La tavola rotondaTavola rotonda su cinque questioni applicative della riforma del processo e del giudizio per separazione e divorzio poste dalle nuove leggi n. 80/05, n. 263/05 e n. 54/06*.
Prof. Avv. Claudio Cecchella:
Diamo inizio ai lavori pomeridiani che, secondo programma, sono assorbiti da un interessante dibattito, tra i magistrati dei fori ove operiamo quotidianamente, su problemi strettamente applicativi, richiamati, in relazione agli istituti coinvolti, in cinque questioni proposte ai partecipanti e precisamente:
1. Affidamento condiviso. Qual è l'ambito residuo dell'affidamento ad un solo genitore; in caso di affidamento condiviso, quali sono i provvedimenti in tema di potestà, le determinazioni sulla residenza del minore e sull'assegnazione della casa familiare; qual'è il rilievo degli accordi tra i coniugi sull'affidamento; quale è il giudice competente per i provvedimenti di affidamento di cui sono destinatari i figli naturali?
2. Mantenimento. Qual è il rilievo degli accordi tra i coniugi sul mantenimento dei figli; quali le scelte alternative all'assegno periodico e quando quest'ultimo deve essere disposto; quando il contributo al mantenimento spetta al figlio maggiorenne, quest'ultimo ha azione per la tutela del suo mantenimento e in che forma, può intervenire nel giudizio tra i coniugi e in caso affermativo con che tipologia di intervento, in sede di modifica e revoca del mantenimento è litisconsorte necessario ?
3. Poteri istruttori del giudice. Quali iniziative assume il giudice in relazione all'audizione del minore e alle indagini sul patrimonio di soggetti diversi dal coniuge ?
4. Fase sommaria presidenziale. Quali sono gli oneri dell'attore nella stesura del ricorso e del convenuto nella memoria ante udienza; se i difensori tecnici devono presenziare all'audizione separata dei coniugi; quali sono i rapporti tra reclamo dell'ordinanza presidenziale e revoca - modifica della stessa ordinanza da parte del giudice istruttore: è applicabile analogicamente la disciplina del reclamo cautelare ?
5. Fase a cognizione piena ed esecuzione. Quali sono i presupposti della revoca - modifica dell'ordinanza presidenziale da parte del giudice istruttore; in sede di separazione è possibile stabilire la somministrazione retroattiva del contributo di mantenimento; quali sono le forme dell'appello della sentenza di separazione; che natura ha l'azione ex art. 309 - ter c.p.c. e il risarcimento del danno o la sanzione ivi previste?
Ovviamente non possiamo pretendere che i protagonisti della tavola rotonda, anche per inesorabili questioni di tempo, possano esaurire tutti i punti principali, come anche non possiamo condurre - come si sarebbe dovuto forse - un dibattito per singoli punti, con un giro di opinioni e pareri. Siamo costretti a pregare i Magistrati presenti di esprimersi, se così si può dire, unitariamente su tutto, in modo da esaurire la trattazione in un unico intervento, intorno ai 15 minuti, salvo lasciare alla fine una replica per chi vorrà intervenire.
Un po' di sacrificio chiedo alle nostre gradite ospiti milanesi, che già hanno avuto modo di esprimersi nelle relazioni di stamani; prego loro di impegnarsi con un intervento finale un po' più sacrificato rispetto agli altri quanto ai tempi, ma con il vantaggio dell'ultima parola.
Ho visto il caro Presidente Massetani scalpitare e esprimersi con gesti eloquenti in occasione della relazione della Dott. Gatto e quindi non voglio perdermi in anteprima la sua opinione, cedo a lui la parola.
Dr. Gioacchino Massetani
Quando il giurista è posto nella necessità di applicare un nuovo complesso di norme che non appare sufficientemente determinato in relazione al caso concreto cui è riferibile, non è corretto chiedersi in astratto quale sia “la natura giuridica” del nuovo istituto normativo per dare risposta corretta alla contesa che sulla fattispecie è sorta e deve essere risolta colle norme preesistenti.
La “natura giuridica” non un qualche dato indipendente che sia possibile rilevare e dimostrare con metodi oggettivi (circondati cioè da consenso generale, analogo a quelli di tipo naturalistico).
La “natura giuridica” di un istituto normativo è la proposta di sistemazione coerente di quel complesso nel sistema, in modo che la sua applicazione pratica non susciti contraddizioni pratiche irresolubili: è l’abbreviazione nominale del percorso (con cui gli addetti ai lavori operano per) armonizzare le condotte disciplinate dal nuovo complesso normativo con l’operatività quotidiana dell’ordinamento preesistente.
La sistemazione corretta del nuovo è un dovere per chi intende prestare ossequio all’ordinamento, non una semplice certezza cognitiva di tipo storico-sociologico.
Il lungo tempo della mia professione di giudice mi suggerisce, sempre di più, che le esigenze della fattispecie concreta accettate come vere (ovvero, da ritenere tali presso i consociati) prevalgono nel fare sceglier come quella (più) corretta la sistemazione (o, se vogliamo, per la scoperta della “natura giuridica”) della novità normativa nell’ordinamento.
Sistemazione perché con questa operazione la novità si completa secondo un sufficiente tasso di coerenza coill’insieme.
Anche nel caso nel reclamo avverso i provvedimenti provvisori del presidente del Tribunale nel giudizio di separazione dei coniugi la novità (posta all’ultimo comma dell’art. 708 c.p.c. dalla legge n. 54/2006) mi ha posto un interrogativo pratico elementare:
cosa accade se il reclamo è posto in prossimità del periodo feriale? Subisce o non subisce l’interruzione delle ferie?
La mia cancelleria non aveva dubbi (né se li era posti) sulla ragione da riconoscere ai ricorrenti che si aspettavano una decisione anche agostana sulla disciplina da dare ai periodi di permanenza dei figli minorenni coi singoli genitori durante le loro vacanze. Il litigio per quanto aveva disposto il presidente del tribunale al riguardo (“due settimane non consecutive..”; “trenta giorni consecutivi..”; “possibilità di condurre all’estero..”) non sembrava a nessuno potesse essere deciso solamente ad ottobre od oltre.
Io stesso, subito, mi ero comportato di conseguenza e avevo affidato molte questioni risolte ai collegi dell’agosto, cui non ero presente.
Al primo di settembre, però, su due fascicoli di reclamo ex 708 c.p.c. ho trovato un biglietto firmato dal collega mio sostituto feriale:
“Poiché la materia non rientra nella elencazione dell’art. 92 della legge sull’Ordinamento Giudiziario, provvederà all’assegnazione il Presidente Massetani al suo rientro”.
Proprio per questo, dunque, mi sono dovuto chiedere se il nuovo istituto giuridico (reclamo alla Corte di Appello contro i “provvedimenti temporanei e urgenti” che il presidente del Tribunale “reputa opportuni nell’interesse della prole e dei coniugi”) avesse o meno la “natura giuridica” di provvedimento cautelare giacché l’art. 92 dell’ordinamento giudiziario stabilisce dal 2004 che " durante il periodo feriale dei magistrati le corti di appello ed i tribunali ordinari trattano le cause civili relative ad alimenti, alla materia corporativa, ai procedimenti cautelari, ai procedimenti per l'adozione di provvedimenti in materia di amministrazione di sostegno, di interdizione, di inabilitazione, ai procedimenti per l'adozione di ordini di protezione contro gli abusi familiari, di sfratto e di opposizione all'esecuzione, nonché quelle relative alla dichiarazione ed alla revoca dei fallimenti, ed in genere quelle rispetto alle quali la ritardata trattazione potrebbe produrre grave pregiudizio alle parti.
In quest'ultimo caso, la dichiarazione di urgenza è fatta dal presidente in calce alla citazione o al ricorso, con decreto non impugnabile, e per le cause già iniziate, con provvedimento del giudice istruttore o del collegio, egualmente non impugnabile".
Mi sono dato una prima risposta: i provvedimenti provvisori del presidente sono impugnabili se ci sono: e ci sono quando sono stati “dati con ordinanza”, ovvero quando il presidente ha ritenuto che “nell’interesse della prole e dei coniugi” fosse opportuno emanare “provvedimenti provvisori e urgenti”, anche se diversi da una disciplina delle vacanze dei figli minori (assegno di mantenimento, godimento dell’abitazione familiare etc.).
Ogni provvedimento presidenziale è stato adottato per una disciplina provvisoria “perché urgente”.
Ogni provvedimento presidenziale reca in sé la dichiarazione non impugnabile di urgenza prevista dall’art. 92 dell’Ordinamento Giudiziario affinché i “magistrati delle corti d’appello” trattino il reclamo contro di essi “durante il periodo feriale dei magistrati”.
Ma, posto questo come vero, mi è parso evidente che potevo risolvere col riferimento al procedimento cautelare uniforme due importanti questioni che avevo dovuto affrontare:
1) l’attribuzione del carico delle spese come nei procedimenti cautelari avviati in corso di causa (vengono liquidate ed attribuite con la decisione di merito, come si desume dall’art. 669 septies);
2) il raccordo tra reclamo alla Corte e potere di revoca o modifica (conservato al giudice istruttore del merito ex art. 709 ultimo comma, c.p.c.), com’è disciplinato dall’art. 669 terdecies: il reclamo già proposto impedisce la revoca o la modifica fino a che non sia stato deciso.
Il risultato pratico raggiunto mi è sembrato di grandissimo rilevo e mi ha fatto pensare che soltanto la competenza attribuita alla Corte d’appello per il reclamo e i tempi della sua attivazione, pongano questa procedura in difformità dalla disciplina dettata per il procedimento cautelare uniforme.
A questo punto si potrebbe anche osare un giudizio sulla natura giuridica dei provvedimenti provvisori emessi dal presidente, dalla Corte in sede di reclamo, dal giudice istruttore in sede di revoca o modifica secondo un giudizio di prossimità sufficiente al migliore completo coordinamento col sistema.
Io ritengo che si debba dare una risposta positiva (si tratta di provvedimenti cautelari, che si distaccano dal procedimento uniforme soltanto dove l’eccezione è stabilita normativamente).
Conclusione che mi pare indifferente alla soluzione che si voglia dare sul punto ulteriore di contrasto tra l’art. 669 nonies e l’art. 189 disp. att. c.p.c. per l’efficacia del provvedimento in caso di estinzione del giudizio.
Contrasto che mi sembrerebbe di dover superare estendendo la disciplina dell’art. 189 anche a quanto disposto dalla Corte in sede di reclamo (soluzione addirittura inevitabile) e, per elementare coerenza, a quanto disposto in caso di revoca o modifica da parte del giudice istruttore. Ne discenderebbe l’applicazione anche in caso di provvedimenti autonomi del giudice istruttore.
Il dato, però, è veramente periferico e residuale.
Tanto de non impedire di poter affermare la reclamabilità dei provvedimenti del giudice istruttore davanti al collegio ex art. 669 terdecies. La competenza della Corte (così speciale!) creerebbe una sorta di processo su due linee parallele sovrapposte e continue di impossibile riconoscibilità nel sistema, fonte di inestricabili complicazioni.
Prof, Avv. Claudio Cecchella:
Grazie Presidente, per le sue come sempre puntuali ed efficaci osservazioni, da vero processualista alla cui categoria mi permetto di assimilarla, anche in ricordo della nostra comune frequentazione, circa venticinque anni fa a Firenze, in Via Laura, alle lezioni di Teoria generale del processo del nostro compianto Maestro Giovanni Fabbrini, dove molti di noi e io per primo ci siamo formati.
La parola ora al "mio" presidente, il Dr. Carlo De Pasquale massimo dirigente del locale tribunale ove da quasi trant'anni il sottoscritto esercita modestamente il "mestiere" di avvocato.
Dr. Carlo De Pasquale:
Preferisco trattare in modo analitico le questioni suggerite, richiamandomi ad alcuni appunti che ho elaborato per l'occasione.
Secondo l'ordine degli argomenti:
1. Affidamento Condiviso
a) qual’è l’ambito residuo dell’affidamento ad un solo genitore?
Il nuovo art. 155 cc dopo aver posto al comma 1 il principio che anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi e di ricevere cura, educazione ed istruzione da entrambi, stabilisce al comma 2, per realizzare le finalità del comma 1, il principio guida della valutazione da parte del Giudice esclusivamente dell’interesse morale e materiale della prole, nonché come criterio prioritario, quello dell’affidamento condiviso dei figli minori, affidati quindi ad entrambi i genitori; anche se la norma continua con l’espressione “oppure a quali di essi i figli sono affidati” da parte del Giudice, non pare che voglia fargli una delega di carattere discrezionale perché il presupposto concreto di un provvedimento di affidamento esclusivo, che deve essere motivato da concrete e serie ragioni, appare indicato dall’art. 155 bis, che al comma 1 consente l’affidamento esclusivo ad un solo genitore quando l’affidamento all’altro (e quindi in particolare l’affidamento condiviso) sia contrario all’interesse del minore e al comma 2 prevede che ciascuno dei genitori possa in qualsiasi momento chiedere l’affidamento esclusivo quando sussistano le condizioni indicate al primo comma. Anche se i genitori sono d’accordo sull’affidamento esclusivo, e alle volte ciò si verifica per la comodità o per l’egoismo di qualcuno, il Giudice non può essere il mero recettore di detto accordo perché deve verificarlo alla luce dell’interesse dei figli, ed in particolare deve in primo luogo verificare se sia contrario al loro interesse, come previsto dall’inciso “se non contrari all’interesse dei figli”; ma riterrei anche che, in applicazione del principio guida dell’ ”esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale della prole”, il Giudice, in tema di accordi tra i genitori, possa, almeno in tema di affidamento, superare l’accordo e disporre quello condiviso, o incanalare (specie in tema di separazione consensuale) l’accordo dei coniugi in quel senso, se è più rispondente all’interesse morale e materiale della prole.
Mentre la precedente normativa dava soprattutto coll’art. 155 cc delle disposizioni abbastanza dettagliate sull’affidamento esclusivo, che costituiva la regola, sul contenuto dell’affidamento monogenitoriale, la nuova normativa, forse perché vuole relegare ad eccezione tale forma rispetto al condiviso, nulla di specifico dice all’art. 155 bis, rubricato come “affidamento a un solo genitore e opposizione all’affidamento condiviso”, se non che il Giudice fa “salvi, per quanto possibile, i diritti del minore previsti dal primo comma dell’art. 155”, e cioè” il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura ed istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”. Ritengo, tuttavia, che disciplina ulteriore possa ricavarsi anche dall’art. 155 comma 2, laddove, dopo aver previsto l’affidamento condiviso come ipotesi prioritaria ma anche l’affidamento esclusivo come ipotesi secondaria, unitariamente prevede che il Giudice “determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura ed il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire alla cura, all’istruzione ed all’educazione dei figli” e conclude, ritengo ancora unitariamente, disponendo con omnicomprensive e generale previsione che il giudice “adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole”.
b) In caso di affidamento condiviso, quali sono i provvedimenti in tema di potestà, le determinazioni sulla residenza del minore e sull’assegnazione della casa familiare?
