Le tutela processualiSommario: 1. Premessa; 2. Le situazioni sostanziali coinvolte nel processo di separazione e di divorzio; 3. Conseguenze processuali; 4. Gli atti introduttivi; 5. L’udienza; 6. Il passaggio alla fase di trattazione.
§ 1. Il tema del convegno riguarda in generale la riforma del processo di separazione e di divorzio; l’argomento che mi è stato affidato ha anch’esso un taglio tale da ricomprendere potenzialmente tutte quante le questioni processuali sollevate dalla recentissime riforme. E tuttavia mi parrebbe inutile ripercorrere analiticamente l’intera materia, con il rischio di ripetere in modo superficiale quanto già altri hanno detto prima di me, e più approfonditamente di quanto potrei fare io. D’altro canto, proprio l’esame della dottrina che, fino a questo momento, ha analizzato le riforme in materia di separazione e divorzio, evidenzia la opportunità di concentrare l’attenzione su taluni specifici problemi, correlati fondamentalmente all’oggetto sostanziale dei processi di separazione e divorzio. Vi sono, infatti, come vedremo, molte questioni processuali alle quali, a mio avviso, non si può dare una soluzione unitaria, perché occorre distinguere sulla base della disciplina sostanziale, che ne sta alla base. L’oggetto della mia relazione, quindi, si concentrerà principalmente (anche se non esclusivamente) su tali questioni, rinviando, per il resto, alla ormai cospicua pubblicistica reperibile .
§ 2. La funzione del processo di separazione e divorzio ricalca quella generale del processo dichiarativo: stabilire le regole di condotta di due o più soggetti, con riferimento ad un bene della vita giuridicamente protetto. Tali regole di condotta possono poi essere più o meno vincolanti per i destinatari – rectius, l’atto che le pone può avere un regime di stabilità differenziato – e quindi esse possono essere sostituite da regole diverse con minore o maggiore facilità, a seconda appunto che l’atto che le pone sia, esemplificando, una sentenza passata in giudicato, una sentenza ancora impugnabile, oppure un provvedimento interinale, come quelli previsti dagli artt. 708, terzo comma, e 709, quarto comma, c.p.c.
Ciò su cui, peraltro, conviene concentrare l’attenzione in questa sede è la diversa tipologia dei diritti, ai quali fanno riferimento le regole di condotta, individuate con i provvedimenti sopra indicati. La esatta individuazione della realtà sostanziale, coinvolta nel processo di separazione e divorzio, è, infatti, a mio avviso determinante per la risoluzione dei problemi processuali, che affronteremo fra poco .
Volendo schematizzare, possiamo dunque distinguere a seconda che l’oggetto del processo siano:
a) diritti disponibili di cui sono titolari i coniugi; questi diritti, a loro volta, possono essere disciplinati da norme derogabili oppure da norme inderogabili. In questa categoria rientrano i diritti a contenuto patrimoniale, che ciascun coniuge vanta nei confronti dell’altro.
b) diritti indisponibili di cui sono titolari i coniugi. In questa categoria rientrano quelli, comunque li si voglia definire dal punto di vista sistematico, che fondano la separazione o il divorzio.
c) situazioni sostanziali protette di cui sono titolari soggetti diversi dai coniugi: nel nostro caso, i figli. In questo caso, ai coniugi si imputano i doveri corrispondenti a queste situazioni sostanziali protette. In questa categoria rientrano i doveri a contenuto non patrimoniale, l’assegnazione della casa familiare, l’assegno di mantenimento.
Dal punto di vista processuale, le caratteristiche sostanziali sopra indicate producono le seguenti conseguenze.
Con riferimento ai diritti dei coniugi (punti a) e b) di cui sopra), la regola generale sulla legittimazione ad agire esige che il provvedimento, determinativo delle regole di condotta, sia pronunciato solo a seguito di una domanda proposta dal titolare del diritto in questione. In linea generale, della domanda del titolare può farsi a meno se il legislatore prevede fattispecie di legittimazione straordinaria a favore di altri soggetti: ma, in concreto, non credo che ciò verifichi in materia di separazione e divorzio. Invece, con riferimento alla terza categoria di situazioni sostanziali protette, le regole di condotta ad esse relative possono essere determinate anche senza una domanda del titolare della situazione sostanziale in questione.
