Il manifesto degli Avvocati...Manifesto dell’Avvocatura unita
Gennaio 2012
Consiglio nazionale forense
Presso il Ministero della giustizia
Manifesto dell’Avvocatura unita
I. Preambolo.
II. Schede tematiche di approfondimento e proposte sullo stato della giustizia civile e sull’ordinamento professionale.
III. Manifestazioni.
I. Preambolo
La fase critica che stiamo attraversando richiede a tutti notevoli sacrifici e un grande impegno: i sacrifici sono stati imposti con le ultime manovre del Governo Berlusconi e con le prime manovre del Governo Monti; l’impegno a cui siamo tutti chiamati per risollevare le sorti del nostro Paese non è solo individuale, ma nasce anche dalle istituzioni, dalle aggregazioni , dalle rappresentanze di tutte le categorie sociali.
Tra queste, ovviamente, le professioni: sembra appunto ovvio sottolineare il ruolo delle professioni - che partecipano alla produzione del PIL per l’11 % secondo le recenti statistiche - un ruolo consapevole e indefettibile in una società, come la nostra, votata al terziario e quindi al lavoro autonomo in misura superiore a quanto non avvenisse nel passato. Appare perciò curioso che nei discorsi politici, nei progetti di risanamento e di sviluppo, perfino nei dibattiti e nell’ informazione diffusa dai media, le professioni siano ricordate con l’appellativo di corporazioni, piuttosto che non come uno dei modi nei quali si svolge il lavoro. Negli ultimi tempi tra le parti sociali si evidenziano le imprese (a cui va tutta l’attenzione con sussidi, sgravi, agevolazioni) i lavoratori dipendenti (a cui si chiede invece la disponibilità ad una più labile garanzia della continuità del posto di lavoro) le famiglie (a cui si chiede purtroppo di sopportare nuovi costi, nuove privazioni).
Come si prospetta questa eccentrica posizione delle professioni? Lo si fa - ad arte - sulla base di alcuni pregiudizi e alcune premesse che debbono essere radicalmente contestate.
La prima, vistosa, aporia è data dal fatto che il modo di operare dei Governi che si sono succeduti - si parla dei Governi e non del Parlamento, che con seminari, audizioni, incontri ha operato in modo trasparente e dialogico - è stato opaco. Non si è fatto ricorso né all’interpello, né alla consultazione, e tanto meno alla concertazione. Come se si potesse legiferare nella materia del lavoro autonomo, un lavoro intellettuale che incide sui diritti fondamentali dei cittadini, come la salute, la difesa dei diritti, l’abitazione, i trasporti, il patrimonio, e così via, senza sapere quali sono i problemi incontrati individualmente e collettivamente dagli appartenenti a queste categorie. Non si è neppure avvertita l’esigenza di acquisire pareri e dati, prima di prendere provvedimenti o di annunciare provvedimenti, o di predisporre programmi (sempre nel chiuso degli uffici e mai pubblicamente, o con esternazioni molto contenute e spesso allusive e ambigue): pareri e dati che le diverse categorie professionali avrebbero volentieri discusso per concertare il modo di uscire dalla crisi, per introdurre i desiderati cambiamenti, per concertare, insieme con i reggitori della cosa pubblica e con chi determina le sorti del Paese in questo momento così grave le modalità operative e le disponibilità (tante volte manifestate) a fornire un fattivo volontario contributo.
La seconda vistosa aporia è che si è voluto operare in via autoritativa: le categorie professionali, tacciate di corporativismo, si sono viste piombare addosso provvedimenti di ogni tipo - per l’avvocatura mi riferisco sia ai provvedimenti concernenti la formazione, l’accesso, il tirocinio, la pubblicità, le tariffe, i procedimenti disciplinari, le modalità di organizzazione interna - senza tener conto che molti di quei provvedimenti, assunti con atti tra loro distinti, sovrapposti, e di volta in volta correttivi gli uni degli altri, avevano già trovato una loro compiuta espressione in progetti di legge già pendenti in Parlamento, che oggi non si sa quale sorte possano ancora avere.
La terza vistosa aporia è data dal fatto che le manovre, destinate a ridurre il debito pubblico, a ridurre lo spread dei titoli italiani rispetto a quelli tedeschi, a ridurre gli sprechi, a sostenere lo sviluppo economico, hanno incorporato temi e materie, come quelli sopra accennati, che non hanno una diretta attinenza alle misure da assumere. Non si è allora manifestato solo un problema di correttezza costituzionale nell’uso della decretazione d’urgenza (e tutti sanno quanto sia difficile , una volta che una norma sia entrata in vigore, poi correggerla con il gioco degli emendamenti in Parlamento, sempre che non sia protetta con lo scudo della fiducia) , ma si è avvertito un intenzionale sviamento delle finalità pubbliche perseguite con i provvedimenti della manovra: di manovra (fiscale, monetaria, economica) non c’è l’ombra nelle disposizioni che riguardano le regole del codice di procedura civile, le regole sulla mediazione, le regole sui procedimenti disciplinari, le regole sulla rappresentanza , le regole sulle società tra professionisti etc.
La quarta vistosa aporia è data dal fatto che tutti questi provvedimenti, e la discussione che ne è derivata sui mass media, mettono in evidenza la necessaria considerazione dei valori economici e una pericolosa indifferenza per i valori giuridici. All’economia si affida una società (ed un Governo) consapevole che gli economisti non hanno saputo né prevedere né prevenire la crisi ed ora sono incerti nel trovarne la via d’uscita. Di più, ci si affida ad una economia liberale, anzi liberista che predica le liberalizzazioni, quasi che questa parola magica, diventata un feticcio, dovesse essere l’unica via d’uscita, l’unico medicamento, l’unica panacea per ritrovare sicurezza e serenità. Non è la predicata "economia sociale di mercato" (quella fondata da Eucken, ispiratrice di tanti provvedimenti comunitari, equilibrata nel dosaggio tra capitale e lavoro, tra pubblico e privato, tra costi e benefici) a governare oggi l’Italia, ma un grumo di espedienti linguistici, di rarefatte allusioni, di inflessibili e asettiche previsioni.
La quinta vistosa aporia è data dall’uso ideologico del diritto comunitario. Si pretende di imporre regole (per esempio in materia di professioni) come se queste fossero richieste degli organi comunitari, il "conto presentato dall’Unione europea" ad un’Italia neghittosa e inadempiente per poterla beneficiare della inclusione nel contesto europeo. Nel caso delle professioni non è così: il Parlamento europeo ha dichiarato solennemente il 23 marzo 2006 che le professioni intellettuali, in particolare l’ Avvocatura, svolgono un ruolo essenziale nel contesto delle istituzioni che fondano lo stato di diritto, uno stato democratico , partecipato, attento ai valori, soprattutto garante delle libertà dei diritti e degli interessi dei cittadini. La Corte di Giustizia europea, in tante pronunce, anche riferite alla professione forense, e spesso sollecitate da questioni inerenti l’Avvocatura, ha confermato la rilevanza delle regole concernenti le professioni, che svolgono una attività strettamente correlata con gli interessi pubblici, e ha persino legittimato le tariffe professionali, considerandole un mezzo per garantire il servizio reso ai cittadini dal punto di vista della qualità, dell’eguaglianza di trattamento e del dignitoso corrispettivo del lavoro professionale.
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, oggi parte integrante del Trattato costituzionale (cd. Trattato di Lisbona), protegge e tutela la libertà professionale insieme con il diritto al lavoro, quali espressioni della personalità dell’uomo.
Norma diversa contempla la libertà di impresa, che è "riconosciuta…., conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali" (art. 16).
Il diritto dell’Unione, dunque, distingue in modo inequivocabile la professione dall’impresa: non ha pregio il vecchio adagio - spesso acriticamente riprodotto anche da osservatori autorevoli - circa una presunta equiparazione della professione all’impresa operata dal diritto comunitario.
La sesta vistosa aporia è data dall’attacco agli Ordini professionali, da un lato equiparati a qualsiasi associazione di prestatori di servizi (come se guidare un’auto o vendere un prodotto implicassero la medesima preparazione, la medesima capacità tecnica, la medesima responsabilità, di chi si dedica a curare ammalati, a difendere diritti, a costruire case, etc. etc.). Ignorando che proprio gli Ordini vigilano sulla formazione, sul corretto esercizio della professione, sulla trasparenza nella applicazione delle tariffe, e su molte altre cose ancora.
La settima vistosa aporia è che si è sempre, si sottolinea sempre, ignorata sia l’attività suppletiva degli Ordini – per gli Ordini forensi, l’attività di sostegno ai Tribunali – sia l’ attività sostitutiva dell’intervento della pubblica Amministrazione. Risparmio di costi, di risorse umane e finanziarie, di energie intellettuali che lo Stato sarebbe stato tenuto a mettere a disposizione e che ha imposto o richiesto proprio a quelle categorie professionali che ora si dipingono come egoistiche e retrive corporazioni.
L’ottava vistosa aporia è data dal fatto che nei provvedimenti già adottati e in quelli progettati si pensa di agire in materia di professioni con la tecnica della delegificazione, sottraendo non solo al dibattito parlamentare, ma affidando alla normazione di secondo grado, regolamentare, materie che coinvolgono diritti fondamentali e interessi primari. Ciò quando alcune professioni, come quella forense, trovano riconoscimento nella Costituzione, e tutte le professioni sono rette da principi espressi in leggi ordinarie, e, ancora, nel caso della Avvocatura, un ramo del Parlamento ha approvato un ampio testo sistematico, innovativo, completo, che la Camera sarebbe in grado di portare a compimento.
Si potrebbe continuare ancora nel descrivere questa situazione che implica un grave disagio nell’istituire i contatti, nel mantenere in vita un dialogo, nel prospettare modalità di cooperazione che sgorgano dalla consapevole responsabilità sociale rivestita dalle professioni e dalle loro rappresentanze, disponibilità che tuttora permane, anche se essa è svilita dal dileggio e da misure punitive. L’ultima novità è costituita dalle mire appropriative delle casse previdenziali, private e del tutto estranee ad impegni di spesa statuali, sorrette dai sacrifici diuturni e dai versamenti onerosi che con senso di responsabilità gli iscritti si sono imposti.
Gli Avvocati sono duramente colpiti dalla crisi: i loro clienti – imprese, enti pubblici, consumatori – moltiplicano il contenzioso ma si sono impoveriti; in più l’ accesso alla giustizia (con i provvedimenti che hanno aumentato il costo dei giudizi e reso complicato l’esercizio del diritto di difesa con conciliazione obbligatoria, prescrizioni, decadenze, istanze di prelievo e così via) si sta rivelando un percorso poco praticabile.
Gli Avvocati promuovono il cambiamento, anche dal punto di vista della concorrenza: pretendono una migliore qualificazione con l’introduzione delle specializzazioni, una migliore formazione con il rafforzamento delle Scuole forensi, un più rigoroso controllo con l’aggiornamento del codice deontologico, e con tante altre proposte contenute nella legge professionale in itinere. Senza contare che il mercato professionale forense in Italia è il più aperto d’Europa: gli avvocati italiani sono un quarto di tutti gli avvocati che esercitano nei Paesi dell’ Unione europea (230.000), quelli ammessi al patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori sono un esercito di 46.000 unità; gli studenti delle Facoltà di Giurisprudenza i più numerosi d’Europa. Insomma, siamo di fronte ad un mercato saturo, e ad una categoria, anche di giovani, che stenta a decollare.