La potestà genitoriale appare ancor più un potere-dovere in quanto il parametro è sempre l’esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale della prole. È esercitata da entrambi i genitori, anche se vi è tra i medesimi conflittualità (e – sembra non vi siano dubbi – anche se è disposto l’affidamento esclusivo) così come le decisioni di maggior interesse per i figli (relative ad istruzione, educazione e salute) sono assunte di comune accordo; l’intervento del giudice nelle intenzioni del legislatore dovrebbe essere residuale e confinato al concreto disaccordo tra i genitori. Pertanto, il Giudice, oltre quanto dirà per il mantenimento e l’assegnazione della casa coniugale, dispone (e direi anche, di fronte all’analitica previsione dell’art 155, rende edotti gli interessati) che la potestà genitoriale è esercitata da entrambi i genitori e che le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione all’educazione e alla salute sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli, salva la rimessione al Giudice della decisione in caso di disaccordo; si profila la tendenza, ove occorra suggerita dal Giudice e recepita dai genitori, a dare ampia attuazione alla previsione di cui all’ultimo inciso del comma 3 dell’art. 155, cioè che per le decisioni su questioni di ordinaria amministrazione i genitori esercitino la potestà separatamente. Almeno in sede di udienza presidenziale, i casi che hanno reso necessari o opportuni provvedimenti più specifici si sono presentati per la collocazione dei figli minori: il punto centrale è che l’affidamento condiviso, che ai sensi dell’ art. 155 comma 2 deve essere finalizzato esclusivamente all’interesse morale e materiale della prole, non esclude la collocazione privilegiata ed il domicilio presso un genitore e non significa divisione dei figli o del tempo di permanenza dei figli presso ciascuno dei genitori, talché il Giudice, nel determinare i tempi e le modalità della presenza dei figli presso ciascun genitore, di norma non dovrebbe accettare, se concordata, né disporre la pendolarità (un giorno, una settimana, un mese, etc.) dei figli minori, soprattutto per il loro pernottamento, e tanto meno se si tratta di figli in tenera o assai giovane età, salvo una tendenziale apertura a partire dall’età adolescenziale e semprechè risponda all’interesse dei minori (opportunamente ascoltati) e non confligga colla loro volontà; essendo di norma la soluzione migliore e più rispondente all’interesse della prole quella del collocamento privilegiato presso un genitore, per consentire all’altro genitore di contribuire alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli, appare opportuno conferirgli di norma un ampio diritto di visita ed un altrettanto ampio diritto di tenere con sé i figli o comunque trattenersi con loro nelle ore diurne (come da orientamento preferibile), sempre nel rispetto della volontà e dell’interesse dei minori; sarebbe auspicabile l’esistenza di “accordi intervenuti tra i genitori” anche se tra loro in conflitto, da sottoporre al vaglio del Giudice. In conclusione, per il genitore che non ha la collocazione privilegiata dei figli minori ampiezza del diritto di visita e di tenere con sé i figli o comunque di trattenersi con loro nelle ore diurne e pernottamento presso di sé limitato, soprattutto per i più piccoli, di norma a week end alterni, con maggiore apertura dall’età adolescenziale.
Quanto all’assegnazione della casa familiare, mentre sinora il principio generale era quello che la casa familiare venisse assegnata al coniuge affidatario dei figli minori, ora, poiché la regola è quella dell’affidamento condiviso, il predetto principio rimane svuotato, per cui l’art. 155 quater comma 1 dispone che il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli. Tuttavia, poiché i figli minori dovranno avere una collocazione ed un domicilio privilegiato, appare che tale collocazione e domicilio dei figli presso un genitore condizioneranno l’assegnazione a tale genitore ed in particolare quando i figli sono in tenera età. Seppur economicamente non facilmente attuabile in quanto ciascun genitore dovrebbe avere anche un’altra casa, ipotesi non trascurabile, ma da adottare cum grano salis e in caso di genitori che mostrino di essere specificamente responsabili, è quella dell’assegnazione alternata: i figli rimangono nella casa familiare, mentre sono i genitori che si alternano a periodi nell’abitare detta casa con i figli. Di rilievo è che dell’assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà. Di conseguenza, il coniuge assegnatario ma non proprietario potrebbe essere soggetto alla riduzione dell’apporto dell’altro, gravato anche degli oneri fiscali. Ovviamente le spese di gestione della casa, in particolare quelle straordinarie, dovrebbero essere a carico del proprietario perché l’assegnazione dell’abitazione dà luogo ad un diritto personale e non ad un diritto reale.
E’ appena il caso di accennare che l’art. 155 quater dispone che il godimento della casa familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio: tale regola è apparsa subito poco razionale ed ha anche sollevato seri dubbi di costituzionalità perché pone una sorte di sanzioni per la condotta dell’assegnatario (anche quando sia del tutto legittima, ad es. in caso di nuovo matrimonio), sanzione che però può ritorcersi in danno dei figli, la cui collocazione presso il coniuge non proprietario ha condizionato l’assegnazione della casa familiare in suo favore proprio “tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli”.
c) qual’è il rilievo degli accordi tra i coniugi sull’affidamento?
Poiché l’art. 155 comma 2 dispone che il giudice “prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori”, il giudice in prima battuta dovrà dare spazio a tali accordi e i separandi dovrebbero possibilmente sottoporre al giudice un progetto di affidamento, prioritariamente di affidamento condiviso, non trascurando la volontà dei minori, specie se adolescenti. Il ruolo del Giudice è tutt’altro che notarile in quanto la “presa d’atto” non gli impedisce di valutare l’interesse dei minori, sicché, qualora ritenga che questo non corrisponda agli accordi tra i genitori, ben può disporre diversamente. Come si è sopra anticipato, in particolare, il Giudice deve in primo luogo verificare se l’accordo sia contrario all’interesse del figlio, come previsto dall’inciso “se non contrari all’interesse dei figli”; ma, come già esposto, riterrei anche che, in applicazione del principio guida dell’ ”esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale della prole”, il Giudice possa, almeno in tema di affidamento, superare l’accordo e disporre quello condiviso, o incanalare (specie in tema di separazione consensuale) l’accordo dei coniugi in quel senso, se è più rispondente all’interesse morale e materiale della prole.
Non si condivide l’impostazione di chi ritiene che di norma l’affidamento condiviso non dovrebbe essere disposto in mancanza di domanda di almeno una delle parti o addirittura in presenza di un accordo che prevede l’affidamento monogenitoriale: il Giudice, infatti, non è vincolato dal principio della domanda né dagli accordi tra le parti, che potrebbero essere ispirati anche a motivi egoistici o di mera comodità personali, mentre l’interesse primario ed esclusivo (materiale e morale) deve essere quello dei figli.
Un equivoco dal quale occorre uscire è quello dell’opinione che affidamento e collocazione dei minori siano termini equivalenti. Se fosse così, l’affidamento condiviso verrebbe svuotato di contenuto, in quanto, al di fuori dei casi di non condivisibile pendolarità dei figli, la necessaria collocazione della prole presso un genitore non consentirebbe all’altro di esercitare la propria funzione se non in termini assai ristretti.
d) quale è il giudice competente per i provvedimenti di affidamento di cui sono destinatari i figli naturali ?
Per effetto del comma 2 dell’art 4, che detta disposizioni finali, della l. n. 54/2006, le disposizioni della predetta legge si applicano, tra l’altro, ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati.
La giurisprudenza della Suprema Corte è stata sinora ferma nel ritenere che funzionalmente competente a conoscere delle domande del genitore naturale di affidamento del figlio minore e di regolamentazione del diritto di visita dell’altro genitore è il tribunale per i minorenni, mentre spetta al tribunale ordinario la competenza sulla domanda di contributo al mantenimento e di rimborso delle spese sostenute per il mantenimento del minore: l’art. 38 disp. att. cc, infatti, prevede la specifica competenza del tribunale per i minorenni per i provvedimenti – tra l’altro – dell’art. 317 bis cc, che disciplina la potestà genitoriale in caso di riconoscimento di figlio naturale.
A seguito dell’entrata in vigore della l. n. 54/2006, per effetto dell’indicato comma 2 dell’art 4, si contrappongono due tendenze: quella del Tribunale dei Minorenni di Milano (decreto 12/5/2005; decreto 7/7/2006), seguita da qualche altra pronuncia analoga, per la quale per effetto dell’abrogazione dell’art. 317 bis cc anche le controversie relative all’affidamento di figlio naturale riconosciuto spettano alla competenza del tribunale ordinario così come quelle relative alle questioni economiche connesse, in particolare osservando che “l’art. 4 comma 2 della legge 54/2006 richiama integralmente le norme precedenti tanto sostanziali che processuali, senza neppure la clausola in quanto compatibili, e che queste presuppongono l’innesto su un rito ben preciso che è quello di cui agli art. 706 e segg. c.p.c.”; quella del Tribunale ordinario di Milano (sent. 28/6/2006 n. 7711), di severa censura alla precedente e uniforme a molte pronunce analoghe di altri Tribunali anche di Giustizia Minorile (Trib. Minorenni di Trento 11/4/2006; Tribunale Minorenni Bologna 26/4/2006), per la quale, in tema di affidamento del figlio naturale e di regolamentazione del diritto di visita, la competenza per materia permane in favore del tribunale per i minorenni in forza del combinato disposto ex art. 317 bis cc e 38 disp. att. cc rimasto immutato nella sua formulazione originaria nonostante l’intervenuta riforma legislativa, facendo una lettura sistematica del nuovo dettato normativo in base alla quale il legislatore ha voluto estendere con massima ampiezza proprio la portata sostanziale di vigenza del dettato riformatore, consistente nell’introduzione di criteri e principi sostanziali innovativi in materia di affidamento dei figli minori – siano essi naturali o legittimi – e di regolamento dei rapporti economici fra i genitori – coniugati e non – in funzione dell’interesse della prole, ma non ha inteso affrontare ambiti ben più vasti ed impegnati in materia di unificazione delle competenze relative a controversie fra genitori non uniti in matrimonio. Si condivide quanto, in particolare, dal Tribunale osservato a sostegno: che la nuova normativa, pur raccogliendo disposizioni ampiamente innovative di carattere sostanziale, si è limitata ad introdurre norme di valenza processuale di portata limitata e specifica (impugnabilità dei provvedimenti presidenziali in sede di separazione, competenza e disciplina dei procedimenti relativi ad eventuali controversie successive o ad inadempimenti al regime di affidamento, sanzioni applicabili ai genitori inadempienti), ma non contiene alcuna disposizione espressa in tema di competenza giurisdizionale a conoscere delle controversie ivi contemplate; che il comma 2 dell’art. 4 prevede l’applicabilità della nuova normativa non solo ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati ma anche ai casi di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, restando così estesa a due procedimenti – l’uno soggetto a rito speciale e l’altro a rito ordinario di cognizione – in nessun modo unificati nella loro disciplina generale, giacché le uniche previsioni processuali introdotte dalla nuova normativa attengono unicamente al rito ex art. 706 ss. c.p.c. in tema di separazione personale; che non si capisce perché – secondo l’opinione contraddetta – dovrebbe ritenersi ormai applicabile il rito speciale ex art. 706 ss. c.p.c. a tutte le controversie tra genitori non coniugati, mentre non può dubitarsi che i giudizi in tema di nullità del matrimonio, cui pure si estende la nuova disciplina ex lege n. 54/2006, restano invece soggetti al rito ordinario di cognizione civile.
Si potrebbe anche aggiungere, a conforto della tesi che si condivide: che le norme sulla competenza sono di solito considerate di stretta interpretazione, trattandosi di materia in riserva assoluta di legge, talchè solo una norma di legge espressamente e chiaramente formulata avrebbe potuto elidere la competenza per materia del giudice specializzato, cioè del tribunale per i minorenni; che, esclusa un’abrogazione espressa dell’art. 38 disp. att. cc, non appare neppure potersi accettare un’abrogazione tacita (che è dall’art. 15 delle preleggi prevista “per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti perché la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore”) in quanto, seppure la nuova normativa abbia unificato la disciplina di diritto sostanziale relativa all’affidamento dei figli indipendentemente dal loro status, non risulta introdotto alcun decisivo elemento che consenta di ritenere che il giudice ordinario e quello minorile non possano applicare entrambi i nuovi principi, ciascuno secondo la rispettiva competenza e nell’osservanza delle proprie norme procedimentale; che la pretesa abrogazione dell’art. 317 bis non ha fatto venir meno la competenza del giudice minorile in materia di affidamento, in quanto il rinvio dell’art. 38 disp. att. cc può ben ritenersi di carattere formale e quindi ora riferito alle nuove disposizioni in materia di affidamento di cui alla l. 54/2006.
Occorre anche precisare che, diversamente da quanto si legge nella massima tratta da qualche commentatore della sent. 28/6/2006 n. 7711 del Tribunale di Milano sopra citata laddove viene detto che permane la competenza in favore del tribunale per i minorenni “in tema di affidamento di minore nato dall’unione tra genitori non coniugati e riconosciuto dal padre e dalla madre, nonché delle consequenziali domande di regolamentazione dei rapporti economici tra gli stessi”, dal testo della succitata sentenza si evince che la regolamentazione dei rapporti economici era solo oggetto di domande ed eccezioni subordinate delle parti, ma la domanda giudiziale doveva essere correttamente qualificata quale istanza relativa all’affidamento del figlio; che, in conclusione, il Tribunale ha dichiarato la propria incompetenza per materia in relazione a tutte le domande principali promosse dalle parti, essendo competente a conoscerne il Tribunale per i Minorenni, senza affermarne la competenza in ordine ai rapporti economici, anche perché ha ritenuto che il combinato disposto ex artt. 317 bis e 38 disp. att. cc sia rimasto immutato nella sua formulazione originaria nonostante l’intervenuta riforma legislativa.