Con specifico riferimento ai figli minorenni (ed ai figli maggiorenni portatori di handicap, cui si applica la normativa riguardante i figli minorenni: art. 155-quinquies, secondo comma, c.c.), assistiamo viceversa ad un salto qualitativo nella tipologia di intervento giurisdizionale. Qui non siamo più nell’ambito della giurisdizione contenziosa, che rimane tale anche se ha ad oggetto diritti indisponibili. La cura dei diritti dei figli è affidata dal legislatore al giudice, e ciò realizza una fattispecie di giurisdizione volontaria in senso proprio, intesa come amministrazione giudiziale di diritto privato . E’, infatti, pacifico che il giudice deve provvede di ufficio a determinare i doveri, patrimoniali e non patrimoniali dei coniugi, nei confronti dei figli minori . Non vi è quindi necessità – anche se è normale – che uno dei coniugi chieda al giudice di determinare i doveri dell’altro con riferimento ai figli minori. Tuttavia, anche quando ciò accade, la richiesta del genitore non deve qualificarsi come vera e propria domanda, ma piuttosto come sollecitazione del giudice ad utilizzare i propri poteri officiosi.
Con riferimento, invece, alla posizione dei figli maggiorenni non autonomi, si deve escludere che nel processo di separazione e divorzio possano venire in considerazione eventuali diritti a contenuto non patrimoniale di costoro. Per quanto riguarda, inoltre, i diritti a contenuto patrimoniale, si deve ritenere che essi possano essere fatti valere da un coniuge nei confronti dell’altro a titolo di legittimazione straordinaria, ove il figlio maggiorenne rimanga inerte: una sorta, quindi, di azione surrogatoria di un genitore nei confronti dell’altro. A mio avviso, questa è l’unica ricostruzione che è coerente con la prevalenza che, senza dubbio, deve essere assegnata alle iniziative prese dal figlio maggiorenne non autonomo rispetto alle iniziative del genitore, con il quale convive .
§ 3. In tutte le ipotesi sopra indicate, il giudice – chiunque esso sia: il presidente del tribunale nella prima fase, il giudice istruttore nella fase della trattazione, il tribunale nella fase decisoria, fino alla Corte di cassazione – per dare un contenuto alle regole di condotta che, attraverso il proprio provvedimento, egli determina con riferimento alle parti, deve ovviamente effettuare una ricognizione (in senso lato) della realtà, giuridica e fattuale, esistente: come qualunque terzo, cui è conferito il compito di stabilire quali sono i diritti e gli obblighi delle parti, egli né ha conoscenza, né ha il potere di disporre delle situazioni sostanziali, cui i diritti e gli obblighi sono correlati. Orbene, il quid da conoscere e gli strumenti cognitivi sono diversi a seconda che si ricada in una o nell’altra delle ipotesi viste al paragrafo precedente.
a) se si tratta di diritti disponibili di cui sono titolari i coniugi, si applicano le regole proprie del processo che ha ad oggetto, appunto, i diritti disponibili. E quindi: vale il principio della domanda; hanno efficacia le prove c.d. dispositive (giuramento e confessione); il comportamento delle parti assume rilievo ai fini della quaestio facti, nel senso che i fatti non controversi non hanno necessità di essere provati, e più in generale il comportamento omissivo della parte può essere rilevante ai fini del giudizio di fatto; gli eventuali accordi negoziali delle parti vincolano il giudice, fatta solo eccezioni per quelli che contengano previsioni in contrasto con norme inderogabili.