Ma soprattutto gli Avvocati italiani - che hanno predisposto il presente documento in vista delle assemblee plenarie del 14 e del 20 gennaio - sono preoccupati per la difesa dei diritti dei cittadini: le aporie di cui si è parlato costituiscono tutte una grave offesa all’accesso alla giustizia e alle garanzie della difesa. L’ Avvocato per essere tale, per svolgere la sua missione, deve essere libero, autonomo, indipendente: è astretto dai vincoli dell’osservanza della legge e dei canoni deontologici, ma soprattutto dalla consapevolezza della grave responsabilità che assume nella difesa dei diritti e degli interessi dei cittadini.
[Omissis]
II. Schede tematiche di approfondimento e di proposta sullo stato della giustizia civile.
Di seguito una serie di schede di approfondimento sugli argomenti di maggior rilievo e di proposte operative nella prospettiva di riforma della giustizia civile.
La difesa della giurisdizione.
I. Le riforme del processo civile.
Il giudizio complessivo sui più recenti interventi sul processo civile non può che essere negativo.
Si tratta di misure che, in ossequio ad una generica e pletorica finalità di "snellimento" e riduzione dei tempi della giustizia civile:
a) calpestano le più elementari norme di civiltà giuridica.
Si pensi all’istituto dell’istanza di trattazione (d.l. n. 212/2011) che – senza alcuna forma di avviso alle parti – prevede l’estinzione di ufficio di tutti i processi pendenti in cassazione e in appello da più di tre anni. L’istituto è ispirato ad una chiara logica di abbattimento indiscriminato della domanda di giustizia. A differenza di quanto avviene nel processo amministrativo e di quanto disponeva la precedente formulazione della disposizione introdotta con la l. 183/2011 nessuna informazione in tal senso proverrà dalle cancellerie cosicché migliaia di cittadini vedranno silentemente sfumare la possibilità di ricevere giustizia pagando lo scotto del disservizio dell’amministrazione della giustizia, incapace di assicurare un processo di ragionevole durata e che, per tale motivo, decide di farli morire.
E’ come – per usare il celebre esempio del già Presidente della Repubblica Oscar Lugi Scalfaro con riferimento al c.d. «processo penale breve» – per risolvere il problema dell’obesità si uccidessero tutti gli obesi!
Ed ancora, la previsione di una "multa" (fino a € 10.000) nel caso di rigetto della richiesta di sospensione dell’esecutività della sentenza di prime cure tanto nel rito di cognizione ordinaria che in quello del lavoro;
b) sottovalutano per l’ennesima volta il ruolo dell’Avvocatura nella soluzione dei problemi che interessano la giustizia civile.
Senza alcun senso storico e spirito europeo quella stessa Avvocatura della quale la Corte europea dei diritti dell'uomo riconosce il valore sociale viene, difatti, collocata sullo stesso piano di attività che di certo non riguardano la tutela dei diritti fondamentali e, dunque, non richiedono quel complesso di qualità tecniche ed etiche proprie della professione di avvocato.
E’ di questi giorni (d.l. n. 212/2011) l’ampliamento delle ipotesi di esonero dalla difesa tecnica di fronte al giudice di pace (art. 82 c.p.c.) accompagnato dalla modifica all’art. 91 del c.p.c. in relazione alla condanna alla spese, prevedendo che quest’ultima non possa superare il valore della lite.
In pratica il cittadino che impugna, ad esempio, una sanzione amministrativa abnorme e ne ottiene l’annullamento non otterrà dal giudice la condanna dell’ente che ha errato a rifondere tutte le spese sostenute, ma dovrà pagarsi l’avvocato da solo. La norma non serve a limitare le ingiuste pretese di avvocati esosi: i giudici falcidiano quotidianamente tali pretese, riducendole a volte in modo drastico: serve – molto più semplicemente – ad impedire che il cittadino impugni una multa o una sanzione amministrativa. Anche indipendentemente dal valore concreto della sanzione - che non sempre, comunque, è irrisorio – la possibilità del ricorso giurisdizionale costituisce una garanzia avverso il potere esecutivo, uno strumento per orientare il comportamento dell’amministrazione ai canoni di buon andamento ed imparzialità. A fronte di un giudizio dall’elevato contenuto tecnico - ancorché dal modesto valore - difatti, l’eventualità che la parte vittoriosa debba comunque accollarsi le spese della difesa tecnica potrebbe scoraggiare la stessa dal proporre l’opposizione.
c) considerano la garanzia costituzionale del diritto di azione un sistema per far cassa.
E gravissimo che, con interventi che si inseguono a distanza di un mese o poco più, si siano previsti aumenti consistenti del contributo unificato, non soltanto a carico dell’attore ma finanche del convenuto. L’ormai continuo reiterarsi di misure che incidono sulle spese di giustizia mette sempre più a rischio l’effettività del precetto costituzionale del diritto d’azione.
Se può essere condivisa la preoccupazione di fondo – che è quella di recuperare risorse per l'efficienza del sistema giudiziario e di scoraggiare l’eccessiva litigiosità – la modalità concretamente prescelta non può non destare profonde perplessità, anche dal punto di vista dell'onerosità di talune previsioni, specie in materia di processo amministrativo (si pensi alle impugnazioni di atti di autorità amministrative indipendenti o per ricorsi in materia di appalti, per i quali sono previsti ben 4.000 euro di contributo e all’introduzione del contributo unificato finanche anche per i ricorsi straordinari al Capo dello Stato) con un conseguente significativo aggravio all’esercizio del diritto di difesa. I costi per il perseguimento degli obiettivi di efficienza sono in buona sostanza addossati in larga misura ai privati cittadini, in particolare a quelli in situazione di sofferenza economica, che vedranno ulteriormente allontanarsi la prospettiva di ottenere giustizia. D’altra parte, però, l'aumento del contributo non costituirà necessariamente un deterrente al contenzioso: se è prevedibile che un incremento delle spese di giustizia possa agire da deterrente in relazione a controversie bagattellari, lo stesso non potrà dirsi per controversie di grande valore economico, talvolta iniziate da soggetti economicamente capienti, al solo scopo di allontanare nel tempo la soddisfazione di crediti di notevole entità.
II. Revisione delle circoscrizioni.
L’Avvocatura non si oppone ed anzi richiede con forza l’intervento del legislatore per individuare ed attuare ogni utile soluzione ad un sistema efficiente della giustizia. Non v’è altro modo, peraltro, per condividere l’invito del legislatore a coniugare la maggiore efficienza con il risparmio di spesa.
Ciò non può che passare, però, attraverso investimenti adeguati di risorse e di una progettualità fin qui assente; attraverso un’organica riforma del processo, che ricomponga e sistemi razionalmente il quadro normativo, elidendo le contraddizioni fin qui indotte dalla disarticolazione degli innumerevoli interventi (mal)eseguiti; attraverso la realizzazione del processo telematico; attraverso un impiego ottimale della magistratura togata che dovrà necessariamente essere impiegata nell’attività giurisdizionale ponendo fine alla pratica dei distacchi.
In questa filiera si inserisce, ma non certo al primo posto, anche l’esigenza di verificare la razionalità dell’attuale distribuzione territoriale delle circoscrizioni giudiziarie.
Tanto premesso, va considerato come ogni ipotesi di revisione-soppressione si pone al di fuori del rispetto delle garanzie costituzionali delle autonomie se è condotta senza ascoltare la voce degli Ordini, o, addirittura, in aperto contrasto con essa. La modifica del tit. V Cost. offre argomenti ulteriori a sostegno di questa tesi ed il nuovo art. 118 Cost. formalizza al massimo grado normativo il principio di sussidiarietà. In ossequio ad esso, qualsiasi decisione deve quindi essere assunta al livello più vicino possibile ai destinatari delle decisioni stesse. L’eventuale soppressione "tout court" dei cosiddetti Tribunali sub provinciali , o minori, cancellerebbe infatti, secondo i dati medi acquisiti dall’Avvocatura, una complessiva e consistente realtà giurisdizionale che, malgrado una scopertura degli organici complessivi di circa il 20%, non accumula ritardi. E ciò, per di più, a raffronto con macrosedi giudiziarie che sembrano ormai sempre più delle caricature di come la giustizia dovrebbe essere resa.
Il giusto approccio al tema dalla geografia giudiziaria non è, quindi, quello di presumere, bensì quello di conoscere.
In quest’ottica, pare perfino paradossale che nessun Governo si sia fin qui chiesto quali costi si dovrebbero sostenere a seguito della eventuale soppressione di sedi giudiziarie e, soprattutto, che si pensi ancor oggi di intervenire sul sistema dell’amministrazione della giustizia con misure non riconducibili ad un progetto organizzativo e gestionale compiuto. Per fare solo alcuni esempi, va ricordato che esistono ineludibili esigenze di edilizia giudiziaria, oltre che penitenziaria e che, per quel che consta, non esiste alcuna analisi sulla congruità, o meno, dei costi che vengono sostenuti. La conseguenza di ciò, abnorme ed inaccettabile, è che il settore resta gravato da costi incerti e per di più disomogenei sul territorio.
La medesima negligenza grava, peraltro, anche sul fronte delle voci attive: quali sono e come vengono destinati i ricavi da C.U., ammende, sanzioni, etc.?
Il particolare e variegato assetto morfologico dell’Italia "fisica" pone altresì la necessità di considerare responsabilmente, senza accelerazioni ideologiche, ma con la consapevolezza che ogni realtà deve essere considerata per quella che effettivamente è e che difficilmente, per questo nostro Paese, così "lungo" e differenziato, possono valere generalizzazioni ed astrazioni concettuali. In questo quadro deve essere valorizzato il ruolo dell’ordine forense, come contropotere nell’amministrazione della giustizia, e come istituzione "informata dei fatti" (diremmo con terminologia penalistica): un legislatore serio dovrebbe sempre ascoltare la voce degli avvocati prima di immaginare revisioni della geografia giudiziaria. E ciò, sia per un’esigenza di rispetto di un’autonomia costituzionalmente riconosciuta, sia per avere un quadro informativo il più possibile articolato, in merito agli uffici sui quali intervenire, sia, infine e soprattutto, per conoscere il punto di vista di chi quegli uffici frequenta quotidianamente nell’esercizio della professione.
E’ indubbio che la mancata consultazione con gli Ordini forensi rischia di partorire effetti "mostruosi" con l’unico effetto di paralizzare il servizio giustizia in molte sedi. Con ciò si fa espresso riferimento allo Schema di decreto legislativo sulla riduzione e soppressione degli uffici del giudice di pace che, se attuato, porterà a conseguenze disastrose in non poche realtà territoriali.
III. Gli ostacoli all’accesso alla giurisdizione.
Oltre al già menzionato aumento del contributo unificato, vanno collocate in questo quadro di vero e proprio "smantellamento" della giurisdizione le norme sulla mediazione finalizzata alla conciliazione. L’Avvocatura non è contraria ai sistemi di risoluzione alternativa delle controversie ma gli stessi non possono e non devono concretizzarsi in forme di ostacolo al ricorso da parte del cittadino al giudice, così come garantito dalla Costituzione.