Pertanto, quanto alle questioni di carattere strettamente economico relative ai figli naturali (cioè il contributo di mantenimento, mentre altra soluzione forse potrebbe aversi per l’assegnazione della casa familiare in quanto strettamente connessa alla questione in tema di affidamento anche condiviso relativa alla collocazione della prole minore presso uno dei genitori), il legislatore non ha colto l’occasione della riforma sull’affidamento condiviso per un’unificazione di competenza, talché tali questioni continueranno ad essere decise dal tribunale ordinario (in particolare dal presidente), rilevando anche che le regole del processo camerale minorile sembrano prestarsi male alle azioni di natura economica.
2. Mantenimento
a) qual’è il rilievo degli accordi tra i coniugi sul mantenimento dei figli?
Il quarto comma del novellato art. 155 cc in ordine al mantenimento dei figli, nel fissare l’obbligo di ciascuno dei genitori di provvedere in misura proporzionale al proprio reddito, fa salvi “accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti”. Tali accordi, secondo la dizione normativa, richiedono la forma scritta, ma si ritiene che l’accordo possa essere raggiunto anche innanzi al Giudice e quindi in tale sede avere la sottoscrizione a verbale dei genitori. L’accordo non elimina di certo il necessario sindacato giurisdizionale, tenuto conto dell’indisponibilità dei diritti in gioco, ed il requisito della forma scritta appare anche funzionale a tale controllo. Il parametro che il Giudice deve considerare è quello dell’interesse esclusivo della prole, alla stregua della generale previsione in materia di accordi di cui al precedente comma 2. Si ritiene che, se l’interesse della prole risulta adeguatamente tutelato, l’accordo può derogare il principio della contribuzione proporzionale; che, però, il Giudice dovrà in qualche misura valutare se l’accordo sia realmente adottato liberamente dai genitori, e non invece frutto di indebite pressioni dell’uno sull’altro o della fretta di interrompere il rapporto ad ogni costo; che, peraltro, il riferimento normativo al solo reddito è di certo incompleto, poiché per l’art. 148 CC l’obbligazione gravante sui genitori è proporzionata alle loro sostanze ed alla loro capacità di lavoro professionale e casalingo, tant’è che il riferimento all’intero patrimonio dei genitori é imposto anche dal sesto comma, che prevede indagini sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi.
b) quali le scelte alternative all’assegno periodico e quando quest’ultimo deve essere disposto?
Secondo una prima lettura dell’art. 155 comma 4, in assenza di “accordi liberamente sottoscritti dalle parti” e - secondo quanto sopra esposto - dal giudice valutati positivamente sul piano dell’interesse della prole, dovrebbe applicarsi il principio generale del mantenimento diretto dei figli in misura proporzionale al reddito di ciascun genitore, mentre l’assegno periodico di mantenimento dovrebbe essere stabilito dal giudice, “ove necessario”, al fine di realizzare il principio di proporzionalità e determinato secondo i parametri (che non sfuggono a censure di genericità) da 1 a 5 di cui al comma 4 dell’art. 155, ed inoltre avere funzione perequativa; sono previsti possibili accertamenti di polizia tributaria sui redditi e sui beni, ove le informazioni dei genitori non risultano sufficientemente documentate, salvo a dubitare, come primo accenno, per esperienza pratica, poiché la richiesta non è molto gradita e soprattutto viene trattata con meri criteri burocratici, che possano essere conseguiti risultati apprezzabili.
Chi si occupa della materia ha subito temuto, e poi concretamente avvertito nella pratica giudiziale di circa quattro mesi di vigenza della legge sull’affidamento condiviso, che il suindicato ed indubbiamente utopistico principio generale del mantenimento diretto dei figli, in assenza di accordi tra i coniugi, ed in particolare quando la prole abbia una collocazione privilegiata presso uno dei genitori, possa determinare per tale genitore dei grossi problemi quando l’altro genitore non adempia al proprio obbligo e/o non sia determinato l’ammontare del contributo da questo dovuto. La soluzione è che il concetto di “necessità” quale presupposto per disporre l’assegno non debba essere inteso in senso troppo rigido, talchè detto assegno periodico possa essere fissato: in caso di affidamento monogenitoriale; quando i figli siano collocati stabilmente o prevalentemente presso un genitore, a favore di questo; a carico del genitore che si trova in posizione economica di maggior vantaggio o addirittura sia l’unico a disporre di un reddito (a ben vedere, qui si è già nell’ottica perequativa); quando sia dedotto che l’un genitore nel corso della vita matrimoniale non abbia provveduto o abbia mal provveduto al mantenimento della prole; in qualche altro caso analogo, in cui in particolare si profili il pericolo concreto di inadempimento o di inesatto adempimento (che può anche dedursi dal mancato accordo) e di contenzioso relativo tra i coniugi.
c) quando il contributo al mantenimento spetta al figlio maggiorenne, quest’ultimo ha azione per la tutela del suo mantenimento ed in che forma, può intervenire nel giudizio tra i coniugi e in caso affermativo con che tipologia di intervento?
Nel vigore della precedente normativa, si riteneva che il figlio maggiorenne ma non autosufficiente economicamente avesse diritto al mantenimento (non ai soli alimenti), di norma in misura quantitativamente e qualitativamente non diversa rispetto al minorenne; che la legittimazione a richiedere l’assegno per i figli ormai maggiorenni ma non autosufficienti spettasse al genitore già affidatario con cui i figli continuavano a convivere, e ciò iure proprio e non ex capite filiorum, donde l’esclusione della legittimazione del figlio ad intervenire (o ad essere chiamato) nel giudizio di separazione e divorzio; che, tuttavia, rimaneva la diversa e concorrente legittimazione del figlio maggiorenne a chiedere il mantenimento con un’azione autonoma; che il coniuge obbligato a corrispondere l’assegno di mantenimento per il figlio divenuto maggiorenne, ove volesse esonerarsi, aveva l’obbligo di provare la sopravvenuta sufficienza economica del figlio stesso o eventualmente la sua colpa o la sua discutibile scelta nel non aver sfruttato le concrete condizioni per poter divenire economicamente autosufficiente; che, peraltro, l’obbligo di contribuzione non cessava ma permaneva automaticamente quando il figlio diveniva maggiorenne, salva diversa determinazione eventualmente in proc. ex art. 710 c.p.c., ravvisando il fondamento del permanere dell’obbligo di contribuzione nel principio generale di tutela della prole desumibile da varie norme dell’ordinamento e che portava ad assimilare a quella del figlio minore la posizione del figlio divenuto maggiorenne ma tuttora dipendente non per sua colpa dai genitori.
Il nuovo art. 155 quinquies, rubricato come “disposizioni in favore dei figli maggiorenni”, ora dispone che “il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salva diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all’avente diritto”
Già si può osservare che, in tema di mantenimento dei figli maggiorenni, la legge n. 54 del 2006 non ha abrogato, né modificato, il sistema degli obblighi parentali inderogabili così come previsti dagli articoli 147 e 148 c.c., sicché costituisce, tuttora, un dovere inderogabile contribuire al mantenimento dei figli anche oltre la maggiore età e finché questi non abbiano conseguito una indipendenza economica; che, quindi, l’unico significato che può attribuirsi alla locuzione “può disporre”, contenuta nell’art. 155 quinquies c.c., è quello della preliminare valutazione che il giudice rende, nei limiti di quanto provato dal genitore onerato, sulle condizioni effettive del figlio maggiorenne, cioè se questi non è economicamente indipendente, oppure che il mancato svolgimento di un’attività lavorativa dipende da un suo atteggiamento di inerzia, ovvero di rifiuto ingiustificato
Tuttavia, una prima lettura (Finocchiaro), definita da altri “dirompente”, della nuova disposizione ha portato ad affermare che, con la maggiore età cessa ope legis il diritto dell’affidatario (o comunque, in caso di affidamento condiviso, del coniuge beneficiario) all’assegno di mantenimento.
Secondo altra interpretazione, costituzionalmente orientata e che si ritiene di condividere in linea di principio ma con le articolazioni che seguono, in armonia col principio della permanenza degli obblighi parentali inderogabili previsti dagli articoli 147 e 148 c.c., il raggiungimento della maggiore età del figlio, che sia non autosufficiente economicamente e continui a convivere con il genitore beneficiario dell’assegno, non esonera il genitore onerato a corrispondere l’assegno all’altro genitore, senza soluzione di continuità e senza onere di ricorrere al giudice da parte del figlio maggiorenne o del genitore beneficiario. Però, eventualmente con ricorso ex art. 710 c.p.c., proposto nei confronti del coniuge beneficiario, il genitore onerato può chiedere o la revoca dell’assegno (in particolare, deducendo, e provando, che il figlio è divenuto economicamente autosufficiente o di non esserlo per colpa) o di corrispondere l’assegno direttamente al figlio maggiorenne, così come il ricorso in tal senso può essere proposto dallo stesso figlio maggiorenne nei confronti del genitore onerato: nel caso di domanda di revoca da parte del genitore onerato, il figlio maggiorenne può intervenire nel procedimento, ovviamente deducendo in primo luogo la debenza dell’assegno e quindi prendendo posizione in favore del genitore già beneficiario (intervento adesivo dipendente, in quanto ha interesse ad un esito della controversia favorevole al genitore adiuvato) o anche chiedendo l’erogazione a proprio favore e facendo valere la propria pretesa contro la volontà di entrambi i genitori o anche nei confronti di entrambi (intervento principale, con tutti i poteri propri di chi propone una domanda); nel caso di domanda del genitore onerato di corresponsione diretta al figlio maggiorenne, sarei favorevole al litisconsorzio necessario del figlio (in quanto altrimenti il provvedimento non sarebbe idoneo a produrre effetti nei confronti del predetto figlio), con eventuale ordine del giudice ex art. 102 cpv. c.p.c. di integrazione del contraddittorio , o quanto meno alla sua chiamata in causa iussu iudicis ex art. 107 c.p.c..
Ove l’assegno venga disposto dal Giudice per la prima volta dopo il raggiungimento della maggiore età, deve ritenersi che, ai sensi dell’ultimo inciso del nuovo art. 155 quinquies c.c. (“Tale assegno, salva diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all’avente diritto”), il Giudice dovrà disporre il versamento diretto al figlio o, ove si limiti a prevedere l’assegno in favore del figlio maggiorenne tacendo sulle modalità di pagamento, la somma dovrà essere versata al figlio. Ma la salvezza di diversa determinazione del giudice fatta dalla norma comporta che con espresso provvedimento potrà essere escluso il versamento diretto, che invece potrà essere disposto in favore del genitore convivente (col figlio), e come tale da qualificarsi “avente diritto”, il quale abbia assolto o assolva colle proprie risorse economiche e con il proprio contributo personale anche di lavoro domestico l’obbligazione solidale di mantenimento, cura, istruzione ed educazione del figlio maggiorenne ma non autosufficiente.
E’ il caso di segnalare che, secondo un certo orientamento (Cea), la lettera della norma dell’ art. 155 quinquies c.c. è tale che non dovrebbe dubitarsi che il giudice possa provvedere d’ufficio (anche, cioè, in assenza di qualsiasi istanza dei genitori) sia nel disporre il pagamento di un assegno periodico in favore dei figli maggiorenni ma non ancora economicamente autosufficienti sia nel decidere il versamento diretto dell’assegno all’avente diritto. E’, tuttavia, da osservare che, se il principio della permanenza degli obblighi parentali inderogabili previsti dagli articoli 147 e 148 c.c. darebbe conforto a tale orientamento, non può trascurarsi che il figlio maggiorenne ha ormai una propria legittimazione e che comunque, senza una motivata richiesta degli interessati ed in assenza dell’intervento dei figli, l’applicazione comporterebbe innegabili difficoltà.
d) il figlio maggiorenne in sede di modifica e revoca del mantenimento è litisconsorte necessario?
Si è già detto al punto che precede.
3) Poteri istruttori del giudice
a) quali iniziative in relazione all’audizione del minore?
L’art. 155 sexies c.c. novellato, rubricato come “poteri del giudice ed ascolto del minore”, dopo aver disposto che ”prima dell’emanazione, anche in via provvisoria, dei provvedimenti di cui all’articolo 155, il giudice può assumere ad istanza di parte o d’ufficio, mezzi di prova“ prevede anche che ”il giudice dispone, inoltre, l’audizione del figlio che abbia compiuto 12 anni e anche di età inferiore ove capace di discernimento”. Alla pretesa di un vero e proprio obbligo di tale audizione basato sul dato meramente letterale, si oppone: che, anche in armonia colla rubrica suindicata che colloca sullo stesso piano“poteri del giudice” e “ascolto del minore”, l’espressione ”il giudice dispone” può anche essere intesa nel senso di dare rilievo al potere esclusivo del giudice di disporre l’audizione del minore; che la legge applica la normativa europea ed internazionale sul diritto del minore ad essere ascoltato, il quale quindi deve essere senz’altro sentito ove ne faccia richiesta o comunque il giudice venga a conoscenza di tale richiesta, ma che invece non è soggetto ad un obbligo automatico di convocazione; che non si vede perché o quanto meno per quale fondata ragione nel procedimento per separazione il presidente dovrebbe sempre procedere all’audizione del figlio minore (“che abbia compiuto 12 anni e anche di età inferiore ove capace di discernimento”), mentre in quello per divorzio procede ex art. 4 comma 8 all’audizione dei minori “qualora lo ritenga strettamente necessario anche in funzione della loro età”; che è senza senso un’audizione obbligatoria del minore quando non v’è interesse, e soprattutto quando v’è un accordo tra i genitori sul quale il giudice non trova nulla da rilevare o chiarire; che è contrario all’interesse morale e materiale del minore ex art. 155 c.c. l’automatica audizione, oltrechè pregiudizievole nei risvolti pratici (si pensi anche alla attesa dei minori, insieme alle numerose coppie di separandi che stazionano davanti allo studio del Presidente). Il Presidente del Tribunale di Pisa, dopo approfondita valutazione, ha ritenuto di aderire al secondo indirizzo, trovando di norma concordi genitori e difensori, salva qualche eccezione fondata proprio sulla richiesta del minire di essere ascoltato.