b) se si tratta di diritti indisponibili di cui sono titolari i coniugi, si applicano le regole proprie del processo che ha ad oggetto, appunto, i diritti indisponibili. E quindi: continua ad aver valore il principio della domanda, ma non hanno efficacia le prove c.d. dispositive (giuramento e confessione); il comportamento delle parti non assume rilievo ai fini della quaestio facti, nel senso che i fatti rilevanti debbono comunque essere oggetto di prova anche se non controversi, e più in generale il comportamento omissivo della parte non può essere rilevante ai fini del giudizio di fatto; gli eventuali accordi negoziali delle parti non vincolano il giudice, poiché, appunto, essendo il diritto indisponibile, per definizione le parti non hanno potere negoziale.
c) se si tratta di situazioni sostanziali protette di cui sono titolari soggetti diversi dai coniugi (cioè i figli), come abbiamo già visto l’intervento del giudice muta radicalmente le proprie caratteristiche, dovendo essere qualificato come giurisdizione volontaria, e dunque non si applica il principio della domanda , e l’acquisizione di quanto rilevante deve essere compiuto di ufficio . Ma, soprattutto, vi è con un’ulteriore, determinante differenza: mentre nei casi sub a) e b) la determinazione del contenuto del provvedimento avviene sulla base della ricognizione della realtà giuridica preesistente, cioè secondo <> - e ciò in applicazione dell’art. 113, primo comma, c.p.c. – nel caso delle disposizioni a favore dei minori la decisione del giudice si fonda sulla <>, nel senso che, com’è pacifico, il giudice deve individuare le regole di condotta dei genitori che realizzino al massimo grado possibile l’interesse del figlio. Ciò, però, determina un significativo spostamento dei fatti rilevanti: non più quelli previsti dalle norme sostanziali come fattispecie giuridicamente produttive di effetti, ma più in generale ogni elemento di fatto che possa orientare la valutazione di opportunità del giudice. Naturalmente tale valutazione deve essere compiuta nell’ambito delle norme che la disciplinano: così, ad es., dopo la recentissima riforma, la scelta del giudice deve orientarsi in linea di principio verso l’affidamento condiviso, salva la presenza di circostanze ostative allo stesso. Ancora: ai sensi del nuovo art. 165, secondo comma, c.c., il giudice deve prendere in considerazione gli accordi intervenuti fra i genitori, e disattenderli solo se li ritiene contrari all’interesse dei figli; ciò significa che il giudice non può impartire disposizioni di contenuto diverso da quello risultante dall’accordo dei genitori, se non preventivamente qualificando lo stesso come contrario all’interesse dei figli stessi. L’audizione dei figli minori, resa ora obbligatoria dall’art. 155-sexies c.c. – oltre a dare attuazione a precisi obblighi convenzionali assunti dallo Stato – consente al giudice di reperire ulteriori, fondamentali elementi per compiere le proprie valutazioni in proposito .
Abbiamo, così, composto un quadro generale dell’oggetto e dei metodi della cognizione del giudice. Sulla base di questi elementi, possiamo analizzare alcune controverse questioni, che pone la riforma del processo di separazione e divorzio.
Occorre, però, fare una premessa: com’è da tutti riconosciuto , il legislatore della riforma ha inteso contrastare il c.d. rito ambrosiano, secondo il quale la fase presidenziale della separazione e del divorzio costituiva a tutti gli effetti la “introduzione della causa”. Sicché da un lato il maturarsi delle preclusioni proprie del previgente rito ordinario doveva calcolarsi appunto con riferimento all’udienza presidenziale (che veniva così a coincidere con quella prevista dall’allora vigente art. 180 c.p.c.) con la conseguenza che il convenuto doveva proporre le sue domande costituendosi almeno venti giorni prima dell’udienza in questione; e, dall’altro, l’udienza innanzi all’istruttore coincideva con quella prevista dall’allora vigente art. 183 c.p.c. La sostanza di tutto ciò era dunque che – salve le eccezioni previste dal quarto comma del previgente art. 183 c.p.c. – quando si svolgeva l’udienza presidenziale tutte le domande dovevano essere già state necessariamente proposte.
Orbene, il legislatore ha voluto reagire a questo indirizzo giurisprudenziale e – in adesione all’opinione che la Corte di cassazione aveva espresso – ha introdotto un sistema che non obbliga i coniugi a presentarsi dinanzi al presidente con tutte le domande già necessariamente proposte.