Alla previsione di una "mediazione" obbligatoria introdotta nel 2010 si affianca oggi l’inasprimento delle sanzioni per la mancata partecipazione al procedimento (d.l. 98/2011 e d.l. 212/2011). A fronte della disposizione che già consentiva al giudice di valutare come argomento di prova (116, comma 2, c.p.c.) nel successivo giudizio «la mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione»; i nuovi interventi prevedono la condanna della parte al «versamento all'entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio» comminata dal giudice in limine litis con ordinanza non impugnabile.
Tali disposizioni introducono un ulteriore meccanismo di coercizione alla partecipazione al procedimento di mediazione. La legittimità costituzionale dei sistemi di risoluzione delle controversie alternativi alla giurisdizione passa, al contrario e necessariamente, attraverso l’assoluta libertà di elezione degli stessi. La previsione di meccanismi di coazione indiretta quali la valutazione del contegno extraprocessuale della parte in sede di decisione della causa (art. 8, comma 5, prima parte), le condanne conseguenti alla mancata accettazione della proposta del difensore (art. 13) e, da ultimo, alla mancata partecipazione al procedimento (art. 8, comma 5, prima parte) costituiscono elementi che - sia pur in maniera indiretta e perciò solo più subdola - rendono più difficoltoso l’accesso alla tutela giurisdizionale dei diritti garantita dall’art. 24 della Costituzione.
Le proposte dell’Avvocatura per il recupero della giustizia civile
E’, dunque, utile focalizzare l’attenzione su quanto ci si attende per migliorare la giustizia civile.
1) L’arretrato civile è problema grave ma il primo passo per affrontarlo è effettuare una stima seria dei processi pendenti.
Non ha senso, difatti, prendere in considerazione quelli di volontaria giurisdizione, duplicare nelle statistiche le impugnazioni principali e quelle incidentali avverso la stessa sentenza e così via. Neppure è utile riferirsi al dato numerico nazionale senza verificare nel dettaglio quali uffici giudiziari siano più impegnati nella gestione dell’arretrato, quanti siano i magistrati in servizio in quelle sedi, per quanti anni vi rimangano. A questo proposito è innegabile che vadano ripensati tanto il sistema delle applicazione dei magistrati che quello delle circoscrizioni giudiziali.
2) E’ utile la responsabilizzazione dei Presidenti degli Uffici Giudiziari tenuti alla predisposizione di un Programma volto a ridurre e a contenere i tempi del contenzioso civile (art. 37, d.l. n. 98/2011)
La predisposizione del Programma dovrebbe coinvolgere maggiormente i COA attraverso consultazioni preventive e verifiche periodiche (a questo fine potrebbero essere utilmente valorizzati gli strumenti già previsti per i Consigli giudiziari). La collaborazione e la condivisione di responsabilità tra gli attori del processo consentirebbero, difatti, il raggiungimento degli obiettivi.
3) Il lavoro dei magistrati va riorganizzato sfruttando prassi virtuose già maturate, recuperandone la produttività e rendendo effettivo lo strumento del processo telematico.
Uno staff di collaboratori che possa coadiuvare il giudicante nella fase che precede la sentenza attraverso la ricostruzione dell’iter processuale fino a quel momento svoltosi, che svolga ricerche sui precedenti o sugli orientamenti della dottrina e così via, ridurrebbe senz’altro i tempi di redazione della decisione contribuendo a limitare quell’interminabile iato temporale che va dalla precisazione delle conclusioni al deposito della sentenza.
A tal fine può essere utile l’introdotta collaborazione con i COA e con le Università con l’organizzazione di stage e di periodi di praticantato presso gli uffici giudiziari di studenti, e praticanti. Non è, invece, ipotizzabile l’idea di spostare l’intervento di ausiliari o soggetti laici nella fase di formazione della decisione. La funzione decisoria deve rimanere di competenza esclusiva del giudice anche ove siano in gioco diritti disponibili. Oltretutto, la previsione della c.d. mediazione delegata (d.lgs. n. 28/2010, art. 5, 2° comma) consente già al magistrato di invitare le parti a concordare una soluzione negoziata della lite, ma al di fuori del contesto processuale e senza snaturare la funzione decisoria.
Le misure sull’informatizzazione del processo non possono rimanere meri proclami legislativi ma necessitano di investimenti seri di risorse economiche e tecniche.
E’, altresì, indispensabile studiare modalità che, nel rispetto delle prerogative costituzionali dei magistrati, consentano un minimo di verifica e controllo della qualità del lavoro svolto. Non è più sopportabile un modello organizzativo nel quale il livello di operosità del magistrato è sostanzialmente rimesso alla buona (o cattiva) volontà del singolo. E’ un lusso che il Paese non può più permettersi. E’ altresì curioso che nella massa di provvedimenti urgenti degli ultimi mesi, nulla di nulla sia stato proposto al riguardo. Meno libri e saggi, meno romanzi e velleità accademiche e più sentenze.
4) La sentenza.
Il codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104/2010, art. 3, 2°comma) dispone opportunamente un dovere di chiarezza e sintesi per tutti gli atti e i provvedimenti. Anche le norme del c.p.c. prevedono la concisione della motivazione (art. 132) e istituti volti a rendere la pronuncia della decisione più celere (281-sexies; 702-ter).
Non sono invece ipotizzabili meccanismi che eliminino la fondamentale garanzia della motivazione o che la vedano subordinata alla richiesta di parte atteso che l’istituto, fornito di copertura costituzionale, costituisce il meccanismo ineliminabile di controllo e verifica della correttezza della decisione.
5) Il sistema dell’appello merita attenzione particolare da parte del legislatore.
Qualcosa è già stato fatto grazie alla previsione di un alleggerimento del modus procedendi delle Corti d’appello (che ora possono utilizzare il modulo decisorio della sentenza a verbale ex art. 281-sexies e in cui l’istruttoria può essere delegata ad un solo consigliere), ma serve di più.
Andrebbe in primo luogo rivista la competenza funzionale delle Corti d’appello. L’attribuzione ad esse del contenzioso derivante dalla c.d. Legge Pinto, ad esempio, ne aggrava inutilmente il ruolo assegnando ad un giudice collegiale un contenzioso sostanzialmente seriale. La collegialità potrebbe, poi, essere utilmente "snellita" anche delegando l’istruzione ad un singolo Consigliere.
Senza immaginare meccanismi sanzionatori automatici che rischiano di comprimere il diritto alla tutela giurisdizionale, occorrerebbe garantire la corretta applicazione delle norme sulle spese giudiziali e sul dovere di lealtà e probità che consentirebbero di stigmatizzare la proposizione di impugnazioni inammissibili o manifestamente infondate.
Si tratta di spunti, di riflessioni che meritano di essere approfondite, ma il metodo è chiaro: la consultazione della base, la ricerca di soluzioni condivise con tutti gli attori del sistema processuale costituiscono l’unica maniera responsabile di affrontare i problemi che da troppo tempo gravano sul settore civile.
6) L’Avvocatura può essere utilmente coinvolta nelle misure volte alla riduzione del contenzioso civile.
Lo stato di forte crisi economica che interessa tanto il contesto nazionale che quello internazionale non lascia presagire iniezioni di liquidità nel comparto giustizia né interventi strutturali e perciò costosi, cosicché per fare fronte alla grave situazione della giustizia civile occorre ipotizzare soluzioni che "spostino" una fetta del contenzioso al di fuori della giurisdizione propriamente detta defatigando così i ruoli giudiziari. In questo contesto l’Avvocatura sente impellente il bisogno di essere alfiere del rinnovamento, di dimostrarsi soggetto capace di accettare le sfide che la complessità del momento richiede, di farsi portavoce dell’interesse dei cittadini – che rappresenta e difende nelle aule giudiziarie – ad avere una giustizia civile effettiva, equa, rapida.
I sistemi alternativi di risoluzione della controversia debbono essere in linea con il sistema costituzionale e rispettosi della domanda di una giustizia efficiente e qualitativamente elevata proveniente dal cittadino e dall’Europa.
In tale ottica la classe forense propone misure semplici che impegnano direttamente la classe forense. In particolare, l’Avvocatura è, dunque, pronta a intervenire per riportare a normalità una situazione drammatica e non più sostenibile.
A ben vedere si tratta di una controproposta alla figura dei c.d. "giudici ausiliari" presente nel disegno di legge n. 2612 come nelle prime bozze della legge di stabilità n. 183/2011. Tale progetto immagina un coinvolgimento attivo degli avvocati nel contenimento dell’arretrato civile. Gli avvocati con «adeguata esperienza e ragionevole affidabilità» selezionati dai Consigli dell’Ordine di appartenenza «in base ad una valutazione di tipo attitudinale» sarebbero chiamati a decidere talune specifiche controversie individuate dai Presidenti dei Tribunali (con esclusione delle liti affidate alla competenza del collegio e di ulteriori specifiche materie).
7) La ricerca di soluzioni stragiudiziali della controversia può essere assolta da meccanismi più snelli della mediazione: la convenzione partecipativa di negoziazione assistita.
La procedura partecipativa di negoziazione assistita da un avvocato o «accordo di negoziazione», confluita nel disegno di legge n. 2772 pendente al Senato, riprende una soluzione di recente prevista nel codice civile francese. Si tratta di una procedura di conciliazione condotta dagli avvocati assieme alle parti il cui atto conclusivo è sottoposto all’omologazione giudiziale. Può essere utilizzata per tutte le controversie civili relative a diritti disponibili nonchè «per cercare una soluzione consensuale della separazione o del divorzio, o della modifica delle loro condizioni, o per la regolamentazione dei rapporti tra genitori non coniugati». «Il decreto di omologa del Presidente del Tribunale costituisce titolo esecutivo e titolo per la trascrizione, l'annotazione o l'iscrizione o per la cancellazione di qualsiasi formalità immobiliare» (art. 9, 3° comma).
La procedura prende l’avvio con la redazione e sottoscrizione dell’apposita convenzione che consiste in un accordo mediante il quale le parti in conflitto, che non hanno ancora adito per la controversia un giudice o un arbitro, convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l'assistenza dei propri legali. Viene anche previsto l’impegno a tenere riservate le informazioni non conosciute o non conoscibili che le parti si scambiano durante la procedura, salvo concordare la possibilità di produrre in giudizio la relazione riguardante gli aspetti tecnici della questione stesa con l'ausilio di esperti e consulenti nominati dalle stesse parti.
L’espletamento di questa procedura, come nuovo strumento di definizione delle controversie offerto al cittadino, esonera le parti dalla conciliazione e dalla mediazione, nei casi in cui sono previste dalla legge, come anche previsto dalla legge francese.
La procedura partecipativa di negoziazione assistita da un avvocato può anche essere effettuata per cercare una soluzione consensuale della separazione o del divorzio, o della modifica delle loro condizioni, o per la regolamentazione dei rapporti tra genitori non coniugati.