L’audizione del minore può essere diretta o indiretta, cioè tramite i servizi sociali o uno psicologo. Chi vi parla è di norma favorevole all’audizione diretta, sia pure condotta senza porre in essere un’attività inquisitoria, ed anzi cercando prima di conquistare la fiducia del minore, ma con molta cautela, e comunque di far capire al minore che non è né l’arbitro della situazione né della decisione, bensì il giudice, che ha pur sempre di mira il di lui interesse morale e materiale Appare dovuta la verbalizzazione delle dichiarazioni dei minori, possibilmente in forma diretta, ma, per il prevalente interesse pubblico e la delicatezza di tale audizione, non si ritiene debbano essere presenti i genitori e tanto meno i loro difensori, in particolare perché la presenza ed assistenza di questi ultimi è dall’art. 706 comma 1 prevista in sede di udienza presidenziale solo in occasione della comparizione personale delle parti. Appare, inoltre, quanto meno opportuno che il presidente, dopo l’audizione diretta dei minori, informi le parti e soprattutto i difensori del contenuto delle dichiarazioni assunte
L’audizione indiretta, invece, specie se oggetto di conversazioni con i servizi sociali, rischia nell’applicazione pratica di essere condotta con criteri burocratici o di soffrire della soggezione degli operatori all’uno e/o all’altro dei genitori, e comunque dà dei risultati solo indiretti, che possono anche non fornire al giudice la genuinità della risposta.
In ogni caso, l’audizione del minore in sede di udienza presidenziale o dal Presidente delegata a terzi rientra sempre tra le sommarie informazioni; altra cosa, ovviamente, é l’efficacia e la rilevanza giuridica dell’audizione del minore, assunta in funzione dei provvedimenti presidenziali, nella fase successiva e soprattutto nella sentenza.. Diversamente sarebbe a dire nel caso in cui l’eventuale testimonianza sia assunta innanzi al giudice istruttore, che potrebbe però chiedere agli avvocati il consenso ad ascoltare il minore senza la loro presenza.
b) quali iniziative in relazione alle indagini sul patrimonio di soggetti diversi dal coniuge?
Il novellato art. 155 c.c. comma 6 prevede che “ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi” il giudice, ai fini della determinazione del contributo di mantenimento dei figli, può d’ufficio disporre un accertamento della polizia tributaria su redditi e beni dei genitori, anche se intestati a soggetti diversi. Tale norma in qualche modo riecheggia l’art. 5 comma 9 della legge sul divorzio, applicabile anche alle separazioni ex art. 23 della stessa legge e che prevede che ”in caso di contestazione il Tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria”. La nuova norma espressamente legittima le indagini anche con riferimento alla determinazione del contributo di mantenimento dei figli, non richiede (almeno sul piano normativo) che vi siano contestazioni tra i genitori ma dà al giudice il potere di disporre di ufficio l’accertamento solo che sia insufficiente la documentazione delle informazioni di carattere economico dai predetti genitori fornite, ed infine consente espressamente di estendere gli accertamenti anche alle intestazioni fittizie o fiduciarie a soggetti diversi dai coniugi.
Occorre rilevare che l’esperienza pratica pregressa nonché quella seppur recente delle richieste in questione alla polizia tributaria, almeno nella fase presidenziale, induce ad un certo scetticismo, perché la richiesta non è molto gradita, in quanto ancora sentita estranea ai compiti d’istituto seppure il ricorso del giudice alla polizia tributaria in tema di rapporti familiari sia ormai normativamente previsto da molti anni, e soprattutto viene trattata con meri criteri burocratici che di solito non conducono a risultati apprezzabili. Inoltre, l’urgenza che di solito caratterizza la richiesta dei provvedimenti presidenziali di norma induce allo slittamento delle indagini nella fase innanzi al giudice istruttore.
In una qualche misura l’esito insoddisfacente delle indagini di polizia tributaria é dipeso dalla genericità della richiesta fatta dal Giudice, genericità alle volte dipendente dalla mancanza di concreti elementi offerti dalla parte interessata, che non dovrebbe, in assenza di altri elementi di prova offerti o raggiunti nel corso del giudizio in ordine alla inattendibilità della documentazione fiscale in atti, richiedere in via alternativa un’indagine della polizia tributaria. Sarebbe invece molto proficuo, ai fini di tali indagini, che la stessa parte interessata fornisse una prima raccolta di dati: l’indicazione delle società attraverso le quali l’obbligato opera, l’indicazione delle banche di cui si serve e con le quali intrattiene rapporti, possibilmente dei conti correnti ed eventuali conti titoli, l’indicazione delle sedi e dei luoghi nei quali l’obbligato opera direttamente o tramite società. Sarebbe anche importante che il giudice delegante richiedesse ed autorizzasse la polizia tributaria ad esaminare i fascicoli sia d’ufficio che di parte, nonché l’instaurazione di un rapporto diretto tra giudice e polizia tributaria, che ove del caso potrebbe sollecitare i poteri del primo previsti dagli artt. 210 e 213 c.p.c.. Tali poteri, però, incontrano dei limiti: l’art. 210, cioè l’ordine di esibizione alla parte o al terzo di documenti (o altra cosa di cui si ritenga necessaria l’acquisizione al processo, quindi ulteriore limite è quello della necessità) prevede l’istanza di parte, e quindi la parte interessata dovrebbe opportunamente fare tale istanza e per l’art. 94 disp. att. c.p.c. dovrebbe dare indicazione specifica del documento ed offrire la prova che la controparte o il terzo possegga ciò di cui viene richiesta l’esibizione; l’art. 213, cioè la richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione, ha perso gran parte della sua efficacia a seguito della privatizzazione e del passaggio delle istituzioni bancarie ai privati.
Comunque, la norma di riferimento di maggiore rilevanza in tema di indagini dirette ad accertare la situazione dei redditi e dei patrimoni nei giudizi di separazione e divorzio è l’art. 37 comma 3 d.p.r. n. 600/1973 per il quale “in sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona”. Accennato che in materia fiscale il termine “possesso” è diverso da quello civilistico e si sostanzia nella disponibilità, nell’ambito della relativa indagine la polizia tributaria può certamente utilizzare una serie di sistema informativi, quali per es. l’anagrafe tributaria, le Camere di commercio, il Pra, le Conservatorie dei registri immobiliari, e non solo in ambito locale ma su tutto il territorio nazionale. L’opportuno e proficuo utilizzo da parte della polizia tributaria della suindicata norma o altre connesse e degli strumenti di indagine in genere consentirebbe l’accertamento della reale disponibilità patrimoniale sia ai fini della determinazione dell’assegno di separazione e divorzio che della imposizione fiscale, questa sicuramente direttamente inerente ai compiti d’istituto della Guardia di Finanza.
Si indica, a titolo dimostrativo anche se non esaustivo, il modello che si è in qualche caso adottato per la richiesta di accertamenti fiscali:
"Visto il ricorso per …………proposto in data……….;
ritenuto che appare opportuno disporre che venga effettuata un’accurata indagine volta verificare l’effettiva capacità economica di... nato a.... il... e residente a … in Via….:
richiede alla Guardia di Finanza, Comando Nucleo di Polizia Tributaria di...., con facoltà di eventuale subdelega ai Comandi competenti, di accertare:
1) le dichiarazioni dei redditi degli ultimi 5 anni;
2) la compatibilità di tali dichiarazioni con la capacità reddituale dell’interessato, basandosi anche su elementi presuntivi di ricostruzione della predetta capacità;al predetto fine, ove occorra, si tenga conto della sua attività d’impresa svolta in forma individuale e societaria, anche di fatto, e , per quanto attiene all’attività svolta in forma societaria, si abbia in particolare riguardo alle specifiche utilità economiche che l’interessato, in considerazione della propria veste nell’ambito della società, concretamente ritrae (es. compensi, anticipazioni, benefici anche indiretti a lui attribuiti, etc.);
3) quale sia, comunque, la capacità reddituale dell’interessato, estendendo l’indagine anche a redditi e beni di cui l’interessato abbia la disponibilità, seppure intestati a soggetti diversi;
4) se presso il Catasto, ed in particolare quello di..., l’interessato sia intestatario di beni immobili di qualsivoglia genere;
5) se sia intestatario di beni mobili registrati o se lo sia stato negli ultimi 5 anni;
6) se presso i principali istituti di credito della provincia di…….l’interessato sia intestatario o cointestatario di conti di qualsiasi natura (anche di eventuali gestioni titoli ed altre posizioni bancarie di qualsiasi genere), acquisendo gli estratti conti relativi e/o altra documentazione equipollente con la movimentazione degli ultimi 5 anni: a tal fine, si conferisce specifica delega per gli accertamenti e l’acquisizione di quanto occorra presso i predetti istituti;
Dispone che il Comando delegato invii relazione scritta e la opportuna eventuale documentazione relativa alle indagini svolte .
Rinvia all’udienza del.... ore.., richiedendo al Comando delegato di trasmettere tempestivamente, in relazione alla predetta udienza di rinvio, eventuale richiesta concreta di proroga degli accertamenti
Il Presidente del Tribunale"
Si potrebbe ricorrere alla consulenza tecnica d'ufficio, cioè un tipico strumento di prova, per l’accertamento dei redditi e dei patrimoni e quindi la determinazione dell’ammontare degli assegni. Tuttavia, evidenti sono i limiti: gli istituti bancari, l’associazione bancaria italiana e la stessa Banca d’Italia oppongono resistenze, sostenendo di dover rispondere solo al magistrato penale; viene anche opposta la legge sulla privacy, che però non dovrebbe applicarsi alle attività disposte dal giudice.
Il raggiungimento tramite consulenza degli obbiettivi proposti dipende essenzialmente dalle capacità e dalla preparazione del consulente, dalla serietà e determinazione con cui porta a compimento il proprio incarico, dalla collaborazione tra consulente e giudice (soprattutto giudice istruttore) nonché la stessa parte che ha sollecitato il mezzo istruttorio (con particolare riferimento all’indicazione di elementi e documenti sui quali il consulente possa rivolgere la propria attenzione).
4) Fase sommaria presidenziale.
a) quali sono gli oneri dell’attore nella stesura del ricorso e del convenuto nella memoria ante udienza?
Oneri dell’attore.
A differenza del testo previgente dell’art. 4 comma 2 della l. sul divorzio, applicabile ex art. 23 di tale legge anche alla separazione, testo per il quale il ricorso doveva contenere i requisiti di cui all’art. 163 n.n. 1-5, a seguito delle modifiche di cui alla l. n. 80/2005, per il nuovo art. 706 comma 1 c.p.c. il ricorso per separazione “deve contenere l’esposizione dei fatti su cui la domanda è fondata” e per il nuovo art. 4 comma 2 della legge sul divorzio il relativo ricorso “deve contenere l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali la domanda…é fondata“.
La nuova normativa, quindi, ha alleggerito, almeno nelle intenzioni, i requisiti del ricorso introduttivo sia di separazione che di divorzio (come della memoria del convenuto), con una scelta minimale finalizzata a consentire al presidente del tribunale nella fase di competenza di poter esercitare al meglio i poteri conferitigli, cioè il tentativo di conciliazione e in caso di esito negativo la pronuncia dei provvedimenti nell’interesse dei coniugi e della prole, sollevando così le parti da qualsiasi preoccupazione circa l’esercizio dei propri poteri (soprattutto in materia di fissazione del thema decidendum) dopo l’esaurimento della fase presidenziale.
La differenza di formulazione tra separazione, con il ricorso che deve contenere solo l’esposizione dei fatti, ed il divorzio, che deve anche contenere l’esposizione degli elementi di diritto, trova giustificazione nella circostanza che, mentre la prima ex art. 151 c.c. può essere pronunciata se si sono verificati “fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio all’educazione della prole” (la pronuncia di addebito è meramente eventuale), la maggiore specificazione imposta al ricorso per divorzio discende dal rilievo che le fattispecie di divorzio sono eterogenee, talchè non é sufficiente che il ricorrente si limiti a richiedere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, ma è indispensabile che precisi in applicazione di quale delle molteplici fattispecie tale pronuncia è sollecitata.
Il ricorso, quindi, salva la suindicata differenza tra separazione e divorzio, può avere un contenuto alquanto generico, certo nei limiti di cui all’art. 125 c.p.c. non derogato, sicché dovrà comunque individuarsi l’editio actionis; basterà che sia identificata la domanda, con l’indicazione dell’ufficio giudiziario, delle parti, dell’oggetto e delle ragioni della domanda, con le relative conclusioni. In particolare, nella separazione il fatto costitutivo della domanda è rappresentato in primo luogo dalla intollerabilità della prosecuzione della convivenza o dal grave pregiudizio per la prole, e non necessariamente anche dai singoli fatti per provare il determinarsi di tale situazione, sicché la successiva allegazione di tali fatti non comporterà la novità della domanda, né il presidente del tribunale potrà rilevare nella relativa udienza eventuali cause di nullità cui la parte potrebbe porre rimedio colla memoria integrativa. Ovviamente nulla osta, e ciò appare la regola nella prima applicazione della nuova normativa, che il ricorso sia completo in tutti gli elementi, anche quanto a quelli che potrebbero essere contenuti nella memoria integrativa, che è facoltativa; spesso la completezza è opportuna ai fini dell’adozione dei provvedimenti provvisori ed urgenti, anche ai fini dell’assunzione dei mezzi di prova (ad istanza di parte o d’ufficio) consentita dall’art. 155 sexies c.c. prima dell’emanazione dei provvedimenti di cui all’art. 155.
Sia per la separazione che per il divorzio, però, permane l’obbligo di indicare in ricorso “l’esistenza di figli legittimi, legittimati o adottati durante il matrimonio” (nuovi art. 706 comma 4 c.p.c. e art. 4 comma 4 l. divorzio), già previsto dall’art. 4 previgente della l. sul divorzio ed applicabile ex art. 23 stessa legge anche al ricorso per separazione. Secondo una tendenza, si tratterebbe di un requisito previsto a pena di nullità ex art. 156 comma 2 c.p.c., in quanto l’atto in sua assenza non sarebbe in condizioni di conseguire il suo scopo poiché non metterebbe il presidente del tribunale in condizione di emettere gli importantissimi provvedimenti temporanei ed urgenti relativi all’affidamento, al mantenimento ed all’educazione della prole. Secondo altra tendenza più moderata, l’omissione potrebbe essere sanata con dichiarazione resa all’udienza presidenziale.