§ 4. Per quanto riguarda il ricorso, la riforma in un certo senso è ritornata al passato , in quanto ha profondamente modificato l’art. 4, comma secondo, della legge sul divorzio (applicabile, com’è noto, ai sensi dell’art. 23 della L. 74/1987 anche alla separazione), il quale prevedeva, nella sostanza, che il ricorso per la separazione ed il divorzio avesse gli stessi contenuti previsti dall’art. 163 c.p.c. Oggi, invece, per quanto riguarda la separazione, il legislatore è ritornato a prescrivere che “il ricorso deve contenere l’esposizione dei fatti sui quali la domanda è fondata”; e, per quanto riguarda il divorzio, che il ricorso “deve contenere l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali la domanda …. è fondata”.
La dottrina, dinanzi alla novità normativa, è perplessa .
Una cosa mi pare certa: il ricorso deve contenere la proposizione di una domanda giudiziale, ed in particolare della domanda volta ad ottenere la separazione personale o il divorzio . Quali siano, poi, gli elementi necessari per individuare tali domande – ed in particolare se abbiano una qualche rilevanza gli <>, che il legislatore richiama solo per il divorzio e non anche per la separazione – è cosa che possiamo in questa sede tralasciare, anche e soprattutto perché gli elementi idonei ad individuare una domanda giudiziale debbono essere ricavati in via sistematica, e non da un’esegesi più o meno letterale delle norme processuali. Tant’è vero che, anche con riferimento agli artt. 163 e 164 c.p.c., la rilevanza degli “elementi di fatto” è diversa a seconda che si tratti di un diritto auto oppure eteroindividuato, nonostante che il legislatore sembri accomunare in un’unica sorte le domande che abbiano ad oggetto un diritto appartenente all’una o all’altra categoria.
Ciò che conta, in questa sede, è dunque aver appurato che all’udienza presidenziale si perverrà con almeno una domanda proposta: e, più esattamente, la domanda con la quale è chiesto al tribunale di pronunciare la separazione o il divorzio: una domanda, dunque, che fa riferimento ad una situazione sostanziale indisponibile. Ma l’oggetto del processo può anche essere più complesso: e ciò non solo e non tanto con riferimento ad altre possibili domande che il ricorrente o la controparte abbiano proposto, ma anche e soprattutto con riferimento a situazioni sostanziali, che le parti non hanno fatto oggetto di domanda. Mi riferisco, com’è evidente, all’ipotesi in cui vi siano figli minori (o maggiorenni handicappati): in questo caso, come abbiamo già visto, il provvedimento del presidente prima, e la sentenza del tribunale poi, debbono avere ad oggetto le regole di condotta dei coniugi nei confronti dei figli minori anche se nessuno dei coniugi propone alcuna domanda al riguardo.
Si noti, infine, che, dal punto di vista sistematico, ogni statuizione del presidente su oggetti diversi da quello individuato con la domanda di separazione e di divorzio presuppone che questa domanda sia stata proposta e che sia tuttora pendente. Nella fase presidenziale vi è un ineliminabile rapporto di pregiudizialità fra la pendenza della domanda di separazione o divorzio, e la pronuncia dei provvedimenti temporanei ed urgenti. Analogamente, al momento della pronuncia della sentenza, la domanda di separazione o divorzio deve essere accolta, affinché il tribunale possa pronunciare anche su oggetti ulteriori.
Il coniuge convenuto, dal canto suo, può tenere svariati comportamenti. Anzitutto, può decidere di costituirsi in giudizio, nel termine assegnatogli dal presidente ai sensi dell’art. 706, terzo comma, c.p.c., depositando memoria e documenti, ed eventualmente proponendo proprie domande. A tal fine è necessario, a mio avviso, che il coniuge conferisca idoneo mandato ad un difensore, come necessariamente si è munito di difensore il ricorrente . Se il coniuge convenuto non si costituisce tempestivamente, può sempre peraltro partecipare all’udienza “con l’assistenza di un difensore”, con gli effetti che vedremo fra poco.