Tale procedura fa leva sulle funzioni proprie dell'avvocato, rafforza la qualità del sua prestazione professionale, impone allo stesso un’assunzione di responsabilità sia sotto il profilo della competenza professionale che della deontologia, laddove si amplia la sua competenza a certificare non solo l'autenticità della firma della parte che assiste, ma anche ad attestare che il contenuto dell'accordo corrisponde alla volontà espressa dalle parti; assicura, tramite l’omologa del giudice, sul piano sociale una "sicurezza giuridica" degli accordi raggiunti senza diminuire le tutele per il cittadino.
Schede tematiche di approfondimento e di proposta sull’ordinamento professionale.
Di seguito una serie di schede di approfondimento sugli argomenti di maggior rilievo e di proposte operative nella prospettiva di riforma dell’ordinamento professionale.
I cambiamenti che l’Avvocatura vuole urgentemente e con legge
Sull’inaccettabilità della "delegificazione".
L’Avvocatura – che attende la riforma dell’ordinamento professionale ormai da troppi anni – è consapevole della necessità del cambiamento del sistema che lo renda più efficiente e competitivo perciò chiede che vuole che si intervenga con urgenza e con legge.
E’, difatti, inaccettabile la prospettiva della delegificazione, introdotta in forza dell’intervento operato dalla c.d. "legge di stabilità" (art. 10, l. 183/2011) sull’art. 3, comma 5 del d.l. 138/2011 (convertito in legge n. 148/2011) sul quale è intervenuto altresì il c.d. decreto "Salva Italia" (D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con modificazioni dalla l. 22 dicembre 2011, n. 214) che, modificando la norma in esame, l’abrogazione delle norme di disciplina delle professioni, anche in mancanza dell’adozione del regolamento in delegificazione, a far data dal 13 agosto 2012. Tale previsione, oltre a contraddire l’art. 17, comma 2, l. 400/88 – che, nel disciplinare l’istituto della delegificazione, prevede che gli effetti dell’abrogazione della disciplina "delegificata" decorrano dall’entrata in vigore del regolamento – è in contrasto con la ratio dell’istituto che prevede appunto la sostituzione della disciplina resa con fonte primaria con altra disciplina resa da fonte secondaria, e non un’abrogazione totale.
All’esito dell’effetto abrogativo disposto dall’ultima modifica, infatti, in mancanza della disciplina di delegificazione, si sarebbe in presenza di un totale vuoto normativo, in spregio all’intento di semplificazione sotteso all’istituto della delegificazione. Si rileva, in particolare, che rimarrebbe sprovvisto di copertura normativa l’esercizio della potestà disciplinare, con ricadute pesantissime in materia di controllo sul corretto esercizio della professione nonché, più in generale, sui procedimenti pendenti e sulla stessa certezza del diritto.
L’approvazione dell’emendamento dei relatori che restringe la portata dell’effetto abrogativo alle sole norme contrastanti con i principi di cui all’art. 3, comma 5, ha - almeno - il pregio di escludere gli esiti più aberranti della radicale abrogazione della totalità degli ordinamenti professionali. Simile ipotesi interpretativa era stata peraltro seguita, nei lavori preparatori, dalla Commissione affari costituzionali della Camera dei Deputati; questa, nel parere del 7 dicembre, pone tra le condizioni al parere favorevole - al punto 7 - proprio l’adozione di una disciplina transitoria relativa "alle funzioni attualmente svolte dagli ordini professionali, che hanno anche, in diversi casi, un rilievo pubblicistico", così censurando, in buona sostanza, l’automatica produzione dell’effetto abrogativo al 13 agosto.
Allo stesso tempo, peraltro, ed anche alla luce del parere citato, l’approvazione dell’emendamento dei relatori non determina il superamento delle rilevate criticità, evidenziandone anzi di ulteriori ed altrettanto gravi. Vale rilevare, infatti, che anche l’ipotesi di abrogazione delle sole norme contrastanti con i principi di cui all’art. 3, comma 5 appare suscettibile di provocare la più grande incertezza per ciò che riguarda l’estensione degli effetti della clausola abrogativa. Chi determinerà, in altre parole, l’effettiva portata della clausola abrogativa? Ed in particolare, a chi spetterà decidere quali norme degli ordinamenti professionali vigenti si pongano effettivamente in contrasto con i principi di cui all’art. 3, comma 5? Principi scritti appunto come tali in modo generico: ricordiamo che la disposizione nasce nella manovra d’agosto, costruita come insieme di principi cui il legislatore futuro avrebbe dovuto conformarsi, e solo dopo viene trasformata in presupposto della delegificazione. La fissazione di norme generali regolatrici della materia cui il Governo dovrebbe attenersi nell’esercizio della potestà regolamentare autorizzata dalla legge di cui all’art. 17, comma 2, l. 400/88 (cd. legge di delegificazione, in questo caso l’art. 3, comma 5 più volte richiamato) è infatti coessenziale e legata a doppio filo all’emanazione del regolamento in delegificazione e tale legame è strettamente connesso, a sua volta, alla produzione dell’effetto abrogativo. Il differimento dell’effetto abrogativo (disposto dalla legge di delegificazione) al momento di entrata in vigore del regolamento, meccanismo tipico del processo di delegificazione, deriva dalla necessità che, con l’emanazione del regolamento, divenga chiaro quali sono gli ambiti normativi specificamente investiti dall’esercizio del potere regolamentare, per cui l’individuazione delle norme abrogate dovrebbe avvenire normalmente proprio in sede di esercizio della potestà regolamentare trattandosi peraltro di mera specificazione della clausola abrogativa prevista dalla legge, e non già di autonoma disposizione abrogante, stante l’impossibilità per il regolamento di abrogare la legge. Nella fisiologia dell’istituto, insomma, l’abrogazione è strettamente correlata all’adozione di altra e diversa disciplina, che si profila quale onere a carico del Governo, il quale non può raggiungere l’effetto abrogativo se non si fa carico di provvedere a produrre una diversa regolazione della materia. Nessuna abrogazione automatica correlata al mero scadere di un termine è dunque ammissibile in un processo di delegificazione costituzionalmente coerente: il mero trascorrere del tempo, peraltro, sarebbe peraltro addebitabile solo allo stesso Governo, che in questo modo potrebbe anche non adottare alcun regolamento in delegificazione, lasciar scadere il termine, e poi adottare il citato testo unico ricognitivo. Con il che avremmo un risultato palesemente incostituzionale: se infatti con una delegificazione corretta la legge non perde la potestà di decidere della propria efficacia ed è essa stessa a prevedere l’abrogazione di altre disposizioni di legge quando e purché sia adottato il regolamento, con l’improprio meccanismo qui scelto è il Governo a divenire arbitro unico della situazione, perché scegliendo non già di disporre una nuova regolazione della materia con fonte subordinata, bensì semplicemente di non fare nulla e lasciare trascorrere il termine, di fatto usurpa il potere di decidere della efficacia nel tempo di fonti primarie (potere che è e deve restare alla legge e al Parlamento). Non riequilibra la situazione la previsione della potestà del Governo di adottare un decreto che raccolga le disposizioni aventi forza di legge che non risultano abrogate per effetto del comma 5-bis in un testo unico da emanarsi ai sensi dell'articolo 17-bis, della legge 23 agosto 1988, n. 400. Seppur in astratto tale previsione può sembrare almeno un passo avanti nella promozione del valore della certezza del diritto, in concreto la previsione non fa che aumentare ulteriormente il potere governativo di abrogazione, riservando appunto all’esecutivo il compito di "dichiarare" quali norme di rango primario siano abrogate e quali non lo siano. È facile immaginare quanto contenzioso potrebbe sorgere in caso di esercizio scorretto di tale potere governativo, con il che si perde immediatamente quell’apparente passo avanti in termini di certezza del diritto di cui si è fatto cenno.
I. L’indipendenza dell’avvocato nella giurisprudenza comunitaria.
1. Con sentenza del 14 ottobre 2010, la Corte di giustizia si è pronunciata, in grado di appello, sul ricorso presentato dalle imprese Akzo Nobel e Akros contro una decisione della Commissione europea in materia di concorrenza. Il thema decidendum nel ricorso in questione era il seguente: se, nell’ambito di una procedura antitrust condotta dalla Commissione, debba considerarsi coperta dal segreto professionale la corrispondenza che intercorre fra un’impresa ed il proprio legale interno, qualora questo sia iscritto ad un albo professionale e soggetto ad un codice deontologico ed ai poteri di disciplina dell’ordine di appartenenza. Nel caso di specie, la Commissione aveva sequestrato nel corso di un ispezione cinque documenti scambiati fra l’impresa Akros ed il direttore del servizio giuridico della Akzo, iscritto all’ordine olandese col titolo di "advocaat in dienstbetrekking". Le imprese interessate avevano proposto ricorso innanzi al Tribunale dell’UE, che lo aveva rigettato. La Corte è stata dunque adita in grado d’appello, avverso la sentenza di rigetto emessa dal Tribunale.
2. La Corte ha rigettato il ricorso, basando la propria decisione sul proprio leading case in materia: la sentenza AM & S (Sentenza 18 maggio 1982, Causa 155/79, AM & S c. Commissione). Nella sentenza citata, la Corte aveva stabilito che nei procedimenti in materia di concorrenza la corrispondenza fra cliente ed avvocato è protetta dal segreto a condizione che ricorrano, cumulativamente, due condizioni: 1) che la consulenza cui la corrispondenza attiene sia chiesta e fornita nell’ambito dell’esercizio dei diritti della difesa e 2) che le comunicazioni provengano da, o siano dirette a, un avvocato esterno.
3. La Corte, nel dichiarare l’infondatezza gli argomenti delle imprese ricorrenti, ha esaminato i requisiti posti dalla propria giurisprudenza con riferimento allo status dell’avvocato, affermando che l’appartenenza ad un ordine professionale e la soggezione alle regole di deontologia e disciplina sono condizione necessaria, ma non sufficiente, perché un professionista possa essere ritenuto pienamente indipendente. La piena indipendenza si realizza solamente quando l’avvocato opera al di fuori da un rapporto subordinato con l’impresa, a prescindere dalle condizioni contrattuali che caratterizzano tale rapporto. Il rapporto di impiego di un avvocato pone il professionista in una situazione che, "per sua stessa natura, non consente all’avvocato interno di discostarsi dalle strategie commerciali perseguite dal suo datore di lavoro e che dunque influisce sulla capacità di agire con indipendenza professionale." La Corte rileva infine che la disciplina olandese, che ammette all’esercizio della professione di avvocato i giuristi d’impresa, "non è in grado di garantire un’indipendenza comparabile a quella di un avvocato esterno" a favore degli stessi giuristi (cfr. punti da 42 a 47).
4. Di interesse, in quanto richiamata dalla Corte, l’analisi svolta dall’Avvocato generale Kokott, la quale ha proposto la tesi secondo la quale "il concetto di indipendenza dell’avvocato viene determinato non solo in positivo, mediante un riferimento alla disciplina professionale, bensì anche in negativo, vale a dire con la mancanza di un rapporto di impiego. Un avvocato interno, nonostante la sua iscrizione all’ordine forense e i vincoli professionali che ne conseguono, non gode dello stesso grado di indipendenza dal suo datore di lavoro di cui gode, nei confronti dei suoi clienti, un avvocato che lavora in uno studio legale esterno. Pertanto, per un avvocato interno è più difficile che per un avvocato esterno risolvere eventuali conflitti fra i suoi doveri professionali e gli obiettivi del suo cliente" (Sentenza, punto 45 e conclusioni, punti 60 e 61).