Poiché la memoria integrativa di cui al nuovo art. 709 c.p.c. deve contenere, in virtù del richiamo all’art. 163 comma 3 nn. da 2 a 6 c.p.c., che in particolare prevede al n. 6 che la citazione contenga “il nome ed il cognome del procuratore e l’indicazione della procura, qualora questa sia stata rilasciata”, si è posto il dubbio se la procura possa essere rilasciata, successivamente al deposito del ricorso, colla memoria integrativa medesima. La soluzione dovrebbe essere negativa: la memoria non rientra tra gli atti destinati all’apposizione della procura (art. 83 e 125 c.p.c.); la novella non deroga all’art. 125 c.p.c. alle cui prescrizioni deve conformarsi il contenuto del ricorso, che deve essere allora sottoscritto da difensore munito di procura, rilasciata anteriormente al deposito, pena la sua inesistenza per mancanza di un presupposto per la instaurazione del rapporto processuale, a differenza di quanto può accadere per i procedimenti che iniziano con citazione (Cass. n. 972/1999, che precisa che la disposizione dell’art. 125 comma 2, che prevede la possibilità che la procura al difensore dell’attore possa essere rilasciata in data posteriore alla notificazione dell’atto purché anteriormente alla costituzione della parte rappresentata, non è applicabile ai procedimenti promossi con ricorso in quanto la costituzione della parte rappresentata coincide con il deposito del ricorso in cancelleria, talchè l’eventuale mancanza della procura al momento del deposito del ricorso comporta l’inesistenza dell’atto introduttivo); a ben vedere, la memoria integrativa deve contenere gli elementi di cui all’art. 163, ma la procura deve essere solo “indicata”, proprio come previsto dall’art. 163 n. 6.
Oneri del convenuto.
Passando agli oneri del convenuto ante udienza presidenziale, si premette che ai sensi dei nuovi artt. 706 comma 3 c.p.c. e 4 comma 5 della l. divorzio, il presidente del Tribunale fissa nel decreto di comparizione delle parti il termine entro cui il coniuge convenuto può depositare memoria difensiva e documenti prima della relativa udienza presidenziale. Tali norme hanno indubbiamente la funzione di far cessare l’espediente, spesso adottato nella pratica e poco rispettoso del diritto di difesa del ricorrente nonché delle esigenze (soprattutto) di studio del presidente, di costituirsi solo all’udienza presidenziale depositando memorie difensive e fascicolo colmi di documenti. Non si condivide, però, l’opinione di chi ritiene che il termine fissato dal presidente abbia carattere preclusivo e che il mancato rispetto di tale termine comporti che il convenuto possa solo liberamente partecipare all’udienza presidenziale svolgendo le sue difese solo oralmente, e neppure l’opinione di chi ritiene che la memoria ex art. 706 é memoria di costituzione per la fase, per cui il deposito fuori temine comporti che le domande formulate dal convenuto siano inammissibili in relazione all’adozione dei provvedimenti provvisori (salvo quelle per i quali sono previsti poteri ufficiosi). Le preclusioni, infatti, sono determinate solo dalla legge; inoltre, la memoria difensiva é certo cosa diversa dalla comparsa di risposta e non costituisce né sotto il profilo temporale né sotto quello contenutistico atto di costituzione del convenuto. Si ritiene, pertanto, che alla richiesta di termine a difesa da parte del ricorrente potrà seguirne la concessione con slittamento dell’udienza. Poiché tale soluzione, però, comporta il rischio che il ricorrente ne approfitti per contrastare la memoria pur tardiva del convenuto senza che quest’ultimo abbia la possibilità di replicare, appare opportuno concedere al convenuto un ulteriore termine prima dell’udienza cui la causa sia stata rinviata, oppure ancor meglio fissare per ambedue le parti lo stesso termine con imposizione o raccomandazione dello scambio tempestivo delle rispettive memorie (soluzione adottata sovente adottata a Pisa, sull’accordo delle parti o comunque di loro gradimento).
b) se i difensori tecnici devono presenziare all’audizione separata dei coniugi.
Novità importante dell’art. 707 CPC novellato dalla l. n. 80/2005, che porta così a termine il percorso iniziato colla sentenza n. 151/1971 della Corte Costituzionale, è che –testualmente- il comma 1 dispone che “I coniugi devono comparire personalmente davanti al presidente coll’assistenza del difensore”. Tale norma ha la finalità di consentire la presenza del difensore e la sua assistenza della parte patrocinata sin dall’inizio dell’udienza presidenziale. Non pare che la norma escluda che i coniugi possano farsi assistere da più di un difensore, anche perché la nuova normativa, anziché avere una funzione limitatrice, è soprattutto diretta a rafforzare le garanzie rispetto alla precedente previsione.
Problema delicato è quello se la parte possa comparire innanzi al presidente senza l’assistenza del difensore. Mentre il ricorrente, costituito col deposito del ricorso, ha generalmente interesse a comparire coll’assistenza del difensore, il problema si pone soprattutto per il convenuto, che all’udienza presidenziale potrebbe non ancora essere costituito. Alla rigida opinione di qualche, pur autorevole, primo commentatore che esclude che il convenuto possa comparire senza l’assistenza richiesta, appare preferibile quella più elastica, che, tenuto conto della ratio riformatrice di ampliare le garanzie difensive dei coniugi sin dall’inizio del giudizio, nega che il presidente possa sic et simpliciter escludere il convenuto dall’udienza, anche perché all’obiezione della tendenza più rigorosa che le dichiarazioni del convenuto non assistito potrebbero ritorcersi contro di lui potrebbe opporsi che tale pericolo sarebbe di certo inferiore agli svantaggi cui andrebbe incontro se gli fosse precluso di presenziare all’udienza all’esito della quale il presidente dovrebbe provvedere solo in base alla versione verosimilmente del tutto interessata del ricorrente. Si ritiene che il presidente possa invitare il convenuto a munirsi di difensore ed eventualmente rinviare a tal fine l’udienza (anche per consentire all’interessato, ove ne ricorrano i presupposti, di adire il Consiglio Dell’Ordine Avvocati per ottenere il patrocinio a spese dello Stato) e, in caso negativo, di farlo presenziare egualmente all’udienza e invitarlo a fare eventuali dichiarazioni spontanee o anche presentare memorie scritte, in tal modo sicuramente evitando possa profilarsi una lesione dei diritti della difesa.
Rifuggendo, dunque, da tentazioni riduttive che vorrebbero interpretare l’art. 707 comma 1 (che dispone che i coniugi devono comparire personalmente davanti al presidente coll’assistenza del difensore) come una mera codificazione di quanto già stabilito dalla sentenza n. 151/1971 del Corte Costituzionale (colla presenza del difensore solo al momento delle richieste dopo l’esito negativo del tentativo di conciliazione), si ritiene, invece, che il successivo art. 708, rubricato come tentativo di conciliazione e provvedimenti del presidente, rifletta il nuovo art. 707 comma 1 e che quindi durante l’udienza presidenziale l’assistenza e presenza del difensore a tutela del proprio patrocinato debba essere completa.
Si ritiene, inoltre, che, considerando la funzione dell’audizione dei coniugi e dell’assistenza e presenza del difensore nonché il tenore dell’art. 708 commi 1 e 3, nell’udienza presidenziale debbano ora distinguersi due momenti dell’audizione stessa, il primo finalizzato al tentativo di conciliazione ed il secondo all’emissione dei provvedimenti urgenti. Con questa distinzione, già presente praeter legem nella prassi di qualche Tribunale, è possibile attuare il primo momento di ascolto separato dei coniugi, che dovrà essere utilizzato dal Presidente solo per far emergere circostanze utili alla riappacificazione e ad un tentativo positivo di riconciliazione: ciascuno dei coniugi sarà ascoltato alla presenza e coll’assistenza del proprio difensore, senza la presenza non solo dell’altra parte ma anche del difensore di questa, così agevolando ciascuno dei coniugi a chiarire le ragioni e l’entità della crisi coniugale e quindi i motivi della domanda di separazione e facendo emergere circostanze che potrebbero favorire la riappacificazione, o anche intravedere la possibilità di trasformazione della separazione giudiziale in consensuale. Non si condivide, pertanto, la tesi di qualche pur egregio autore, per il quale la particolarità della materia può giustificare l’audizione separata dei coniugi ma non l’esclusione del difensore della controparte, e ciò quanto meno perché diventerebbe inutile la prescritta audizione separata dei coniugi se poi si consentisse che all’ascolto dell’uno presenziasse il difensore dell’altro. Sarà da ammettersi la presenza dei difensori di ambo le parti, ciascun avvocato a tutela del proprio patrocinato, nel corso dell’audizione congiunta delle parti, che potrebbe portare se non alla riconciliazione alla trasformazione della separazione già da questo primo momento di audizione.
Ovviamente, se il coniuge convenuto non comparisse, il Presidente non potrebbe espletare il tentativo di riconciliazione e quindi dovrebbe ascoltare il ricorrente ed il suo difensore una sola volta ed esclusivamente ai fini della pronuncia dei provvedimenti provvisori ed urgenti, come chiaramente emerge dall’ultimo inciso del nuovo comma 3 dell’art. 708.
In caso di esito negativo del tentativo di conciliazione (e nell’impossibilità di arrivare ad una separazione consensuale), si apre il secondo momento, nel quale il Presidente, ai fini dell’emissione dei provvedimenti provvisori ed urgenti, deve procedere all’ascolto di ciascuno dei coniugi, prima separatamente e coll’assistenza del rispettivo difensore ma - secondo quanto già esposto - senza la presenza di quello di controparte in quanto l’art. 707 comma 1 prevede solo “l’assistenza del difensore”, e poi nella pienezza del contraddittorio, e cioè alla presenza e coll’assistenza di ambedue i difensori, che faranno le loro richieste. Si potranno avere indubbiamente delle difficoltà rispetto alla prassi vigente sotto il precedente art. 708, in particolare in relazione alla natura ed entità dell’intervento di ciascun difensore nel corso dell’audizione del proprio patrocinato, ma sarà interesse delle parti e dei loro difensori mantenere la misura e soprattutto del presidente farla rispettare.
c) quali sono i rapporti tra reclamo e revoca – modifica del G. I.
Un’innovazione di grande rilievo è data dal nuovo art. 708 comma 4 c.p.c., come introdotto dall’art. 2 comma 1 della l. n. 54/2006, che prevede che contro i provvedimenti presidenziali provvisori ed urgenti nel termine perentorio di 10 giorni dalla notificazione del provvedimento si può proporre reclamo alla corte d’appello, che decide in camera di consiglio. Per l’art. 4 comma 2 della predetta legge, la disposizione è applicabile anche al divorzio (come ai provvedimenti adottati nel giudizio di nullità matrimoniale).
Il legislatore ha così inteso risolvere la dibattuta questione della reclamabilità dei provvedimenti presidenziali, particolarmente avvertita in dottrina ma contrastata dalla giurisprudenza maggioritaria, precludendo quindi definitivamente l’ammissibilità di un reclamo al collegio del tribunale ex art. 669 terdecies. L’attribuzione della competenza alla corte d’appello é stata verosimilmente fatta per eliminare ogni questione di imbarazzo o resistenza dei magistrati del tribunale a doversi pronunciare sul provvedimento adottato dal capo dell’ufficio.
Il nuovo reclamo voluto dal legislatore, non dovrebbe essere quello cautelare, non menzionato, ex art. 669 terdecies c.p.c. (che, in particolare, prevede la decorrenza del termine dalla comunicazione e lo fissa in 15 giorni) ma quello camerale ex art. 739 c.p.c., e ciò anche in sintonia col predetto art. 739, con una presa di posizione quindi di un’impostazione dell’udienza presidenziale in termini di volontaria giurisdizione.
Poiché è previsto che il reclamo alla corte d’appello avverso il provvedimento presidenziale deve essere proposto nel termine perentorio di 10 gg. dalla notificazione di tale provvedimento, appare difficile che possa prescindersi dalla notifica a cura della parte interessata e ritenere sufficiente che il termine decadenziale decorra dalla data di emanazione in udienza o dalla data della comunicazione da parte della cancelleria del provvedimento emesso fuori udienza. Sarà, quindi, cura della parte interessata, che venga comunque a conoscenza del provvedimento presidenziale, di richiedere tempestivamente la notifica alla controparte al fine di provocare al più presto la stabilità del provvedimento presidenziale non reclamato in termini.
d) è applicabile analogicamente la disciplina del reclamo cautelare?
La giurisprudenza assolutamente prevalente (fatta salva qualche recente e contrastata apertura, in particolare dei tribunali di Genova e Rovereto) ha costantemente escluso, così come per i provvedimenti presidenziali primo dello specifico strumento introdotto dal nuovo art. 708 comma 4, che i provvedimenti di modifica e revoca del giudice istruttore fossero reclamabili, in particolare in ragione della negazione della natura cautelare in senso proprio di tali provvedimenti. Parte della dottrina, invece era favorevole al reclamo, lamentando un particolare deficit di garanzie per i provvedimenti del giudice istruttore, mentre per quelli presidenziali vi era un minimo di garanzie rappresentata proprio dalla possibilità di conseguirne la modifica da parte del giudice istruttore, o anche la totale assenza sostanziale di garanzie quando chi svolgeva le funzioni presidenziali ed il giudice istruttore coincidevano nella persona, anche in un malcelato intento deflattivo delle richieste di modifica al giudice istruttore.
La dottrina favorevole al reclamo ha subito tratto argomenti dalle modifiche introdotte sul procedimento cautelare dalla legge 80/2005 per affermare la reclamabilità dei provvedimenti (sia del Presidente al tempo, allorché non era stato ancora modificato l’art. 708 comma 4 che del giudice istruttore), in particolare osservando che ormai tutti provvedimenti cautelari anticipatori – tra cui anche quelli in questione - sopravvivono all’estinzione del procedimento di merito, talché è venuto meno il principale ostacolo normativo alla reclamabilità cautelare, fondato sull’art. 189 disp. att. c.p.c. che, prevedendo l’ultrattività dei provvedimenti in questione, consentiva di escluderne la c.d. “strumentalità” (principale profilo funzionale delle misure cautelari).
Non appare facilmente contestabile che il nuovo art. 708 comma 4, prevedendo solo il reclamo (e non ex art. 669 terdecies) contro i provvedimenti presidenziali, abbia fortemente incrinato, anche dopo le modifiche introdotte sul procedimento cautelare dalla legge 80/2005, il fondamento della tendenza estensiva del reclamo cautelare ai provvedimenti del giudice istruttore. Anche se non volesse darsi un peso decisivo all’argomento formale dell’ ”ubi lex voluit, dixit”, tale argomento non può essere svalutato, e tanto meno col rilievo che ormai l’impugnabilità dei provvedimenti in questione è stata espressamente affermata dal legislatore con riferimento alle misure presidenziali: non si considera che la legge n. 80/2005, pur in costanza di un ampio dibattito sulla reclamabilità, non aveva preso espressa posizione e che, rinvigorito tale dibattito proprio dalle modifiche introdotte da tale legge sul procedimento cautelare, il nuovo art. 708 comma 4 quale introdotto dall’art. 2 comma 1 della l. n. 54/2006 ha fatto una precisa scelta limitando la reclamabilità ai provvedimenti presidenziali attraverso uno strumento diverso da quello cautelare ex art. 669 terdecies c.p.c. (non menzionato), cioè quello camerale ex art. 739 c.p.c.; non convince, poi, l’obbligata affermazione che, diversamente che per i provvedimenti presidenziali, per quelli del giudice istruttore il reclamo dovrebbe essere quello cautelare ex art. 669 terdecies c.p.c. e la competenza spetterebbe al tribunale in composizione collegiale
5) Fase a cognizione piena ed esecuzione
a) quali sono i presupposti della revoca – modifica dell’ordinanza presidenziale da parte del G. I.?