§ 5. In sede di udienza, il ricorrente può non presentarsi o rinunciare alla domanda: se ciò accade, ai sensi dell’art. 707, secondo comma, c.p.c., “la domanda non ha effetto”. Con riferimento all’assenza del ricorrente, l’art. 4, comma 7, della legge sul divorzio prevede che vi possono essere “gravi e comprovati motivi” che giustificano la mancata comparizione personale dei coniugi all’udienza presidenziale. Aderendo a quanto, a mio avviso convincentemente, sostiene parte della dottrina a proposito del carattere unitario del processo di separazione e di divorzio, ritengo che le disposizioni contenute in uno dei due testi normativi possano essere analogicamente applicate anche nell’altro: sicché non vi è motivo per negare che anche nel processo di separazione i gravi e comprovati motivi che impediscono al ricorrente di essere presente possano giustificare un rinvio dell’udienza (se si tratta di un impedimento temporaneo) o addirittura la possibilità di procedere ugualmente, anche in assenza del ricorrente (se si tratta di un impedimento permanente).
Per quanto attiene alla rinuncia del ricorrente, io credo che essa abbia effetto anche se non è accettata dall’altra parte, e ciò perché gli artt. 707, secondo comma, c.p.c. e 4, settimo comma, della legge sul divorzio, contengono una disposizione specifica che supera la disciplina della rinuncia agli atti . In ogni caso, è evidente che la soluzione contraria esige che la controparte si sia costituita in giudizio : altrimenti, è lo stesso art. 306 c.p.c. a non poter essere applicato. Non basta, quindi, che all’udienza presidenziale il coniuge convenuto compaia assistito da un difensore, ma occorre che egli si sia costituito in giudizio.
Molto più complesse sono le questioni che si pongono con riferimento alla controparte, quand’essa non si sia costituita in giudizio nel termine assegnatogli dal presidente. Può essere che compaia all’udienza, e che comparendo sia assistita dal difensore , e depositi fuori termine la memoria e/o i documenti; come può essere che compaia con il difensore, senza depositare alcunché; oppure ancora che compaia senza difensore.
La dottrina ha finora proposto soluzioni molto diversificate per le varie ipotesi sopra descritte . A mio avviso, per dare un senso alle prescrizioni normative – che prevedono un termine per il deposito di memorie e documenti, e che prescrivono l’assistenza legale dei coniugi all’udienza – occorre appunto distinguere in relazione ai vari, possibili oggetti del processo:
a) laddove l’attività del coniuge convenuto abbia ad oggetto diritti di cui egli titolare, il mancato rispetto delle previsioni normative impedisce al presidente di prendere in considerazione quanto il convenuto abbia dedotto o prodotto in modo irrituale (tardivamente, oppure senza l’assistenza del difensore);
b) laddove l’attività del coniuge convenuto, invece, abbia ad oggetto i doveri della controparte nei confronti dei figli, non vi possono essere decadenze e preclusioni. La cognizione del giudice, infatti, qui viene svolta nell’interesse dei figli, e questo interesse non può ovviamente essere pregiudicato da tardività o irritualità imputabili ad uno dei coniugi.
Così, esemplificando, le attività processuali, che si riferiscono all’assegno di mantenimento che il coniuge convenuto chiede per se stesso, non possono essere prese in esame dal presidente del tribunale, se esse non sono compiute nei modi prescritti dalle norme ; al contrario, le attività processuali che si riferiscono all’assegno per i figli, o all’assegnazione della casa coniugale debbono essere prese in esame dal presidente anche se compiute irritualmente. Infatti, in questo caso il presidente deve pronunciare di ufficio le disposizioni opportune relative ai figli, e l’ambito della sua cognizione non è soggetto a preclusioni o decadenze in cui siano incorsi i coniugi, oppure ad altri ostacoli che ad essi siano imputabili.