5. Il precedente conferma la positività dell’opzione accolta nel disegno di legge di riforma dell’ordinamento forense attualmente in discussione alla Camera, ovvero la incompatibilità dell’esercizio professionale con la condizione di dipendente (pubblico o privato), pure revocata in dubbio in una certa fase dei lavori parlamentari in Senato.
II. Il tirocinio professionale.
Il tirocinio professionale merita di essere riformato.
Attualmente l’istituto è regolato dal Capo I del Titolo I del regio decreto 37/1934 in base al quale possono svolgere la pratica tutti i laureati in giurisprudenza che siano stati ammessi da un avvocato a frequentare il proprio studio. E’ invece il D.P.R. 10 aprile 1990, n. 101 che disciplina nel dettaglio la pratica forense per l'ammissione dell'esame di Stato. La pratica forense ha una durata di 24 mesi e si svolge principalmente presso lo studio e sotto il controllo di un avvocato "e comporta il compimento delle attività proprie della professione" (art.1, d. p. r. n. 101/1990). Tuttavia la frequenza dello studio professionale può essere sostituita, per un periodo non superiore ad un anno, dalla frequenza di corsi post-universitari previsti ovvero delle scuole di specializzazione per le professioni forensi. Costituisce integrazione della pratica forense, contestuale al suo normale svolgimento la frequenza delle scuole di formazione professionale istituite dai Consigli dell’Ordine.
L’art. 33 del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201 riduce a diciotto mesi la durata massima del tirocinio professionale. Già l’art.37, comma 4 del d.l. n. 98/2011 ha previsto che il primo anno dello stesso possa essere svolto presso gli uffici giudiziari. Lo schema di decreto legge in materia di liberalizzazioni pare addirittura prevedere che il tirocinio professionale possa essere svolto durante l’ultimo biennio degli studi universitari e, dunque, presso le Università prima del conseguimento del diploma di laurea e non già successivamente e presso gli studi professionali (art. 9).
Si tratta di norme francamente inaccettabili che dequalificano la professione forense a tutto discapito della qualità della prestazione e, per l’effetto, della qualità del servizio giustizia.
Al contrario il testo di riforma dell’ordinamento professionale attualmente all’esame della Camera (AC 3900), prevede elementi di innovazione qualificanti rispetto al sistema attuale.
Al "tirocinio professionale", consistente nell’addestramento, a contenuto teorico e pratico, del praticante avvocato, sono dedicati gli articoli da 39 a 43 (capo I). Se dal punto di vista dei tempi, la durata biennale della pratica è confermata, il progetto di legge stabilisce che il tirocinio pratico debba essere accompagnato da un approfondimento teorico – sempre biennale – da realizzare attraverso la frequenza di appositi corsi di formazione, al termine dei quali è prevista una verifica dell’apprendimento. Una forma di garanzia di serietà è prevista anche per la figure del dominus: deve avere almeno cinque anni di anzianità e non può avere contemporaneamente presso di sé più di tre praticanti (art. 39, commi 6 e 7) cosicché il tirocinio "si svolga in modo proficuo e dignitoso".
L’art. 42 si preoccupa, poi, di chiarire – ed è una delle previsioni di maggior evoluzione – che il tirocinio oltre che nella pratica svolta presso uno studio professionale "consiste altresì nella frequenza obbligatoria e con profitto" per lo stesso periodo di ventiquattro mesi "di corsi di formazione a contenuto professionalizzante tenuti da ordini e associazioni forensi" aventi un carico didattico non inferiore a 160 ore per l’intero biennio. La frequenza dei corsi di formazione da parte del praticante avvocato prevede verifiche intermedie e una verifica finale del profitto, affidate a una commissione composta di avvocati, magistrati e docenti universitari in modo da garantire omogeneità di giudizio su tutto il territorio nazionale. Al fine di evitare gli inconvenienti verificatisi in passato (il cosiddetto "turismo d’esame") si è confermata la regola che il praticante avvocato è ammesso a sostenere l’esame di Stato nella sede di Corte d’appello nel cui distretto ha svolto il maggior periodo di tirocinio. Compiuto il biennio di tirocinio viene rilasciato (art. 43) il relativo certificato che consente di partecipare all’esame di Stato.
III. La riserva della consulenza legale.
Deve innanzi tutto contestarsi decisamente che l’ordinamento comunitario osti ad una scelta del legislatore nazionale di sottoporre a riserva l’attività di consulenza legale, se svolta professionalmente.
Basti al riguardo considerare il più recente e politicamente significativo atto normativo comunitario di indirizzo in tema di servizi professionali e di liberalizzazione degli stessi: la Direttiva Bolkestein, ovvero la direttiva 2006/123/CE recepita in Italia con il d. lgsl. n. 59 del 2010, entrato in vigore l’8 Maggio 2010.
Sotto il profilo qui indicato, la direttiva servizi non prende posizione, o se la prende, lo fa in modo coerente con la tradizione normativa italiana in materia di libere professioni.
La controprova di tale ragionamento è offerta dalla lettura stessa della direttiva. Ai sensi di uno specifico considerando, il n. 88, sono compatibili con essa sistemi normativi nazionali che addirittura sottopongano a riserva l’attività di consulenza legale: "88. La disposizione sulla libera prestazione di servizi non dovrebbe applicarsi nei casi in cui, in conformità del diritto comunitario, un’attività sia riservata in uno Stato membro ad una professione specifica, ad esempio qualora sia previsto l’esercizio esclusivo della consulenza giuridica da parte degli avvocati". Il che accade, per esempio, in Portogallo, con la legge 24 agosto 2004 n. 49. Ciò che importa sottolineare è che la disposizione appena citata conferma come un Paese può introdurre una simile riserva di attività "in conformità al diritto comunitario".
Esistono numerose ragioni che depongono a favore di una eventuale scelta del legislatore nazionale a favore dell’esplicito assoggettamento a riserva della consulenza legale.
La prima ragione consiste nella doverosa concezione unitaria della professione forense.
Tale visione non appartiene ai desiderata della categoria, ma è radicata nell’ordinamento, è immanente, potremmo dire, alla logica del sistema: che logica vi è nel radiare dall’albo un professionista che si macchi di gravi responsabilità disciplinari, se questi, appena subita la sanzione, può tranquillamente fornire pareri legali alla clientela? Quale tutela della fede pubblica realizza una situazione quale quella da ultimo descritta? La professione forense è un’insieme di attività che devono essere considerate unitariamente, in maniera onnicomprensiva; basti avere riguardo ad una serie di elementi, che non sono rivendicazioni corporative, ma dati di diritto positivo. La professione, infatti è:
- oggetto di tassazione senza differenze
- oggetto di prelievo previdenziale, senza differenze
- oggetto di responsabilità civile e penale, senza differenze
- oggetto di responsabilità deontologica, senza differenze.
La distinzione, dunque, tra attività giudiziale e stragiudiziale, ha carattere meramente fattuale, salve le disposizioni speciali che riguardano la partecipazione dell'avvocato al giudizio nella qualità di rappresentante e di difensore. Ma queste regole riguardano il processo, non la categoria professionale, e neppure la natura giuridica dell'attività, in quanto tale.
La consulenza legale, infatti, come ogni prestazione professionale dell’avvocato, è oggetto di uno specifico contratto che ha regole sue proprie: il contratto di prestazione professionale, che può essere forse considerato un tipo speciale di contratto d’opera. In questo contratto assume un rilievo determinante il profilo soggettivo di una delle due parti contrattuali: deve trattarsi di soggetto che ha non solo una particolare qualificazione tecnico-culturale, ma che si muove nella vicenda in questione in condizioni di indipendenza e autonomia intellettuale. Tutte condizioni che debbono presidiare non solo alla attività giudiziale, ma anche alle attività di assistenza e consulenza, se correttamente intese.
Anche sul fronte dell’antiriciclaggio, le direttive europee in materia, e gli atti italiani di recepimento presentano una concezione unitaria della professione: infatti, sono esonerate dall’obbligo di segnalazione non solo le informazioni acquisite dall’avvocato nel corso della difesa giudiziale, ma anche quelle raccolte nell’"esame della posizione giuridica del cliente", cioè nell’attività di consulenza legale.
Deve peraltro segnalarsi che non sono mancate pronunzie giudiziali che hanno riconosciuto – già allo stato attuale della legislazione vigente – la soggezione a riserva dell’attività di riserva svolta professionalmente. Si consideri innanzi tutto il bene giuridico tutelato dalla norma di cui all’art. 348 c.p. (e a ben vedere dall’intero impianto dell’assetto normativo delle professioni regolamentate), cioè quello della "necessità di tutelare il cittadino dal rischio di affidarsi, per determinate esigenze, a soggetti inesperti nell’esercizio della professione, o indegni di esercitarla"; "la libera professione, per la sua naturale attitudine a soddisfare bisogni collettivi rilevanti anche per l’interesse generale della comunità, e per la funzione di mediazione che spesso svolge tra lo Stato e il cittadino, ha una rilevanza sociale e pubblica". Così, espressamente, Cassazione, sentenza n. 1151/02.
Il punto è la protezione del ragionevole affidamento del cittadino che, dovendo usufruire di una prestazione professionale, si rivolge ad un professionista che ha superato un esame di Stato di abilitazione, e che è membro di un ordinamento sezionale che lo assoggetta ad una serie di prescrizioni di ordine deontologico e ad un sistema - il procedimento disciplinare - che può rilevare e far valere le violazioni dei suoi doveri.
Da qui la distinzione tra atti riservati espressamente dalla legge agli iscritti negli albi, ed atti non riservati ma comunque caratteristici della professione, ed il cui compimento può essere considerato libero solo se non condotto in forma sistematica ed organizzata, e dietro corrispettivo. Solo, insomma, se non è svolto in modo professionale.
Più recentemente, la Corte di Cassazione - con la sentenza n. 9237/2007 della terza sezione civile – ha superato l’ambiguità sul sistema delle competenze professionali, dovute alla tradizionale incertezza sulla ripartizione tra prestazioni "riservate" e prestazioni "protette". Come afferma la Corte, "le attività di assistenza e consulenza in materia legale e tributaria rientrano tra le prestazioni professionali protette che possono essere svolte soltanto da professionisti iscritti ai relativi albi".
Da ultimo, può essere utile ricordare una fondamentale pronunzia della Corte di giustizia dell’Unione, che non riguarda l’avvocato, bensì il farmacista, ma che per la sua importanza è senz’altro destinata a diventare un leading case nella materia delle attività riservate (Corte di Giustizia UE, 19 maggio 2009, nella causa C-531/06). Il giudizio aveva ad oggetto il ricorso per inadempimento, ai sensi dell’art. 226 CE, proposto il 22 dicembre 2006 dalla Commissione delle Comunità europee, contro la Repubblica italiana, avendo questa mantenuto in vigore:
- una legislazione che riserva il diritto di gestire una farmacia al dettaglio privata alle sole persone fisiche laureate in farmacia e alle società di gestione composte esclusivamente da soci farmacisti;
– disposizioni legislative che sanciscono l’impossibilita, per le imprese di distribuzione di prodotti farmaceutici, di acquisire partecipazioni nelle società di gestione di farmacie comunali, venendo meno agli obblighi ad essa imposti dagli artt. 43 CE e 56 CE.