Poiché gli artt. 709 ultimo comma c.p.c. e 4 comma 8 l. divorzio nel testo introdotto dalla l. n. 80/2005 prevedono che i provvedimenti presidenziali possano essere revocati o modificati dal G. I., in tesi ancora senza necessità di intervento di circostanze sopravvenute, la mancata proposizione del reclamo, che non comporta una sorta di acquiescenza ai provvedimenti presidenziali che restano temporanei, non preclude la potestà di modifica del giudice istruttore in corso di causa. Tale potere potrebbe esercitarsi anche se il provvedimento presidenziale è ancora reclamabile non essendo stato ancora notificato, o al limite anche in pendenza di reclamo, salvo a richiedere, eventualmente in analogia all’art. 669 decies comma 1, mutamenti di circostanze o fatti anteriori di cui si è acquisita conoscenza successiva al provvedimento cautelare, con connesso onere di prova a carico dell’istante; ancor più, una volta pronunciatasi la corte d’appello, il cui provvedimento deve avere un minimo di stabilità e non essere suscettibile di essere anche a breve vanificato, ulteriori modifiche potranno essere adottate dal G. I. solo in presenza di sopravvenienze.
b) in sede di separazione è possibile stabilire la somministrazione retroattiva del contributo di mantenimento e quali sono le forme dell’appello?
In ordine alla questione della somministrazione retroattiva del contributo di mantenimento, costituisce ormai un principio consolidato, che non pare modificato dalla nuova normativa, quello secondo il quale l'obbligo di corrispondere l'assegno di mantenimento fissato in sede di separazione decorre non dalla data della sentenza ma da quella della domanda, con la conseguenza che tale decorrenza sussiste, anche se la sentenza non abbia espressamente sancito la retroattività dell'assegno (cfr. Cass., 20 agosto 1997, n. 7770; Cass., 8 gennaio 1994, n. 147; Cass., 16 dicembre 1987, n. 9326). E ciò per il principio (codificato, del resto, in tema di obbligazioni alimentari "ex lege" dall'art. 445 c.p.c., ritenuto pacificamente applicabile anche all'assegno di mantenimento) secondo cui, in generale, "la durata del processo non deve andare a danno dell'attore che ha ragione" (Cass. n. 7770/1997, in motivazione). Tuttavia il contributo può essere in sentenza determinato in importi differenziati (indipendentemente dalla misura dell'assegno provvisorio, che, in ragione della sua natura interinale, rimane "eo ipso" caducato dalla pronuncia definitiva) per il periodo intercorrente dalla data della domanda alla decisione, con riguardo alla evoluzione delle condizioni economiche dei coniugi.
Non rileva che il presidente del tribunale in sede di audizione dei coniugi non abbia ritenuto di adottare provvedimenti temporanei in proposito ex art. 708 c.p.c., né che non siano stati richiesti al riguardo provvedimenti urgenti in corso di istruttoria (Cass. n. 4558/2000).
In ordine all’appello sulle sentenze di separazione, occorre premettere che la giurisprudenza milanese dagli anni 90 ammetteva la possibilità di una sentenza non definitiva di separazione giudiziale e riteneva che la causa poteva continuare davanti al giudice della separazione per i provvedimenti accessori (addebito, affidamento dei figli, assegnazione della casa coniugale, contributo di mantenimento); che, se nelle more la sentenza non definitiva di separazione passava in giudicato (ad es. per mancata impugnazione), poteva essere proposta domanda di divorzio con richiesta di pronuncia non solo sul vincolo ma anche sui provvedimenti accessori (fatta eccezione per l’addebito), mentre la relativa domanda su tali provvedimenti era tuttora pendente innanzi al giudice della separazione; che sono poi intervenute le Sez. Unite della Cassazione che colle sent. nn. 15248/2001 e 15279/2001, sia pure pronunciandosi in tema di domanda di addebito, fondando la decisione non sull’art. 23 in relazione all’art. 4 comma 9 della legge sul divorzio bensì sull’art. 277 c.p.c., hanno ritenuto che la richiesta di declaratoria di addebitabilità della separazione ha natura di domanda autonoma, pur se logicamente subordinata alla pronuncia di separazione, talché, in carenza di ragioni o norme derogative dell’art. 277 comma 2 c.p.c., il giudice del merito può limitare la decisione alla domanda di separazione, se ciò risponde ad un apprezzabile interesse della parte e se non sussiste per la domanda stessa la necessità di ulteriore istruzione.
E’anche il caso di accennare che il fondamento dato dalle Sezioni Unite alla sentenza non definitiva di separazione, cioè l’art. 277 c.p.c., diversamente da quanto in precedenza fatto dalla giurisprudenza milanese e da Cass. Sez. I 13312/2000 che avevano ammesso la sentenza non definitiva sulla base dell’estensione per l’art. 23 dell’art. 4 comma 9 della l. sul divorzio, creava – tra l’altro - il problema dell’applicabilità della riserva d’appello alla sentenza non definitiva di separazione, mentre l’art. 4 comma 9 della legge sul divorzio coll’estensione ex art. 23 alla separazione consentiva solo l’appello immediato avverso la sentenza sul vincolo.
L’art. 1 comma 4 della l. n. 263/2005 ha risolto il problema col nuovo art. 709 bis, disponendo che: a) anche nel procedimento di separazione, nel caso in cui il processo debba continuare per la richiesta di addebito, per l’affidamento dei figli o per le questioni economiche, il tribunale emette sentenza non definitiva relativa alla separazione; b) avverso tale decisione è ammesso soltanto appello immediato deciso in camera di consiglio.
Dopo la riforma dell’art. 709 bis, sembra anche superato ogni dubbio circa l’applicazione generalizzata del rito camerale a tutti gli appelli proposti contro le sentenze emesse in tema di separazione, in quanto sarebbe del tutto irrazionale limitare le modalità procedimentale previste da tale norma alle impugnazioni delle sole sentenze non definitive.
c) che natura ha l’azione ex art. 709 ter e il risarcimento del danno o le sanzioni ivi previste?
L’art. 709 ter CPC, rubricato come “soluzione delle controversie e provvedimenti in caso di inadempienze o violazioni”, desta alcuni notevoli problemi di interpretazione, che hanno dato già luogo a soluzioni diverse e contrastanti.
La norma, destinata ai sensi del comma 1 a “disciplinare le controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità di affidamento”, ai sensi del primo inciso del comma 2 consente al giudice nei casi meno gravi di adottare i provvedimenti opportuni; però, allo stesso comma 2, in caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento, conferisce al giudice il potere di modificare i provvedimenti in vigore nonché congiuntamente di adottare le misure di cui ai n.n. 1-2-3-4 (ammonimento, statuizioni risarcitorie e sanzione amministrativa). Pur essendo inserita tra le norme dettate per lo svolgimento del procedimento di separazione personale tra i coniugi, fa riferimento ai “genitori”, forse in virtù dell’applicabilità della normativa ex art. 4 comma 2 della l. n. 54/2006 anche alle cause di divorzio, di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati, ma certamente vuol significare che è limitata ad un contenzioso che riguarda esclusivamente questioni concernenti i figli minori.
Il procedimento, introdotto con ricorso, appare dal comma 1 integrare un sub procedimento incidentale nell’ambito di un giudizio di separazione già pendente (almeno nell’ipotesi tipica) ovvero un ipotesi speciale di procedimento per la modifica delle condizioni di separazione; appare anche applicabile con riferimento ad una istanza proposta in via principale dopo la definizione della separazione, ma a prescindere dalla sussistenza delle condizioni per proporre un ricorso ex art. 710, e ciò in particolare con riferimento alla prima ipotesi dei casi meno gravi allorché è chiamato ad adottare i provvedimenti opportuni. Come è stato già detto da un chiaro autore (Finocchiaro), il procedimento in questione è principalmente funzionale ad assicurare “il corretto svolgimento delle modalità di affidamento” o, più tecnicamente, la corretta attuazione o esecuzione del provvedimento già emesso in materia di esercizio della potestà dei genitori o di affidamento della prole; è quindi, sostanzialmente, un procedimento sussidiario (come anche dimostrato dai criteri di competenza ivi previsti) con funzione esecutiva, rispetto a quanto disposto col provvedimento presupposto di cui si dirà, ma non ha natura esecutiva in quanto il giudice deve compiere un’attività di contenuto esclusivamente cognitivo, seppur funzionale alla corretta esecuzione del provvedimento presupposto.
Il presupposto implicito, come già anticipato, è costituito di norma da un provvedimento che abbia regolato l’affidamento o l’esercizio della potestà, come anche confermato dal comma 2 dell’art. 709 ter nella parte in cui prevede che il giudice “può modificare i provvedimenti in vigore”. Tuttavia, potrebbe prescindersi dall’esistenza di un precedente provvedimento nel caso di genitori non coniugati che entrino in conflitto sull’esercizio della potestà, cioè di un tipo di controversia in cui potrebbe non essere mai intervenuto un provvedimento giudiziale e che dovrebbe essere disciplinato per la suindicata norma di estensione dell’art. 4 comma 2 dall’art. 709 ter ( con competenza del tribunale per i minorenni).
L’art. 709 ter al comma 1 si limita a stabilire che è “competente il giudice del procedimento in corso. Per i procedimenti di cui all’art. 710 è competente il tribunale del luogo di competenza del minore”. Anche se vi sono contrasti interpretativi, la soluzione più ragionevole e vicina alla normativa in questione appare essere quella di ritenere la competenza del giudice istruttore in caso di separazione e divorzio, del tribunale per i minorenni in caso di figli naturali, del tribunale in sede collegiale in caso di decisione della separazione e del divorzio nonché di controversie successive alla separazione ed al divorzio, con il vantaggio che ciascun giudice segue il rito che gli è proprio. A chi ritiene che la competenza del Giudice istruttore dovrebbe essere limitata a provvedimenti che regolino diversamente l’esercizio della potestà e dispongano l’affidamento esclusivo dei figli, mentre le misure di cui ai n., 1-2-3-4 dell’art. 709 ter comma 2 (ammonimento, statuizioni risarcitorie e sanzione amministrativa) sono definitive e dovrebbero essere riservate al Collegio in quanto la competenza del giudice istruttore è limitata ai provvedimenti provvisori ed urgenti, può opporsi che l’attribuzione della competenza al collegio (in sede di decisione finale o anche con provvedimento interinale in corso di causa) rischierebbe di rallentare l’adozione di misure di solito connesse ad un contesto di urgenza e che per essere efficaci devono essere relativamente immediate; che, inoltre, il giudice istruttorte in corso di causa è sicuramente competente ad adottare gli opportuni provvedimenti di modificazione e risoluzione delle controversie ed è quindi ragionevole che possa anche adottare le misure sanzionatorie accessorie, evitando anche un irragionevole frazionamento delle attribuzioni di cui all’art. 709 ter; che il giudice istruttore può adottare in corso di causa i provvedimenti di cui agli artt. 186 bis, ter e quater c.p.c. Il risultato, ma non anche la natura, appare sostanzialmente essere quello della c.d. esecuzione indiretta, come anche emerge dall’accorpamento nella l. 54/2006 di alcune proposte di legge rivolte a dare una regolazione positiva ad un settore dell’ordinamento, cioè quello dell’attuazione dei provvedimenti in materia di potestà genitoriale e di affidamento dei figli minori, che in precedenza difettava di un’appropriata disciplina e ricorreva all’applicazione analogica del procedimento per obblighi di fare e non fare ex artt. 612 s.s. c.p.c..
Le misure di cui ai n., 1-2-3-4, anche in coerenza con quanto sopra ritenuto sulla natura e sulla funzione del procedimento, appaiono avere carattere sanzionatorio, e ciò non solo l’ammonimento e la sanzione amministrativa ma – seppure sulla questione vi sia contrasto - anche le statuizione risarcitorie, e ciò anche per coerenza interna al procedimento e per dare uno specifico significato al risarcimento (in quanto il genitore interessato potrebbe sempre richiedere il risarcimento del danno in via ordinaria), quindi rapportabili alle pene private ed ai danni punitivi di altri ordinamenti. Il carattere sanzionatoria non può prescindere dalla tutela dell’interesse del minore, talchè il giudice, pur avendo accertato l’inadempimento, potrebbe, come anche reso palese dall’espressione “può”, non disporre alcuna misura o disporre misure meno afflittive di quanto richiesto se ritenga che corrisponda all’interesse in oggetto (ad es. in tema di risarcimento, se è prevedibile un inasprimento della conflittualità dei genitori, a tutto danno dei figli minori).
Il carattere sanzionatorio e di pena privata del risarcimento comportano, insieme alla funzione del procedimento in esame, che la determinazione dell’an e del quantum possa prescindere dai parametri giurisprudenziali in materia di danno e che il giudice possa esercitare il potere discrezionale di quantificazione del danno in un ottica essenzialmente prognostica, disponendo una misura adeguata ed idonea ad indurre il soggetto passivo a cessare l’inadempimento e a desistere dalle condotte pregiudizievoli, come pure, in caso di nuovi inadempimenti o nuove condotte illecite, a disporre la misura in questione come anche le altre.
Diversamente che per le altre misure che, dato il carattere sanzionatorio, potrebbero applicarsi d’ufficio, compresa la misura del risarcimento del danno al minore, e quindi a prescindere dal principio della domanda, non pare possa estendersi tale soluzione alla fattispecie risarcitoria in favore del genitore (ovviamente non inadempiente) in quanto l’interesse pubblicistico che sottende anche al risarcimento nei confronti del minore è in questo caso sfumato e viene in primo piano quello del genitore che richiede il risarcimento.
Ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 709 ter, “i provvedimenti assunti dal giudice del procedimento sono impugnabili nei modi ordinari”.