Nello stesso modo, a mio avviso, si deve risolvere la questione relativa al deposito della documentazione fiscale . L’art. 706, terzo comma, ultima parte prescrive che “al ricorso e alla memoria difensiva sono allegate le ultime dichiarazioni dei redditi presentate”; analogamente, l’art. 4, comma sesto, della legge sul divorzio prescrive che “al ricorso e alla prima memoria difensiva sono allegate le ultime dichiarazioni dei redditi rispettivamente presentate”. Anche in ordine a questa disposizione, la dottrina si chiede quali siano le conseguenze di un mancato, tardivo o comunque irrituale deposito della documentazione fiscale, e dà risposte differenziate. Ma anche qui, a mio avviso, occorre distinguere: se la documentazione serve al presidente per dare un contenuto ai provvedimenti temporanei e urgenti che deve emettere a favore della prole, è evidente che nessuna omissione, tardività o irritualità può pregiudicare l’interesse dei figli, che il presidente deve curare ex officio. La soluzione è esattamente l’opposta, quando tali omissioni, tardività o irritualità incidono nella sfera giuridica di colui, al quale esse sono imputabili.
Infine, a mio avviso anche le disposizioni contenute nell’art. 707, terzo comma, c.p.c., e nell’art. 4, settimo comma, della legge sul divorzio – nella parte in cui stabiliscono che, in caso di assenza del coniuge convenuto, “il presidente può fissare un nuovo giorno per la comparizione, ordinando che la notificazione del ricorso e del decreto gli sia rinnovata” – assumono un significato diverso a seconda che non vi siano oppure vi siano figli minori. Nel primo caso, se il presidente ritiene opportuno sentire l’assente prima di impartire i provvedimenti relativi ai figli, ciò è sufficiente per disporre un’altra vocatio in ius. Nel secondo caso, invece, sarebbe difficile giustificare un ordine di rinnovazione in assenza di un vizio della notificazione del ricorso .
La ricostruzione offerta mi sembra l’unica in grado di coordinare il rispetto della normativa vigente con le esigenze di tutela proprie delle situazioni sostanziali coinvolte nel processo di separazione e divorzio. Non è corretto, né da un punto di vista sistematico né da un punto di vista pratico, far ricadere su terzi (i figli minori) le conseguenze di preclusioni, decadenze ed irritualità che si verificano a causa del comportamento delle parti. Dall’altro lato, non sarebbe neppure corretto ritenere come non scritte le norme, con le quali il legislatore impone alle parti doveri processuali, in nome di un generico buonismo processuale; e men che mai sarebbe corretto trasferire paternalisticamente sul piano processuale il principio sostanziale della tutela del coniuge più debole, ciò che in realtà farebbe di questi un incapace o peggio un mentecatto, inidoneo a valutare i propri interessi e ad essere responsabile delle proprie azioni.
Si consideri, infine, che – contrariamente a quanto accadeva con il c.d. rito ambrosiano – le preclusioni e le decadenze verificatesi nella fase presidenziale non sono definitive : come vedremo immediatamente, nel passaggio dinanzi al giudice istruttore le parti hanno la possibilità di introdurre in giudizio qualunque tipo di novità, e quindi di ottenere tutela piena delle proprie situazioni sostanziali. E ciò non soltanto attraverso la sentenza, ma anche attraverso provvedimenti interinali della stessa portata di quelli presidenziali, posto che gli artt. 709, comma quarto, c.p.c. e 4, comma ottavo, legge sul divorzio, consentono al giudice istruttore di modificare e revocare, e quindi a maggior ragione di integrare l’ordinanza presidenziale. Dunque, nessun pregiudizio irrimediabile subisce il coniuge convenuto.
§ 6. L’ultimo argomento che vorrei trattare riguarda appunto il passaggio dalla fase presidenziale a quella di trattazione innanzi al giudice istruttore. Come già detto, il legislatore ha chiaramente previsto una riapertura totale del processo, rendendolo ricettivo ad ogni tipo di attività delle parti.