Osserva la Corte: "… riguardo al gestore che possiede la qualità di farmacista, come non si possa negare che esso persegua, come altre persone, una finalità di lucro.
Tuttavia, in quanto farmacista di professione, si ritiene che quest’ultimo gestisca la farmacia in base non ad un obiettivo meramente economico, ma altresì in un’ottica professionale. Il suo interesse privato, connesso alla finalità di lucro, viene quindi temperato dalla sua formazione, dalla sua esperienza professionale e dalla responsabilità ad esso incombente, considerato che un’eventuale violazione delle disposizioni normative o deontologiche comprometterebbe non soltanto il valore del suo investimento, ma altresì la propria vita professionale.
A differenza dei farmacisti, i non farmacisti non hanno, per definizione, una formazione, un’esperienza e una responsabilità equivalenti a quelle dei farmacisti. Pertanto si deve constatare che essi non forniscono le stesse garanzie fornite dai farmacisti.
Di conseguenza uno Stato membro può ritenere, nell’ambito del suo margine di discrezionalità, che la gestione di una farmacia da parte di un non farmacista, a differenza della gestione affidata ad un farmacista, possa rappresentare un rischio per la sanità pubblica, in particolare per la sicurezza e la qualità della distribuzione dei medicinali al dettaglio, poiché la finalità di lucro, nell’ambito di una siffatta gestione, non incontra elementi temperanti quali quelli più sopra ricordati.
Uno Stato membro può pertanto, in particolare, nell’ambito di detto margine di discrezionalità, valutare se un tale rischio esista con riferimento ai produttori e ai commercianti all’ingrosso di prodotti farmaceutici, per il motivo che questi ultimi potrebbero pregiudicare l’indipendenza dei farmacisti stipendiati incitandoli a promuovere i medicinali da essi stessi prodotti o commercializzati. Del pari, uno Stato membro può valutare il rischio che i gestori non farmacisti compromettano l’indipendenza dei farmacisti stipendiati, incitandoli a smerciare medicinali il cui stoccaggio non sia più redditizio, o procedano a riduzioni di spese di funzionamento che possono incidere sulle modalità di distribuzione al dettaglio dei medicinali.".
È di tutta evidenza che le considerazioni qui offerte sono potenzialmente suscettibili di estensione analogica anche ad altre professioni, in ispecie a quelle, come l’avvocato, il cui esercizio incide su di un diritto fondamentale quale il diritto di difesa. Occorre pertanto riconoscere, con la Corte di giustizia, che il diritto comunitario non osta ad una legislazione nazionale che riservi l’esercizio di attività professionali incidenti su di ritti fondamentali ad una categoria di soggetti particolarmente qualificata e soggetta a severi regimi di responsabilità.
Il dibattito è dunque aperto in tutta Europa. In Portogallo, come accennato, la legge 24 agosto 2004 n. 49 ha espressamente riconosciuto agli avvocati l’esclusiva per l’attività di consulenza svolta in forma professionale, ribadendo la legittimazione processuale dell’ordine per reprimere i contegni abusivi. Si ritiene pertanto che la riforma dell’ordinamento forense possa validamente contemplare la soggezione a riserva dell’attività di consulenza legale, se svolta in modo continuativo e professionale. Da ultimo si voglia considerare una notazione de iure condendo, in riferimento agli scenari prossimi nei quali il mestiere intellettuale di avvocato, con tutta probabilità, è destinato ad inserirsi. Si dice da più parti che l’area della giurisdizione è troppo ampia, che occorre deflazionare la macchina della giustizia, che vanno potenziate e sviluppate tutte le tecniche di modalità di risoluzione alternativa delle controversie, prima e fuori dal processo. In questo quadro, il mancato riconoscimento della natura delle attività di consulenza può ulteriormente restringere il campo di attività dell’avvocato, confinandolo sempre più nella "riserva indiana" del processo, non cogliendo come la funzione di cura degli interessi della parte necessiti dell’avvocato anche prima e al di fuori della fase giudiziale.
IV. La specializzazione dell’avvocato.
Nel medesimo alveo tendente al recupero di qualità e dignità della professione forense stanno le proposte avanzate in materia di specializzazione dell’avvocato. Il progetto di riforma dell’ordinamento professionale attualmente all’esame della Camera (AC 3900) presidia tale esigenza attraverso specifiche previsioni normative garantendo la verifica delle effettive competenze e conoscenze del professionista che intenda fregiarsi del titolo.
In particolare le modalità per l’acquisizione da parte degli avvocati del titolo di specialista sono rimesse ad un regolamento attuativo. Tale regolamento dovrà tra l’altro disciplinare : le possibili specializzazioni, i percorsi formativi biennali (almeno 150 ore complessive) le sanzioni per l’uso indebito del titolo di specializzazione.
All’esito della frequenza ai corsi di formazione l’avvocato dovrà sostenere un esame di specializzazione, presso il CNF e dinanzi ad una commissione composta oltre che di avvocati anche di docenti universitari e magistrati a riposo, il cui esito positivo è condizione necessaria per l’acquisizione del titolo (comma 3). Il titolo di specialista viene dunque conferito dal CNF e può essere revocato (comma 4) se il professionista non cura il proprio costante aggiornamento professionale.
V. Le società di capitali.
La possibilità di costituire società di capitali per l'esercizio di attività professionali regolamentate nel sistema ordinistico è prevista dall’art. 10 della c.d. "legge di stabilità" (art. l. 183/2011). Tali società potranno essere partecipate da professionisti anche appartenenti ad ordini e realtà professionali tra loro disomogenee (società che potremmo definire "multidisciplinare"), nonché da «cittadini degli Stati membri dell’ Unione europea, purché in possesso del titolo di studio abilitante». L’ingresso come soci nelle summenzionate società di professionisti, sembrerebbe dunque consentito anche a soggetti non iscritti ad ordini, albi e collegi, ma in possesso di un titolo di studio abilitante (disposizione di non semplice esegesi). Inoltre, è esplicitamente consentito l’ingresso anche di soci non professionisti, purché 1) si tratti di soggetti che svolgono prestazioni tecniche; ovvero 2) abbiano finalità d’investimento. Rispetto alle bozze circolate in precedenza è stato rimosso il divieto per tali soci «di partecipare alle attività riservate e agli organi di amministrazione della società».
E’ di tutta evidenza come la su vista forma societaria finisca con il sacrificare i principi fondanti della professione forense quali l’indipendenza, l’autonomia, il segreto professionale.
Ed infatti l’avvocato verrebbe ad assumere di fatto la veste di dipendente del socio di capitale di mero investimento, quale potrebbe essere una banca, una società di assicurazione, una società di servizi eccetera; da ciò la insita rinuncia all’autonomia e all’indipendenza del professionista. Di più, il "datore di lavoro", potrebbe a ragione pretendere, considerata l’esclusiva vocazione al lucro della struttura, di verificare l’operato dell’avvocato, ad esempio richiedendo di accedere per tali verifiche ai singoli fascicoli, con buona pace del segreto professionale e del rapporto fiduciario con l’assistito.
E’, pertanto, evidente come dietro il tipo societario proposto vi sia l’obiettivo di ridurre l’avvocato ed esecutore dei voleri dei detentori di grandi capitali.
Non potendosi accettare il sacrifico dei principi della professione su richiamati se non a prezzo dello svilimento del diritto alla difesa come costituzionalmente garantito, si dovrà piuttosto ammodernare e attualizzare la forma della società tra professionisti (prevista dalla l. n. 96/2001) o, al più, ammettere la possibilità di costituzione di società cooperative o società a responsabilità limitata a capitale esclusivamente professionale e, quindi, con esclusione di soci di investimento.
VI. Le Tariffe.
E’ molto recente l’ultima presa di posizione della Suprema Corte di Cassazione che ha riconosciuto l’utilità del sistema tariffario per la salvaguardia della qualità del servizio professionale (Cass., 21 ottobre 2011, n. 21934).
E’ utile e serio perciò ripercorrere le tappe della posizione della giurisprudenza europea e nazionale sul tema delle tariffe rispetto alle quali l’arrêt della Corte si colloca in maniera del tutto armonica
Il primo capitolo di questa vicenda è venuto dalla oramai risalente e assai nota sentenza Arduino del 2002 (causa C-35/99).
Il giudice remittente, in quel caso, aveva adito la Corte del Lussemburgo per far rilevare la asserita violazione dell'art. 85 trattato CE da parte della normativa italiana in materia di tariffe forensi, deducendo che queste, adottate da un ente qualificabile come associazione di imprese (il Consiglio nazionale forense) integrerebbero intese restrittive della libertà di concorrenza. In buona sostanza l'oggetto del contendere era proprio la compatibilità con il quadro normativo comunitario del sistema tariffario vigente in Italia per l'esercizio della professione forense. Ovvero la compatibilità con il quadro comunitario di un elemento normativo di notevole importanza per la definizione del modello ordinistico italiano: la sentenza era infatti particolarmente attesa in Italia, dove da alcuni anni, a partire da una indagine conoscitiva avviata nel 1994 dall'Autorità garante per la concorrenza ed il mercato, si dibatte intorno al sistema degli ordini professionali.
La conclusione cui è arrivata la Corte è la piena compatibilità dei sistemi tariffari con il diritto comunitario della concorrenza, nel momento in cui afferma che "gli artt. 5 e 85 del Trattato CE (divenuti artt. 10 CE e 81 CE) non ostano all'adozione da parte di uno Stato membro di una misura legislativa o regolamentare che approvi, sulla base di un progetto stabilito da un ordine professionale forense, una tariffa che fissa dei minimi e dei massimi per gli onorari dei membri dell'ordine, qualora tale misura statale sia adottata".
Da ciò l'importante conseguenza che non spetta al giudice nazionale compiere una valutazione caso per caso e applicare o disapplicare le tariffe se non ha motivo di ritenere che siano state adottate nell'interesse nazionale. La valutazione l'ha già compiuta una tantum la Corte di giustizia.
La linea argomentativa sostenuta dalla Corte poggiava fondamentalmente sul riconoscimento del fatto che le tariffe professionali, seppur proposte dall'ordine, sono comunque approvate dal Ministro della Giustizia, dietro parere del Consiglio di Stato e del CIP, e che dunque l'atto è sostanzialmente oltre che formalmente imputabile ad un'autorità dello Stato. Ciò impedirebbe di riconoscerne l'origine in organismi espressione della categoria che rende le prestazioni professionali e che avrebbe perciò interesse a promuovere intese restrittive della concorrenza. Peraltro l’art. 60 del regio decreto legge 27 novembre 1933, n. 1578 dispone che la liquidazione degli onorari sia effettuata dagli organi giudiziari in base ai criteri stabiliti dall’art. 57 del medesimo decreto legge, tenuto conto della gravità e del numero delle questioni trattate. Inoltre, in talune circostanze eccezionali, il giudice può, con una decisione debitamente motivata, derogare ai limiti minimi fissati in applicazione dell’art. 58 del R.D.
