese dell'altra.
Sono questi gli adattamenti consentiti dallo ius poenitendi, ovvero dalla facoltà delle parti di pentirsi rispetto alle deduzioni difensive precedentemente formulate.
A questo proposito è bene subito sottolineare che tale straordinaria facoltà non ammette la parte ad un'attività difensiva interamente innovativa, ma soltanto modificativa di una difesa che resta sostanzialmente nel solco della precedente.
L'ipotesi è codificata nell'art. 183, 5° e 6° comma c.p.c., ove è consentito (si badi bene nell'udienza di prima trattazione o nel termine per lo scambio di memorie in essa fissato) la modifica o precisazione di domande, eccezioni e conclusioni (ne consegue che tali attività emendative e di precisazione non sono consentite nelle fasi successive e certamente non lo sono in occasione della udienza di precisazione delle conclusioni). Il regime è sotto questo aspetto troppo severo poiché un'emendatio dovrebbe essere consentita sino alla udienza di precisazione delle conclusioni.
Lo stesso principio non pare codificato invece in relazione alle iniziative probatorie, ove manca un espresso ius poenitendi (il tutto sarà in tal caso assorbito dalla rimessione in termini per decadenze insolpevoli).
6. La rimessione in termini.
Infine la prospettiva delle deroghe alle preclusioni si chiude con le necessità imposte dalla decadenza incolpevole, ovvero dell'errore difensivo scusabile.
Il concetto noto nel diritto amministrativo, in relazione al processo impugnatorio del provvedimento, ha iniziato progressivamente a penetrare nel processo civile. L'art. 184 bis ne è una testimonianza.
Quando la parte è incorsa nella decadenza per fatto non imputabile, ovvero per fortuito o per fatto dell'avversario, deve essere rimessa in termini e ciò non solo in relazione (come nella originaria previsione) delle deduzioni istruttorie, ma per qualsiasi altra difesa.
Anche in tal caso la difesa può essere del tutto innovativa e non soltanto emendativa di una difesa già introdotta (con la stessa ampiezza delle difese consentite in esercizio del contraddittorio).
La disposizione invero, almeno per il caso della prova documentale, era già conosciuta nel n. 3 dell'art. 395 c.p.c.; oggi vale per qualsiasi difesa.
La fattispecie può essere originata dal fortuito per non conoscere l'esistenza del fatto da allegare o del mezzo di prova da indicare e di non averli potuto conoscere usando della normale diligenza. In proposito può essere decisivo il comportamento dell'altra parte che con azioni o omissioni cela la fonte di conoscenza alla parte (ad esempio solo a seguito di un giudizio di rendiconto è possibile conoscere, quando ormai i termini conclusivi sono maturati, il documento necessario).
Altro caso di rimessione, in ordine alle iniziative istruttorie, può discendere dalla contestazione tardiva dell'altra parte sulla esistenza del fatto rilevante.
Naturalmente sia la sopravvenienza del fatto storico come lo ius superveniens (da quale può desumersi una rilevanza di un elemento fattuale della fattispecie prima irrilevante), rendono necessaria la rimessione nei termini, non potendo la parte allegare e dedurre quanto non esiste al momento del maturarsi della preclusione (il momento ultimo per l'allegazione della sopravvenienza è l'udienza di precisazione delle conclusione che com'è noto fissa la preclusione del giudicato in ordine alla quaestio facti).
Non è necessario invece che la rimessione in termini discenda da una nullità di un atto processuale, come in vari luoghi regola il codice di rito, cfr. l'art. 650 e 668 c.p.c.; l'art. 294 c.p.c. Quest'ultima disposizione relativa al contumace può avere rilievo anche nella fase di trattazione. In tal caso è opportuno sottolineare al contumace è consentita una riapertura generalizzata (invece nella rimessione in esame la riapertura riguarda esclusivamente le difese a cui involontariamente la parte è decaduta). Dell'art. 294 c.p.c., tuttavia la disposizione in esame richiama le forme per il provvedimento di rimessione, rendendo necessaria un'istanza della parte.
Nella rimessione in termini in esame sono rilevanti i poteri di deduzione per così dire "interni" al processo, per lo più relativi a difese di merito; non hanno invece rilievo rispetto ai poteri esterni, come quello di impugnare (Cass., 23 ottobre 1998, n. 10537) o di proseguire o riassumere la causa o di instaurare un giudizio di opposizione (per il caso di opposizione a sanzione amministrativa, ancorché la sanzione non indichi il termine per la impugnazione, cfr. tra le ultime, Cass., 8 maggio 2000, n. 5778; Cass., 15 ottobre 1997, n. 10097, in Foro it., 1998, I, 2659, nt. Capponi; per il caso di opposizione a sentenza dichiaratrice di fallimento, Trib. Pistoia 31 luglio 1998, in Foro it., 1999, I, 2395; per il caso di opposizione a decreto ingiuntivo, Cass., 23 ottobre 1998, n. 10537, in Giust. civ., 1999, I, 727).
8. Il regime della rilevazione della preclusione.
Le disposizione indicano come perentori i termini di decadenza, in tal modo sancendo il rilievo officioso della preclusione, che il giudice deve dichiarare a prescindere dalla istanza dell'altra parte. In giurisprudenza, tra le tante Trib. Milano, 8 maggio 1997, in Giur. it., 1998, 2309.
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