La norma non è di agevole lettura, da un lato perché non può essere intesa come un rinvio tout court ai mezzi ordinari di impugnazione di cui all’art. 323 c.p.c. altrimenti si avrebbe il totale stravolgimento del sistema, dall’altro perché la mancata specificazione della forma dei provvedimenti non rende facile capire quali siano i modi ordinari della loro impugnazione. Qualcuno dubita che i provvedimenti emessi con ordinanza (dal giudice istruttore o dal collegio) siano impugnabili in quanto sono modificabili o revocabili dal giudice che li ha emessi. Altri ritengono che i provvedimenti emessi dal giudice istruttore sono reclamabili al collegio. Altri ancora specificano che il provvedimento del giudice istruttore di integrazione o modificazione dei provvedimenti presidenziali è reclamabile avanti alla corte d’appello ai sensi del nuovo art. 708 ultimo comma (verosimilmente applicato in via analogica), mentre il provvedimento sanzionatorio è reclamabile al collegio ai sensi dell’art. 178 c.p.c. con decisione rimandata alla sentenza che conclude il giudizio.
Chi vi parla ritiene incongruo escludere la reclamabilità alla corte d’appello dei provvedimenti del giudice istruttore ex art. 709 ultimo comma di modifica dei provvedimenti presidenziali ed ammettere tale reclamabilità per i provvedimenti emessi ex art. 709 ter, senza però trarre argomenti per ammettere la reclamabilità dei primi. Appare più convincente ritenere che i provvedimenti emessi ex art. 709 ter dal giudice istruttore siano reclamabili al collegio ex art. 178 senza distinguere tra provvedimenti di integrazione o modificazione dei provvedimenti presidenziali e provvedimenti sanzionatori, salvo qualche perplessità per l’ammonimento in quanto è una misura priva di in concreto contenuto affittivo ed ha la sola funzione di un avvertimento accompagnato da minaccia di possibilità di applicazione di sanzioni più gravi. Non si ritiene, inoltre, applicabile alla condanna ex art. 709 ter comma 2 n. 4 alla sanzione amministrativa pecuniaria il procedimento di opposizione di cui alla legge n. 689/1981, dovendo escludersi che il giudice di pace possa conoscere della legittimità di provvedimenti sanzionatori emessi dal giudice togato.
Può ritenersi, infine, che la sentenza (di separazione o di divorzio) emessa dal tribunale e che statuisca in tema di provvedimenti ex art. 709 ter possa essere appellata in corte d’appello, mentre il decreto collegiale emesso ex art. 710 con analoghe statuizioni sia parimenti reclamabile alla corte d’appello ai sensi dell’art. 739.
Prof. Avv. Claudio Cecchella:
Grazie Presidente per l'approfondita trattazione, che ha esaurito tutte le questioni, con soluzioni che noi del foro pisano abbiamo già condiviso "sul campo"; passo ora la parola al Presidente del Tribunale di Lucca, Dr. Gabriele Ferro
Dr Gabriele Ferro:
Anch’io come molti in questo campo, sono angosciato dalla necessità che si faccia chiarezza non solo a livello di diritto sostanziale ma anche a livello di diritto processuale, rispetto al quale si va invocando, oramai da decenni, una risistemazione delle competenze, essendo oggi chiamati in campo, a seconda delle tematiche da affrontare, il Presidente del tribunale, il giudice tutelare, il giudice dell’esecuzione, il tribunale ordinario in sede collegiale, e così via.
Il secondo segnale che si coglie da questo incontro così partecipato sta nel fatto che quello della famiglia è un istituto in decadenza.
In questa materia mi trovo particolarmente a mio agio essendo chiamato a ricoprire un ruolo di investigatore così come di conciliatore e trovandomi a scoprire di avere poteri di accertamento enormi e di ricerca delle prove. E quella che tengo ben presente davanti a me è sempre la stessa “bandiera”, e quella soltanto, ossia la tutela dei figli minori.
Ma analizziamo le modifiche intervenute al procedimento.
La prima è quella riguardante la competenza per territorio che richiama come discrimine “l’ultima residenza anagrafica comune” con buona pace del sistema normativo europeo che disciplina in modo diverso quelle che sono le opzioni secondarie di individuazione della competenza per territorio, ossia il domicilio del convenuto e il domicilio dell’attore.
Qualora il ricorso sia contenzioso andrà fatto con l’assistenza di un legale, mentre qualora sia consensuale sarà proponibile senza l’intervento di un difensore, secondo l’orientamento del tribunale di Lucca. E da ciò deriva una conseguenza di grande rilievo che è quella di non ammettere al patrocinio a spese dello Stato la procedura consensuale, proprio perché la presenza del difensore non è obbligatoria. Questo orientamento si riverbera anche sulle ipotesi di trasformazione del rito, da contenzioso a consensuale, nel senso che qualora sia nato con l’ammissione del patrocinio a spese dello Stato, la liquidazione della notula viene fatta soltanto per le iniziative poste in essere fino al momento della trasformazione del rito.
Proseguendo il nostro excursus, troviamo finalmente al centro del nuovo sistema un obbligo di ascolto del minore, essendo così stata posta in essere la codificazione di un principio già fissato a livello europeo, e dove è intervenuta la stessa Corte Costituzionale, la cui violazione comporterebbe conseguenze pericolose, dal momento che nei Paesi aderenti alla Convenzione di New York, potrebbe verificarsi la non riconoscibilità delle sentenze di separazione o divorio, adottate a seguito di procedura che non ha tenuto conto di tale obbligo.
Concretamente io procedo nel seguente modo.
Il minore ultradodicenne, o in casi eccezionali di età inferiore, viene fatto entrare nella stanza del giudice in cui vengono ammessi soltanto i legali delle parti che rimangono in una posizione retrostante il minore, con il divieto assoluto di proferire parola, anche perché si andranno ad affrontare problematiche afferenti il solo affidamento, e non questioni quali l’assegnazione della casa coniugale , il regime di mantenimento o quant’altro.
È da sottolineare che tale ascolto non è un mezzo di prova e in effetti il legislatore ha statuito dapprima che il giudice può ammettere i mezzi di prova, mentre solo dopo ha sancito “il giudice dispone inoltre l’audizione del figlio minore”. Analizzando la norma, deduciamo che il verbo “dispone” è un indicativo che implica un obbligo processuale, metre la congiunzione “inoltre”, che segue, serve a non collocare questo passaggio processuale nell’alveo della richiesta delle prove.
Per concludere l’argomento segnalo, infine, che l’ascolto del minore non potrà essere effettuato indirettamente per mezzo dei genitori, ma solo, eventualmente, tramite consulenza da svolgersi tramite psicologo e mai neuropsichiatra.
All’udienza presidenziale si procederà dapprima all’ascolto del ricorrente col proprio difensore, poi del convenuto, con o senza difensore, per concludere con ciò per il quale è strumentale tale udienza, ossia il tentativo di conciliazione, per non farlo rimanere solo una chimera, bensì qualcosa di concreto.
Da un lato si ha il ricorso che deve presentare un minimo di contenuto nel rispetto dell’art. 125 c.p.c., dall’altro una memoria difensiva; se il convenuto non è assistito da difensore si pone il problema della ricezione delle sue dichiarazioni o della possibilità di porgli delle domande, e della valenza che si può dare loro. Io personalmente ritengo che si possa legittimamente ascoltarlo e porgli delle domande, collocando questa indagine nell’ambito delle prove che posso assumere e delle quali ci parla l’art. 155 sexies, che dà in questa materia una posibilità di intervento e manovra, i più ampi posibili.
Una volta sentiti i genitori, i minori, i consulenti eventuali, i nonni o altri parenti che possono essere ascoltati anche prima dell’udienza di comparizione dei coniugi, si arriverà al provvedimento che costituisce la decisione centrale di detta udienza, ossia quello riguardante l’affidamento.
Da esso discenderà tutta una serie di problematiche spinose dalle quali non si potrà prescindere come, ad esempio, lo stabilire dove prevalentemente il minore dimora, in quale stato di famiglia va iscritto, qual è il distretto scolastico o sanitario di appartenenza.
In questo panorama emergono altri protagonisti che sono i nonni. Il Prof. Paladini ha sostenuto che quello dei nonni sia un interesse legittimo alla frequentazione del minore. Io invece sarei un po’ in dubbio per la ragione che il nuovo articolo 155 statuisce che “il minore ha diritto a mantenere rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale” concependo, pertanto, un diritto in capo al minore; ed è per questa ragione che non avrebbe senso dire che, al contrario, quello dei nonni è un interese anziché un diritto.
La casa coniugale si assegna di preferenza a quel genitore con il quale il figlio normalmente vive, a tutela dell’interese del minore stesso.
E qui si deve stare molto attenti a non emettere il provvedimento di assegnazione della casa coniugale a quel genitore che sia proprietario della casa, poiché ciò porterebbe alla ridicola conseguenza che se quello stesso genitore intraprendesse un’altra relazione, si vedrebbe portar via la casa.
Poi, la casa coniugale sarà di proprietà di qualcuno e perciò sorge la problematica delle spese di manutenzione ordinaria (che spettano all’assegnatario), straordinaria (che spettano invece al proprietario o al comodante) e per le imposte (al riguardo, va precisato che l’asegnazione non fa nascere un diritto reale di godimento ma un diritto personale di godimento, dal che deriva che, essendo il presupposto dellimposta sulla casa alla titolarità del diritto reale, debitore di tale imposta sarà il proprietario).
Prima di arrivare al momento della ripartizione, è stata codificata una novità che consiste nell’obbligo per il Presidente di porsi il problema di invitare i coniugi a sperimentare la mediazione familiare.
Quanto al mantenimento, il legislatore ha previsto che i coniugi possono liberamente provvedere alla risoluzione di questa problematica, facendo in modo, con l’utilizzo dell’avverbio “liberamente”, di porsi in contrasto con l’art. 147 bis c.p.c. (è quella la causa petendi di una domanda si mantenimento). La regola, dunque, sembra essere quella che ciascuno dei genitori provvede secondo le proprie capacità reddituali e patrimoniali ma, a mio avviso, quel "liberamente" assume un altro significato, ossia quello che i coniugi possono anche svincolarsi da quel regime di proporzionalità contenuto nell'art. 147 bis, e possono farlo a tutela di esigenze temporanee legate ad esempio all'attività professionale (come nell'ipotesi del genitore imprenditore che ha necessità di ricapitalizzare l'azienda).
Lo spinoso problema dei figli maggiorenni è difficile da risolvere, innanzitutto perchè essi sono titolari di un diritto e, per maturazione dottrinale e giurisprudenziale, possono agire o intervenire; ma è discusso se la loro legittimazione processuale sia sussidiaria o parallela a quella genitoriale, mentre il dato certo è che la causa petendi è la medesima. Vi sono in questo ambito pochi argomenti di carattere giuridico ma molti legati al buon senso, perché spesso si tratta di ragazzi appena maggiorenni, totalmente incapaci di gestire le proprie spese o i propri studi, con la conseguenza che, se dovessimo considerare una valenza automatica di questa legge, correremmo il rischio di avere un diciottenne che riceve i soldi da un genitore e l'altro costretto comunque ad impegnarsi alle spese di mantenimento e quant'altro.
Per l'identificazione delle quote di mantenimento, il Presidente ha ampi poteri di indagine; può ricorrere alla Guardia di Finanza che però ha talmente tanto da fare che il più delle volte si limita a trasmettere le risultanze dell'anagrafe tributaria; allora si può ricorrere alla consulenza contabile (anche se nell'ambito del diritto civile non rappresenta un mezzo di prova).
La novità rilevante sta nel fatto che l'indagine può investire anche beni intestati ad altri, con ciò aprendosi tutta una questione, ancora irrisolta perché l'esperienza è in via di maturazione, sulla posizione di questi terzi ossia se abbiano o meno titolo ad intervenire o dire la loro.
Per concludere, è da segnalare che per le ricerche sulle capacità di reddito e patrimoniali, esiste una rete informatica protetta che mette in collegamento tra loro i vari istituti dello Stato, alla quale il giudice può direttamente accedere mediante password, ai fini di un'indagine penale o, appunto, delle capacità economiche delle parti di una separazione.
Prof. Avv. Claudio Cecchella:
Grazie presidente, anche per essersi espresso sul delicato ruolo del difensore, a cui la riforma dedica un maggior rilievo rispetto al passato, quando prima di una nota pronuncia della Corte cost. al difensore era proibito addirittura l'accesso alla fase sommaria presidenziale. Pur comprendendo la cautela che impone l'audizione del minore o il preliminare tentativo di conciliazione ritengo sommessamente che il difensore non debba essere estraneo a quelle fasi e così anche alla soluzione consensuale, che spesso è raggiunta grazie alla abilità e serietà dell'Avvocato, in fondo il Presidente De Pasquale ha opportunamente sottolineato l'importanza di quel ruolo ricordando la personalità del Collega alla cui memoria è dedicata la giornata di studi.
La parola ora al Presidente della terza città, il Dr Carmelo Solarino Presidente del Tribunale di Livorno.
Dr Carmelo Solarino:
Quanto all’art.709 ter ritengo quelle indicate in detto articolo, sanzioni vere e proprie, compreso anche il risarcimento del danno, per gli stessi motivi indicati dalla dott.ssa Gatto ed inoltre anche per un motivo di carattere sistematico. L’articolo indica quale motivo sanzionatorio “inadempienze” ed intende comminare al responsabile un qualcosa che serva da monito anche per il futuro. Inoltre l’articolo parla di ammonizione (piccola sanzione), risarcimento danni, sanzione amministrativa, vere e proprie sanzioni di carattere privato, che prescindono dalla dimostrazione del danno.
Quanto alla fase sommaria presidenziale, premetto che al Tribunale di Livorno detta fase è tenuta dalla medesime persone che tengono la fase istruttoria, Presidente del Tribunale e Presidente di Sezione. Tale soluzione ha provocato una accelerazione nella definizione delle cause. Con la riforma si è avuto invece un rallentamento nella definizione delle cause, soprattutto per la fissazione dell’udienza presidenziale. Prima le udienze venivano fissate dopo 45 giorni circa per la notifica e un ulteriore periodo di comporto. Ora vengono fissate non prima di 60 giorni, quindi hanno un inizio “ritardato”.
In relazione alla presenza degli avvocati, questi assistono e presenziano alle udienze unitamente ad entrambe le parti. Prima vengono sentiti i coniugi, poi gli avvocati, che comunque sono sempre presenti.