Pertanto non si può ritenere che lo Stato italiano abbia rinunciato ad esercitare il proprio potere delegando ad operatori privati la responsabilità di prendere decisioni di intervento nel settore economico, cosa che avrebbe portato a privare del suo carattere pubblico la normativa di cui trattasi.
Per le ragioni indicate, non può essere nemmeno addebitato allo Stato italiano di imporre o di favorire la conclusione, da parte del CNF, di intese in contrasto con l’art. 81 CE o di rafforzarne gli effetti, né di imporre o favorire abusi di posizione dominante in contrasto con l’art. 82 CE, o di rafforzarne gli effetti.
Un secondo episodio fondamentale in questa vicenda è rappresentato da una decisione più recente, la sentenza Cipolla e Macrino (cause C-94/04 e C-202/04).
La sentenza non contiene la condanna del sistema tariffario che alcuni auspicavano e che taluni cercano di intravedervi.
Le conclusioni dell’Avvocato Generale, quanto alle questioni sollevate nel caso Cipolla, erano state nel senso di riaffermare il principio espresso dalla Corte nel caso Arduino e quindi di legittimare il regime tariffario solo se sottoposto ad un effettivo controllo dello Stato e la sua applicazione da parte del giudice conforme al diritto della concorrenza (artt. 10 e 81 TCE).
La Corte ha seguito questo suggerimento e, mantenendo ferma la propria giurisprudenza – cioè non modificando né smentendo la propria posizione assunta nel caso Arduino – ha confermato che il sistema tariffario proposto dal Consiglio Nazionale Forense e poi disposto con decreto da parte del Ministro Guardasigilli non è in contrasto con il diritto comunitario, sub specie di diritto della concorrenza, né per le tariffe minime previste per le attività riservate, cioè per l’attività giudiziale, né per le tariffe previste per le attività libere, quali l’attività stragiudiziale.
Un sistema tariffario comprensivo di minimi inderogabili è dunque ammissibile, secondo la Corte, purché siano rilevabili uno o più dei seguenti motivi di pubblico interesse:
(i) tutela dei consumatori;
(ii) buona amministrazione della giustizia.
La giurisprudenza comunitaria sembra avere raggiunto sul punto un esito ormai consolidato, tanto è vero che successive pregiudiziali comunitarie in tema di tariffe sono state decise rapidamente con ordinanza (cfr. ordinanze 17 febbraio 2005 in causa C/-250/03) e 5 maggio 2008 In causa C-386/07).
Senza dover arrivare quindi alla conclusione un po’ semplicistica che vorrebbe individuare vincitori e vinti all’esito della vicenda giudiziaria, si deve però riconoscere, senza infingimenti e "distinguo", che la Commissione ha avuto torto nel sostenere la violazione della normativa comunitaria (sia in punto di libera concorrenza sia in punto di libera prestazione dei servizi) per il solo esistere delle tariffe forensi; che il Governo italiano che aveva sostenuto le buone ragioni dell’ Avvocatura ha avuto ragione; che la nuova normativa interna (il decreto Bersani) introdotta in via d’urgenza e sotto il vincolo della fiducia, senza attendere (si sarebbe trattato di sei mesi) l’esito dei due procedimenti, ora appare di ancor più difficile giustificazione.
All’esito di questo ragionamento sul terreno del diritto comunitario, allora, bisogna evidenziare che la responsabilità delle scelte operate con le atipiche norme del "decreto Bersani" è integralmente del legislatore (rectius dell’Esecutivo, che ha ottenuto la ratifica sommaria del Legislatore su una serie eterogenea di disposizioni) che ha voluto mascherare con l’interesse del consumatore e con gli obblighi comunitari di natura concorrenziale l’introduzione di norme che ora si rivelano ultronee rispetto a tali vincoli ed interessi.
A conferma di tale linea, si segnala la giurisprudenza della Corte di cassazione, sez. unite, sent. 11 settembre 2007, n. 19014, che ha confermato la legittimità della disciplina delle tariffe come prevista dalla legge professionale, sottolineando che la disciplina consente al giudice una valutazione sufficientemente discrezionale per la determinazione in giudizio delle spese di lite, e quindi anche dei compensi professionali dei difensori, ed ha riaffermato i principi di adeguatezza e proporzionalità a cui la disciplina si ispira.
Ancora la Cassazione, con sentenza 15 aprile 2008 n. 9878, in materia di tariffe notarili, ha richiamato la giurisprudenza comunitaria per rilevare la compatibilità del precedente sistema con il Trattato.
Da ultimo, è intervenuta pochi giorni or sono la sentenza Cass. Sez. lav. 20269/2010, che si segnala per la sua rilevanza generale. La sentenza:
a) conferma che il quadro comunitario non osta ad un sistema di tariffe minime, anzi lo giustifica pienamente per ragioni di interesse pubblico quali la corretta amministrazione della giustizia e la tutela del consumatore;
b) smentisce la lettura che il governo diede della sentenza Cipolla-Macrino, confermando quella fornita dal CNF;
c) dice chiaramente che, in via generale ed astratta, un sistema di tariffe minime tutela l'interesse a evitare una concorrenza al ribasso a discapito della qualità della prestazione.
Recita la sentenza: "la conformità al principio comunitario della libera concorrenza di quelle norme del diritto interno in virtù delle quali è imposta la inderogabilità dei minimi di tariffa forense, costituisce orientamento confermato dalla più recente sentenza della Corte di giustizia del 5 dicembre 2006". Non ci sono più dubbi: aveva ragione chi riteneva che il diritto comunitario non imponesse di rimuovere la norma sui minimi, ed aveva torto chi riteneva che la si dovesse abrogare per violazione del Trattato, ferma restando la discrezionalità del legislatore nell’apprezzare l’opportunità o meno della misura. La garanzia della tutela della qualità della prestazione professionale a tutela dei consumatori e la buona amministrazione della giustizia sono – ha detto ieri la Corte di giustizia, e dice oggi la Cassazione – "le ragioni imperative di interesse pubblico" che giustificano una limitazione del principio di libera prestazione di servizi ad opera di una norma interna che fissi minimi inderogabili. Ma la pronunzia non si ferma qui. La Cassazione si pone sulla scia della scelta operata a Lussemburgo e si assume l’onere di attuarla entrando nel merito della situazione italiana, e calando nel contesto socioeconomico nazionale il principio affermato per tutta l’Unione dalla Cipolla-Macrino. Spetta al giudice nazionale – aveva detto la Corte di giustizia – valutare se le ragioni di interesse pubblico che in astratto possono giustificare un regime di minimi tariffari sono rinvenibili in concreto, in ciascun Paese. La Cassazione non si tira indietro, e sviluppando uno spunto già proprio della Cipolla-Macrino (il numero dei legali), la completa e la prosegue, affermando che "pur non essendo una garanzia della qualità dei servizi non si può certo escludere - ed anzi deve affermarsi - che nel contesto italiano, caratterizzato da una elevata presenza di avvocati, le tariffe che fissano onorari minimi consentano di evitare una concorrenza che si traduce nell’offerta di prestazioni "al ribasso", tali da poter determinare un peggioramento della qualità del servizio".
"Non si può certo escludere – ed anzi deve affermarsi", dice la Corte: e dunque ben può il legislatore prevedere minimi inderogabili senza paura di violare il diritto comunitario, perché appunto i fenomeni di offerte al ribasso che la rimozione dei minimi inevitabilmente comporta possono incidere negativamente sulla qualità del servizio, in danno dell’utente consumatore.
VII. La pubblicità e l’attività informativa.
La direttiva CE n.123 del 12/12/2006 relativa ai servizi nel mercato interno (c.d. Direttiva Bolkestein), sopprime ogni divieto in materia di pubblicità, ed in tal senso l’art. 24 si riferisce esplicitamente alle professioni regolamentate. Tuttavia vi è un importante temperamento all’art.24 c. 2, che impone la conformità del messaggio alle regole professionali, tenendo conto della specificità della professione, nonché della indipendenza, della integrità, della dignità e del segreto professionale. Fra l’altro la direttiva quando fa riferimento ai professionisti, non usa il termine pubblicità, ma l’espressione "comunicazione commerciali emananti dalle professioni regolamentate"
Quindi la direttiva Bolkestein pone limiti assolutamente peculiari alla pubblicità nelle professioni, che distingue chiaramente dalla pubblicità strettamente commerciale, sul punto si legga anche il considerando n. 96, secondo cui "le informazioni che il prestatore ha l’obbligo di rendere disponibili nella documentazione con cui illustra in modo dettagliato i suoi servizi non dovrebbero consistere in comunicazioni commerciali di carattere generale come la pubblicità, ma piuttosto in una descrizione dettagliata dei servizi proposti", dunque netta distinzione tra concetto di pubblicità commerciale e pubblicità, o meglio comunicazione, informativa, che fra l’altro, come visto, va regolamentata dai codici deontologici.
Vale ora soffermarsi sulla direttiva 2005/29/CE d.d. 11 maggio 2005, " relativa alle pratiche commerciali il cui intento diretto è quello di influenzare le decisioni di natura commerciale dei consumatori relative ai prodotti", che ribadisce importanti concetti in tema di pubblicità, quali il divieto della pubblicità ingannevole, della pubblicità molesta, della pubblicità contraria alle norme di diligenza professionale. Tale direttiva è stata attuata con D.L. 2 agosto 2007 n. 146 che regola le c.d. pratiche commerciali.
Lo stesso definisce la diligenza professionale come "il normale grado della specifica competenza ed attenzione che ragionevolmente i consumatori attendono da un professionista nei loro confronti rispetto ai principi generali di correttezza e di buona fede nel settore di attività del professionista".
Secondo tale decreto sono considerate, fra la altre, pratiche commerciali ingannevoli i contenuti redazionali nei mezzi di comunicazione, qualora i costi siano stati sostenuti dal professionista senza che ciò emerga dai contenuti o da immagini o suoni chiaramente individuabili per il consumatore.
Ancora, viene considerata pratica commerciale aggressiva lo sfruttamento da parte del professionista di qualsivoglia evento tragico o circostanza specifica di gravità tale da alterare la capacità di valutazione del consumatore, al fine di influenzarne la decisione relativa al prodotto.
Pratica aggressiva è anche quella di effettuare ripetute e non richieste sollecitazioni commerciali per telefono, via fax, per posta elettronica o mediante altro mezzo di comunicazione a distanza.
Il richiamato decreto legislativo, poi, delinea i poteri di intervento, in materia di pratiche commerciali scorrette, dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato.
Rammentiamo anche il Decreto Legislativo 9 aprile 2003 N. 70 (attuazione della direttiva 2000/31/CE), avente ad oggetto taluni aspetti giuridici dei servizi della società della informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico (internet).
Tale decreto prevede all’art.10, che la comunicazione commerciale nelle professioni regolamentate "deve essere conforme alle regole di deontologia professionale e in particolare all’indipendenza, alla dignità, all’onore della professione, al segreto professionale e alla lealtà verso clienti e colleghi".