In primo luogo, il legislatore ha reintrodotto l’obbligo di notificare l’ordinanza presidenziale al convenuto non comparso, ripristinando così quanto previsto dal previgente art. 709 c.p.c., “disattivato” dall’art. 23 della L. 74/1987. Mentre da un lato è evidente che l’ordinanza deve essere notificata al coniuge assente, e viceversa non deve essere notificata al coniuge regolarmente costituito in giudizio con il patrocinio di un legale , è incerto l’obbligo di notifica al coniuge che si sia limitato a comparire dinanzi al presidente, con o senza l’assistenza di un difensore. A mio avviso, la “rituale” comparizione dinanzi al presidente – quindi con l’assistenza del difensore – esclude l’obbligo della notifica; mentre tale obbligo sussiste se il coniuge convenuto si è limitato a comparire personalmente, senza l’assistenza del difensore . E ciò per due ragioni. Innanzi tutto, perché se il difensore è stato presente all’udienza, e quindi è venuto a conoscenza dell’ordinanza del presidente, egli è in grado di illustrare al proprio cliente quali attività è necessario compiere nel prosieguo del processo. Al contrario, se la parte è comparsa senza l’assistenza del difensore, per le ragioni sopra dette questa “irrituale” presenza non assume giuridico rilievo, se non con riferimento ai provvedimenti che riguardano i figli minori.
In secondo luogo, gli artt. 709, terzo comma, c.p.c. e l’art. 4, decimo comma, della legge sul divorzio prevedono l’assegnazione al ricorrente di un termine per il deposito di una memoria integrativa, che ha sostanzialmente il contenuto dell’atto di citazione; e l’assegnazione di un termine al coniuge convenuto per la costituzione in giudizio ai sensi degli artt. 166 e 167 c.p.c. Ora, è evidente che con tali disposizioni il legislatore consente alle parti di compiere ogni tipo di attività innovativa , e quindi anche di proporre domande in precedenza non proposte . L’attore, in tal modo, può cumulare alla domanda di separazione o di divorzio – che necessariamente ha proposto con il ricorso – anche ulteriori domande; e il convenuto può compiere in questa sede quelle attività, che ha omesso o posto in essere irritualmente nella fase presidenziale. Ma se il coniuge convenuto si è già regolarmente costituito nella fase presidenziale, non c’è alcuna necessità che si costituisca di nuovo . In sostanza, la norma va letta come se dicesse “....termine al convenuto per la costituzione in giudizio, se necessaria….”.
In dottrina, è stato avanzato un dubbio sulla possibilità che l’attore possa utilizzare la memoria integrativa per proporre nuove domande, argomentando dal fatto che le modalità (deposito in cancelleria) ed i termini di proposizione della stessa sarebbero inidonei a garantire al convenuto una idonea difesa nei confronti di tali nuove domande .
A mio avviso, il dubbio non è fondato . Per quanto riguarda le modalità, è evidente che il solo deposito in cancelleria è sufficiente, solo se il convenuto sia già costituito oppure si costituisca in giudizio: in caso contrario, scatta l’onere di notificazione della nuova domanda al contumace. In sostanza, il meccanismo non è diverso da quello della domanda riconvenzionale o dell’appello incidentale nel rito ordinario.
Per quanto riguarda i termini, è vero che essi non garantiscono al convenuto una idonea difesa nei confronti delle nuove domande proposte dall’attore con la memoria integrativa. Tuttavia, occorre considerare che i termini assegnati dal presidente al convenuto sono previsti affinché quest’ultimo possa difendersi nei confronti delle domande proposte dall’attore con il ricorso. Alle domande che, invece, l’attore propone con la memoria il convenuto non deve necessariamente replicare nel termine assegnato dal presidente ai sensi degli artt. 709, terzo comma, c.p.c. e 4, decimo comma, della legge sul divorzio, ben potendo ad esse replicare – proprio a causa della inidoneità dei termini normativamente previsti – ai sensi dell’art. 183 c.p.c. La situazione è, in altre parole, analoga a quella in cui si trova l’attore a fronte delle domande riconvenzionali del convenuto; o il convenuto a fronte della nuove domande proposte dall’attore ai sensi dell’art. 183, quinto comma, c.p.c.; o, ancora, l’appellante nel rito del lavoro a fronte dell’appello incidentale
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