Quanto al reclamo alla corte di appello del provvedimento presidenziale, il provvedimento che viene preso dalla corte, ha gli stessi caratteri effetti e limiti, del provvedimento presidenziale impugnato.
Il provvedimento presidenziale viene emesso sulla base di quello che indicano le parti e di ciò che producono in quel momento. E’ quindi un provvedimento sommario e d’urgenza.
Il provvedimento con cui la corte di appello decide sul reclamo avverso il provvedimento presidenziale mantiene le stesse caratteristiche, con la conseguenza che proprio perché provvedimento sommario potrà esser modificato dal Giudice Istruttore, anche senza l’insorgenza di fatti nuovi, in quanto ha le stesse caratteristiche del provvedimento presidenziale.
Quanto all’affidamento condiviso il nuovo art. 155 cc è innovativo rispetto al precedente, fissa un principio generale che è quello dell’affidamento condiviso, che diviene la regola, mentre l’affidamento monogenitoriale diventa l’eccezione nel caso si voglia sanzionare il genitore non meritevole. L’affidamento ad un solo genitore non potrà più quindi essere oggetto di trattativa tra i coniugi.
L’affidamento condiviso non è incompatibile con l’ipotesi che i due genitori non vivano nella medesima città, in quanto la regolamentazione del rapporto dovrà comunque tener conto del fatto che le decisione di carattere straordinario dovranno essere assunte insieme, da entrambi i genitori.
Un problema si pone su cosa voglia dire affidamento monogenitoriale. Il nuovo articolo 155 cc non parla di titolarità, ma di esercizio della potestà, e anche in caso di monogenitorialità, non priva il genitore non affidatario dell’esercizio della potestà sul figlio. Sarà piuttosto un problema di fissazione di limiti più rigidi rispetto all’affidamento condiviso. Permane comunque il principio secondo cui la potestà dovrà, sia nel caso di affidamento condiviso che nel caso di affidamento monogenitoriale essere esercitata da entrambi i genitori, soprattutto per quanto riguarda decisioni riguardanti questioni straordinarie.
Quanto al pagamento dell’assegno al figlio maggiorenne direttamente nelle sue mani, ritengo che comunque vada fatto al genitore con cui convive che è comunque quello che contribuisce al mantenimento dello stesso, almeno in massima parte. Un eccezione si potrà avere nel caso che il figlio maggiorenne non conviva con alcuno dei genitori, in tal caso l’assegno potrà essere dato direttamente al figlio.
Prof. Avv. Claudio Cecchella:
Grazie presidente, conosciuti in questo modo gli orientamenti del foro labronico, è ora venuto il momento del foro ambrosiano, la parola alla Dott.ssa Gloria Servetti
Dott.ssa Gloria Servetti:
Grazie. E' opportuno anzitutto prendere in esame il rapporto di alternatività tra il reclamo e la revoca, in proposito il Tribunale di Milano ha dato un interpretazione precisa volendo garantire un esigenza di stabilità che comunque i provvedimenti provvisori devono avere, in quanto, fermo restando che il G.I. li può comunque modificare e che detti provvedimenti rimangono provvedimenti provvisori, gli stessi regoleranno la vita della famiglia fino al momento della sentenza di separazione, e per ciò si dovrà consentire alle persone di provare detti provvedimenti, di adattarsi agli stessi.
La possibilità di esperire due rimedi, l’uno al giudice superiore (Corte di appello), l’altro al giudice istruttore, sulla base delle medesime circostanze, rimedi, l’uno successivo all’altro, indica l’incapacità del provvedimento interinale di acquisire stabilità.
Inoltre la doppia impugnativa produce un effetto sospensivo non previsto dalla legge, ma che si realizzerà di fatto stante l’acquisizione del fascicolo d’ufficio che rende impossibile la prosecuzione del giudizio.
Per questi elementi l’interpretazione del Tribunale di Milano si è rivolta al dato testuale, ammettendo la reclamabilità del solo provvedimento presidenziale e non di tutti i provvedimenti interinali. Da qui la negazione della possibilità di riportare il provvedimento emesso dal giudice sitruttore innanzi alla corte di appello mediante reclamo.
Quanto all'assimilazione al procedimento cautelare uniforme è da criticare la posizione del tribunale di Genova, ma si deve dire che l’unico elemento ostativo ad una tale interpretazione è venuto meno con il venir meno della specialità dell’art. 189 disp. att. c.p.c. rispetto a quella che era la regola generale per i provvedimenti cautelari.
Il venir meno di tale specialità provoca anche una ulteriore interpretazione che vede al possibilità di impugnare il provvedimento del giudice istruttore innanzi al tribunale in camera di consiglio in composizione collegiale come un qualunque provvedimento cautelare proprio perché è venuta meno la specialità dell’art. 189 disp. att. c.p.c. in relazione ai procedimenti di separazione e divorzio. Tesi già presente in dottrina.
Tutto ciò per concludere che il provvedimento del Presidente è reclamabile innanzi alla Corte di Appello, mentre il provvedimento del G.I. è impugnabile secondo le regole dell’art. 669 terdecies c.p.c. innanzi al Tribunale.
Si hanno quindi astrattamente tre soluzioni, 1) reclamabilità in Corte di Appello di tutti i provvedimenti interinali, sia emessi dal Presidente che dal g.i.; 2) La reclamabilità secondo il modello cautelare dei provvedimenti del g.i. (fermo restando la reclamabilità in Corte dei provvedimenti presidenziali); 3) la stabilità dei provvedimenti del giudice istruttore modificabili solo attraverso l’istanza di revoca o modifica dalla medesima autorità che li ha ammessi.
Gli stessi gravi dubbi interpretativi sono provocati dalle incertezze sulla competenza.
Perché l’accorpamento della competenza presso il tribunale ordinario proposta dal tribunale dei minori di Milano si scontra con l’opinione contraria del tribunale ordinario di Milano e con coloro che ritengono che sia rimasto tutto come prima. Resterà pure la particolare ripartizione di competenze: la competenza per l’affidamento del giudice minorile e quella del giudice ordinario per gli aspetti patrimoniali.
Altro punto di un certo interesse è la valutazione dell’elemento di conflittualità quale presupposto per la disposizione dell’affido condiviso.
Sotto la vigenza della disciplina della legge dell’87 sull’affidamento congiunto, si diceva che, la dove la conflittualità tra i coniugi era elevata, l’affido congiunto non si poteva avere.
Con la nuova legge sull’affido condiviso la conflittualità interpersonale tra i coniugi non rappresenta più un elemento ostativo all’affido condiviso. Per escludere l’affidamento condiviso, divenuto regola dovranno valutarsi ulteriori elementi aventi ad oggetto per esempio il rapporto genitori figli ma non certo i rapporti interpersonali tra coniugi e comunque per escludere l’affido condiviso dovrà essere accertata la sussistenza di elementi contrari agli interessi del minore, senza che però tale accertamento sia indice di una presunzione di conformità all’interesse del minore.
Quanto all’audizione del minore secondo l’opinione del Tribunale di Milano, è un passaggio obbligato che deve avvenire senza la presenza degli avvocati, in quanto la presenza di questi pregiudicherebbe la genuinità delle affermazioni del minore.
Solo nel caso di un ipotetico danno, psicologico, per il minore, non si farà luogo all’audizione dello stesso.
L’audizione potrà essere diretta o indiretta a seconda del caso concreto e qua la legge lascia un certo spazio discrezionale.
La nuova normativa lascia tuttavia un certo spazio discrezionale anche su quando debba esser fatta tale audizione in ragione del fatto che deve essere scelto il momento più opportuno per ascoltare il minore sia per la conflittualità che in certi momenti può sussistere all’interno della famiglia, sia perché si potrà meglio indirizzare l’audizione del minore verso quegli elementi che più interessano, anche in seguito all’acquisizione di documenti utili (per esempio relazioni degli assistenti sociali).
Quanto al termine di 10 giorni decorrenti dalla notificazione per proporre reclamo contro il provvedimento presidenziale, si deve ritenere che non sia stata una svista del legislatore quella di indicare la notificazione quale momento per computare la decorrenza dei termini, ma sia indice della volontà del legislatore di voler escludere ogni ipotesi di comunicazione.
Poco opportuno appare tale richiamo, in quanto la notifica è un atto di parte e non si comprende per quale motivo sia stato scelto per un provvedimento di cui le parti ne vengono a conoscenza fin dal momento della sua emanazione in quanto emesso nel pieno contraddittorio tra le stesse.
Se non si avrà la notifica il temine per impugnare sarà di un anno e 45 giorni.
Tale termine si potrà interrompere anche con l’istanza al G.I. e per tale motivo il tribunale di Milano opta per l’alternatività dei due rimedi, per cui una volta interrotto il termine con l’istanza di revoca e modifica al G.I. non si potrà più proporre appello.
Per quanto riguarda i figli maggiorenni, muovendo da un ragionamento compiuta da Alfio Finocchiaro in un recente articolo, per cui la titolarietà esclusiva dell’assegno di mantenimento in capo al maggiorenne sulla base della nuova legge, avrebbe come risultato che tutti i provvedimenti assunti in precedenza verrebbero a perdere efficacia, perché dal momento dell’entrata in vigore della legge sull’affido condiviso l’obbligato dovrebbe smettere di pagare al coniuge e pagare direttamente al figlio maggiorenne, è da criticare tale automaticità dovendosi sostenere come per altro la maggior parte degli autori, che in questi casi non c’è alcun effetto automatico, e per modificare il tutto occorrerà fare un ricorso ex art.710 c.p.c. per richiedere l’applicazione delle nuove norme. E' altresì da criticare l’automaticità della attribuzione diretta al figlio maggiorenne, sostenendosi che occorre tener conto anche del caso concreto e delle caratteristiche del maggiorenne, se sufficientemente maturo ecc.
Prof. Avv. Claudio Cecchella.
Grazie Dott.ssa Servetti per l'importanza delle informazioni sulla giurisprudenza milanese, che spesso fa discutere ma che sempre è al centro dell'interpretazione giurisprudenziale. Vedo che la discussione viene subito accesa dalla toscanità del Presidente Massetani
Dr. Gioacchino Massetani
Il rapporto tra reclamo e revoca o modifica del provvedimento presidenziale si regola sulla base della disciplina dettata, a questo riguardo, in sede di procedimento cautelare uniforme; e, anche per la concorrenza, non si potrà fare reclamo se pende davanti al consigliere istruttore un procedimento per modifica o revoca, né viceversa.
Se questo è, però, è anche previsto che in qualche misura il mutamento delle circostanze, rispetto a quello che può esaminare la Corte di Appello, è indispensabile per il giudice istruttore affinché possa esaminare il provvedimento; e può liberamente riesaminare ciò che ha fatto la Corte, indipendentemente dal fatto che quest'ultima ricopre un grado superiore rispetto a lui.
A mio avviso l'unica differenza con il cautelare uniforme è, dunque, l'attribuzione delle competenze alla Corte di Appello, mentre per tutto il resto, avvocati, giudici e parti hanno davanti a sé una guida sicura nel loro cammino per la risoluzione del problema. E ribadisco che è quella l'unica diversità che può suggerire una differenza rispetto al procedimento ordinario, fermo restando che per la prima volta si è detto apertamente che il provvedimento è impugnabile; e se è impugnabile il provvedimento del Presidente, per quale ragione non dovrebbe esserlo quello del giudice istruttore? Se non fosse così ci sarebbero, al contrario, dei problemi di costituzionalità.
Per quel che riguarda l'art. 709 ter, sul discorso che il giudice può disporre il risarcimento dei danni a carico di un genitore nei confronti del minore o dei danni nei confronti dell'altro genitore, proprio la previsione di due sanzioni non civili (e, se vogliamo, parapenali o amministrative o penali-private) spiega un effetto psicologico sicuro su soggetti normali, come ci hanno insegnato tutte le teorizzazioni del diritto. Allora il risarcimento del danno è sicuramente da prendere nell'ottica di un risarcimento vero ma pur sempre di un risarcimento che è solo equitativamente valutabile, tenendo altresì presente che molto spesso non si tratterà neppure di un danno patrimoniale. In questi diritti, mi è stato insegnato, che la fantasia del magistrato "civilmente risarcitorio" è estrema (la qualità della vita, il colore del vestito, il violino non sentito...) e non c'è niente nel nostro Paese che non possa essere risarcito, salvo le lamentele nei confronti delle compagnie di assicurazione che, non avendolo previsto, vogliono aumenti nei loro emolumenti!
Prof. Avv. Claudio Cecchella:
Grazie Presidente Massetani, anche il Presidente Ferro vuol replicare
Dr. Gabriele Ferro:
Vorrei solo puntualizzare alla dott. Servetti che la presenza dei difensori all'ascolto del minore è un passaggio di garanzia affinché possano controllare ciò che fa il Presidente del tribunale o il giudice istruttore, e, quando le strutture lo consentiranno, la mia prospettiva è quella di ascoltare il minore con le formalità tipiche dell'incidente probatorio.
Infine, degno di segnalazione è il fatto che, se non viene applicata una lettura estensiva integratrice alla questione del reclamo entro 10 giorni dalla notificazione, arriviamo al paradosso di escludere la possibillità di reclamo per il Pubblico Ministero. Pertanto, a mio avviso, una possibile lettura dell'art. 708, comma 3, è che il termine "notificazione", deve essere considerato quando essa è prevista come onere (quindi, non quando il convenuto è comparso) mentre, per il pubblico Ministero, si fa riferimento al fatto della comunicazione.
Prof. Avv. Claudio Cecchella:
Bene è stato un dibattito di grande interesse, perché molti dei partecipanti al convegno sono avvocati e non possono certo trascurare le idee dei giudici che sono impegnati sul fronte applicativo, in primo grado come in appello. Dobbiamo ora consentire ai nostri ospiti di rientrare, particolarmente le nostre relatrici milanesi, che hanno l'orario di un treno che incombe.
Non resta che ringraziare i relatori e i partecipanti e visto il successo del convegno, che si coglie dalla necessità dolorosa di chiudere le iscrizioni causa l'incontenibile numero degli interessati e che hanno visto i partecipanti ripartiti tra l'Aula magna nuova e l'aula cinque collegata con video, impegnarci per dare seguito a questa giornata con una cadenza annuale, anche per ricordare nel tempo il caro collega a cui dedichiamo i lavori. Sarà questo l'impegno della sezione pisana dell'Osservatorio nazionale del diritto di famiglia. Grazie, ancora, a tutti.
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