Richiamiamo in chiusura la sentenza della Corte di Giustizia Europea, sez. seconda, del 13 marzo 2008, nella causa n. 446/05, la quale afferma che una normativa nazionale (nella specie la legge belga 15 aprile 1958 relativa alla pubblicità in materia di cure dentistiche) che vieti a chiunque nonché ai prestatori di cure dentistiche, nell’ambito di una libera professione o di uno studio dentistico, di effettuare qualsivoglia pubblicità nel settore delle cure dentistiche, non contrasta con l’art. 81 del Trattato che tutela la libera concorrenza all’interno del mercato unico.
Insomma, sia le fonti europee, che le fonti interne, distinguono chiaramente la pubblicità commerciale dall’attività informativa dell’Avvocato.
La norma del codice deontologico, nella versione approvata nel 1997, recitava recisamente «È vietata qualsiasi forma di pubblicità dell’attività professionale».
I notevoli mutamenti del contesto socio-economico degli ultimi anni ed una forte pressione di alcuni settori dell’opinione pubblica hanno condotto il C.N.F. a modifiche, in senso ampliativi, delle facoltà comunicative del professionista.
Fino al 2006 il codice deontologico elencava puntualmente i mezzi attraverso i quali era possibile comunicare a terzi l’attività dello studio. Erano sostanzialmente esclusi i mass media, con l’eccezione di «gli annuari professionali, le rubriche telefoniche, le riviste e le pubblicazioni in materie giuridiche», ma anche «i siti web con domini propri e direttamente riconducibili all’avvocato, allo studio legale associato, alla società di avvocati, sui quali gli stessi operano una completa gestione dei contenuti e previa comunicazione al Consiglio dell’Ordine di appartenenza».
Con l’ultima modifica, approvata dal C.N.F. il 14 dicembre 2006, si è affermato l’opposto principio, ossia quello della libertà di forme nella comunicazione di informazioni sull’attività professionale: attualmente l’iscritto può rendere nota l’attività dello studio legale con i mezzi più idonei purché si rispetti il precetto secondo cui «il contenuto e la forma dell’informazione devono essere coerenti con la finalità della tutela dell’affidamento della collettività e rispondere a criteri di trasparenza e veridicità» (art. 17 C.D.F.).
Più specificamente, quanto al contenuto «l’informazione deve essere conforme a verità e correttezza e non può avere ad oggetto notizie riservate o coperte dal segreto professionale», mentre rispetto alla forma ed alla modalità «l’informazione deve rispettare la dignità e il decoro della professione».
I principi di dignità, decoro e lealtà nello svolgimento (e nella comunicazione) delle attività professionali sono, nell’ottica della deontologia forense, superiori all’interesse all’acquisizione di nuova clientela (cfr., ad es., C.N.F., sent. 31 dicembre 2007, n. 268).
Un primo principio di carattere applicativo, dunque, è senz’altro quello di evitare che nella realizzazione ed erogazione del servizio possano esservi elementi in contrasto con le esigenze di decoro e dignità della professione (art. 5 C.D.F.), quali ad esempio espressioni eccessive o banner pubblicitarî eticamente sensibili (si pensi a giochi d’azzardo, a prodotti alcolici o a possibili rinvii a siti di carattere erotico, solo per richiamare alcuni temi classici)1.
1 Si tratta di preoccupazioni concrete. Ad esempio si consideri la recente sentenza C.N.F. 10 dicembre 2007, n. 211, con la quale il Consiglio nazionale ha condannato un professionista per aver inserito nel proprio sito web l’immagine della moglie in abiti succinti al fine di attrarre clientela.
Il criterio a cui è informata la nuova disciplina è quello, quindi, di una tendenziale libertà dell’avvocato di informare nel modo che ritiene più opportuno circa le caratteristiche della propria attività professionale, ma la scelta di apertura non è valsa a trasformare la comunicazione consentita in "pubblicità", con ciò mantenendo un concetto negativo del confronto tra avvocati inteso come paragone tra prodotti, una forma di competizione evidentemente difficile da coniugare con l’attività di difesa dei diritti propria del legale.
Ritornando più specificamente alla facoltà dell’avvocato di utilizzare i mezzi che ritiene più opportuni per la realizzazione di una informazione circa la propria attività professionale, è evidente che si è voluto includere in tale ambito di libertà anche l’informazione attraverso i nuovi mezzi di comunicazione elettronica, ed in particolare con internet.
Nel susseguirsi delle modifiche è stata conservata una norma che specificamente riguarda l’utilizzo di siti web a scopi di informazione professionale. Si tratta del terzo comma dell’art. 17-bis C.D.F. (rubricato Modalità dell’informazione), il quale recita «L’avvocato può utilizzare esclusivamente i siti web con domini propri e direttamente riconducibili a sé, allo studio legale associato o alla società di avvocati alla quale partecipa, previa comunicazione al Consiglio dell’Ordine di appartenenza della forma e del contenuto in cui è espresso».
La norma non comporta un impedimento per l’avvocato a comparire in siti gestiti da terzi, salvo il rispetto degli altri principî deontologici sul quomodo di tale presenza. Ciò che, invece, è interdetto nello spirito della norma è l’utilizzo surrettizio di siti di natura diversa (es. siti di informazione al cittadino, al consumatore oppure siti di consultazione su tematiche specifiche) per promuovere in realtà un’attività di studio legale; la pubblicità occulta o dissimulata è senz’altro contraria a quella lealtà e correttezza minime richieste al professionista forense.
Quest’ordine di considerazioni può giustificare appieno l’orientamento restrittivo assunto da alcuni ordini circondariali circa la consulenza legale via web quando realizzata attraverso siti di terzi (C.O.A. Pistoia, delib. 28 novembre 2003 e già C.N.F., par. 21 novembre 2001), la promozione dell’attività di uno studio legale realizzata all’interno di una rete telematica di un ente (C.O.A. Roma, 16 giugno 2005) oppure lo sfruttamento della qualità di webmaster o di curatore di un sito di attualità giuridica a scopi pubblicitarî (C.N.F., par. 27 aprile 2005, n. 35 e C.O.A. Roma, par. 30 novembre 2006).
Il codice deontologico si occupa altresì di indicare il contenuto minimo della comunicazione informativa professionale.
Il disegno di legge di riforma dell’ordinamento forense, come modificato dal Senato, attualmente all’esame della Commissione giustizia della Camera (A.C. 3900) disciplina l’attività informativa dell’Avvocato all’art. 9 ricalcando sostanzialmente il contenuto dell’attuale codice deontologico. Il contenuto e la forma dell’informazione all’utenza – i cui criteri dovranno essere definiti dal CNF (comma 3) – dovranno essere tali da garantire la tutela dell’affidamento, il rispetto del prestigio della professione, gli obblighi di riservatezza e i principi del codice deontologico (comma 2), pena l’incorrere in illecito disciplinare (comma 4).
VIII. Previdenza.
L’art. 24, comma 24, del D.L. n. 201/2011, c.d. "Salva Italia" ha posto, a carico delle Casse di previdenza degli Ordini professionali, l’obbligo di elaborare, entro il 30 giugno 2012 (e non più entro il 31 marzo, come previsto dal testo originario del Decreto Legge), misure volte ad assicurare l’equilibrio tra entrate contributive e spese pensionistiche per un arco temporale di cinquanta anni. In mancanza di adozione di dette misure, o nel caso di parere negativo dei Ministeri vigilanti, si prevede l’applicazione del comma 2 dello stesso art. 24, che prevede che: «A decorrere dal 1° gennaio 2012, con riferimento alle anzianità contributive maturate a decorrere da tale data, la quota di pensione corrispondente a tali anzianità e' calcolata secondo il sistema contributivo» (si tratta della norma che dispone in via generale il passaggio dal sistema retributivo al sistema contributivo). Inoltre, sempre per il caso di mancata adozione delle misure de quibus, si prevede, quale ulteriore sanzione, l’assoggettamento dei pensionati iscritti alla Cassa ad un contributo di solidarietà dell’1% per gli anni 2012 e 2013.
L’impressione immediata che si ha leggendo la disposizione è che ancora una volta le Casse previdenziali private siano nel mirino del Governo. In questi giorni, come tutti gli Italiani, abbiamo seguito con attenzione il lavoro del nuovo esecutivo e ci spiace constatare che la nuova compagine governativa ha deciso di continuare a prendere di mira i liberi professionisti: dopo l'equiparazione con le imprese, l'introduzione dei soci di capitale, la delegificazione dell'ordinamento forense, ecco un articolo contenuto nel decreto legge «Salva Italia» che mina l'autonomia delle Casse previdenziali.
La «giustificazione» di questo intervento è la pretesa maggiore tutela delle fasce più giovani e deboli dei professionisti. La norma, nel merito, prevede di innalzare la sostenibilità delle Casse previdenziali private dai 30 ai 50 anni pena il passaggio a un sistema contributivo pro-rata e il versamento di un contributo di solidarietà dell'1% nel biennio 2012/13. Si tratta di misure tecnicamente errate e tendenti a scardinare un sistema che, nel caso di Cassa forense, grazie alle recenti riforme adottate assicura, costantemente e con monitoraggio garantito da bilanci tecnici triennali, la sostenibilità a lungo termine. Altro che maggiore tutela per i professionisti più deboli, questo tipo di intervento significherà solo un aggravio contributivo cui non corrisponderà alcun miglioramento dei servizi. Per questo il Comitato dei delegati di Cassa forense ha approvato una mozione con cui esprime netta contrarietà alle misure contenute nel dl in materia di regolamento degli enti previdenziali privati. Anche se abbiamo accolto con sollievo la disponibilità del ministro del Welfare a un confronto sul tema, non riteniamo possibile, in un quadro di sostanziale stabilità del sistema, pretendere di innalzare da 30 a 50 anni l'orizzonte temporale dei bilanci tecnici, per di più senza tener conto delle entrate patrimoniali. Le Casse di previdenza private non sono il fortino dorato dei professionisti, ma svolgono un ruolo cui altrimenti lo Stato dovrebbe rispondere. Cassa forense non elargisce privilegi, ma eroga pensioni comprese tra un minimo di 9.000 e un massimo di 45.000 euro annui; fonda il suo impianto sulla solidarietà; ha portato l'età pensionabile a 70 anni; ha un patrimonio solido e in grado di assicurare i diritti di tutti gli iscritti a fruire delle prestazioni previdenziali e assistenziali, senza ricevere o aver mai ricevuto alcuna contribuzione da parte dello stato. Gli avvocati stanno vivendo un momento difficile per via della crisi economica, dell'elevatissimo numero di nuovi ingressi e dei problemi legati alla riforma della professione. Ora assistiamo anche un ulteriore attacco, quello che vede nel mirino del legislatore la stessa pensione dell'avvocato.
III. Manifestazioni.
L’Avvocatura si impegnerà in una serie di iniziative e manifestazioni aventi l’obiettivo di sensibilizzare la politica e l’opinione pubblica sui temi sopra affrontati, quali, quelle già segnalate a titolo esemplificativo dall’Organismo unitario dell’Avvocatura indizione di assemblee nazionali e territoriali e contestuali astensioni dalle udienze, sospensione di ogni forma di collaborazione – attraverso risorse umane ed economiche – al funzionamento degli uffici giudiziari, conferenze stampa, celebrazione del congresso straordinario, campagna di comunicazione mediatica. |