L'applicazione giurisprudenziale delle tutele processualiSommario: 1. – Premessa – 2. Il riparto di competenze in tema di affidamento della prole naturale – 3. Il sistema di misure coercitive indirette introdotto dal nuovo art. 709 ter c.p.c. – 4. Il reclamo avverso l’ordinanza presidenziale.
1. Premessa
L’introduzione della normativa sull’affido condiviso (legge n. 54 del 2006) ha l’indubbio merito di aver posto l’accento sulla corresponsabilizzazione dei genitori nei compiti e nelle funzioni educative anche dopo la scissione e la separazione della coppia.
Ma questa legge non si è limitata ad innovare il delicatissimo settore dell’affidamento dei figli minori nella crisi della famiglia sia essa legittima o naturale, ma ha inserito, nel contesto di una disciplina nata e originariamente voluta come sostanziale, innovazioni di carattere processuale di grande rilievo ignorando alcune modifiche appena apportate dalla quasi contemporanea legge n. 80, (entrata in vigore il 1 marzo 2006) e così determinando una serie di problematiche interpretative, che sono una diretta conseguenza anche del mancato coordinamento della disciplina specificamente dettata per i singoli istituti e della scelta di non procedere ad abrogazioni espresse.
Si può dunque dire che questa legge è un’importante occasione perduta sotto molteplici profili: 1) mancato coordinamento tra la disciplina prevista dalle legge con quella di nuovissima introduzione ad opera della legge n. 80/05 e successive modifiche della legge 28 dicembre 2005, n. 263; 2) mancato coordinamento delle competenze del Giudice ordinario e del Tribunale per i Minorenni che avrebbe finalmente posto termine al disagio derivante dalla parcellizzazione delle stesse con il rischio conseguente di compromettere l’effettiva tutela dell’interesse del minore; 3) mancata chiarificazione della funzione residuale del Giudice tutelare a seguito dell’introduzione delle modifiche normative (art. 337); 4) mantenimento da parte del legislatore di due percorsi normativi formalmente distinti per la separazione e per il divorzio, operato dalla citata legge n. 80 ma ribadito dalla presente normativa, in controtendenza rispetto alle posizioni della giurisprudenza di merito e di legittimità e agli stessi interventi della Corte Costituzionale orientati invece verso un’omogenizzazione tra i due procedimenti.
Questo è dunque lo scenario che si delinea agli operatori del diritto, ai quali spetta dare risposte interpretative che riducano le contraddizioni e le disarmonie del testo normativo e consentano di dare sistematicità all’impianto, seguendo un principio di ragionevolezza, con la finalità di assicurare un’effettiva protezione degli interessi in gioco e di raggiungere una soluzione, il più condivisa possibile, in tempi ragionevoli.
Se peraltro guardiamo al resoconto della seduta della Commissione Giustizia nel corso della quale è stato approvato il disegno di legge è possibile rinvenire l’inaspettato auspicio che la “giurisprudenza svolga un ruolo intelligente nella risoluzione delle questioni che l’articolato indubbiamente pone”. Questo ci lascia stupiti non solo perché si ripone fiducia, in questi tempi non usuale, nell’attività della magistratura, ma anche perché si ha la prova della piena consapevolezza da parte del legislatore delle disorganicità del testo normativo, cioè proprio di quel dettato normativo che sta per approvare.
Passerei quindi ad esaminare tre questioni che, a mio avviso più di altre, impongono uno sforzo interpretativo e la necessità di dare sistematicità all’impianto normativo per evitare che le scelte processuali operate dalla legge di nuova introduzione si possano tradurre in una lesione degli interessi sostanziali che si vogliono tutelare e, primo fra tutti, dell’interesse del minore. Esaminerei in primo luogo il tema del riparto di competenza tra giudice ordinario e giudice minorile in ordine all’affidamento dei figli naturali, quindi i provvedimenti sanzionatori previsti dall’art. 709 ter c.p.c e, infine, alcune problematiche conseguenti all’introduzione del nuovo mezzo processuale costituito dal reclamo avverso le ordinanze presidenziali.
2. Il riparto di competenze in tema di affidamento della prole naturale
Il legislatore, ora come in passato, ha focalizzato la sua attenzione sul modello della separazione coniugale per regolare i rapporti tra la coppia genitoriale in crisi e i propri figli seguendo la scelta già fatta con la previsione dell’art. 317 cc , solo che oggi, con l’espresso richiamo contenuto nel secondo comma dell'art. 4, stabilisce che le nuove disposizioni- pur riferite alla sola separazione dei coniugi- trovano applicazione anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati.
Proprio facendo leva su questa norma ci si è interrogati sull’ambito di applicazione della legge nel suo complesso e, in particolare, sull’incidenza di tali previsioni sul sistema tradizionale delle competenze in ordine all’esercizio della potestà ed all’affidamento dei figli di genitori non coniugati.
Al riguardo non si può non essere d’accordo con quella parte della dottrina che rileva come la centralità delle norme di tutela dei figli previste dalla disciplina sostanziale della separazione non operi con la medesima forza espansiva, ora impressale anche dall'art. 4 della nuova legge, per quanto riguarda la disciplina processuale la cui applicazione in ambiti estranei alla separazione giudiziale deve essere valutata con molta prudenza.
Il legislatore non ha infatti costruito una disciplina uniforme dei procedimenti innescati dalla crisi della coppia genitoriale, ma si è limitato ad introdurre norme di portata ben limitata e specifica per quanto attiene ai profili processuali e, con riferimento ai procedimenti di separazione e divorzio, a segnare un’inversione di rotta, a favore della separazione, di quella rincorsa tra la disciplina della separazione e quella del divorzio, che per trent’anni aveva invece contraddistinto, a favore del divorzio, il percorso interpretativo legittimato dall’art. 23 l. n. 74/1987. Mentre infatti in forza della disposizione divorzile l’applicazione delle disposizioni processuali contenute nell’art. 4 della legge sul divorzio (norma interamente dedicata alla determinazione dell’iter del giudizio) veniva estesa, pur con la clausola di compatibilità, anche ai giudizi di separazione, oggi invece in forza dell’art. 4 legge n. 54 la normativa prevista per la separazione si estende al divorzio.
Ciò premesso, dobbiamo tristemente prendere atto che nulla è mutato nella disciplina del riparto di competenze, forse nell'attesa dell'istituzione delle sezioni specializzate per la famiglia e per i minori, di cui a lungo si è dibattuto da diversi decenni, ma che è stata una problematica del tutto ignorata nel dibattito parlamentare che ha portato all’emanazione della disciplina sull’affido condiviso. Pertanto, nel silenzio del dato normativo, arbitraria risulta un’interpretazione del dettato legislativo tendente a ravvisare una modifica rispetto all’anteriore riparto di competenze: 1) sia che conduca all’eliminazione della competenza del Tribunale per i Minorenni, 2) sia che conduca all’attribuzione di tutte le materie al Tribunale per i Minorenni.
La competenza del tribunale per i minorenni è implicitamente evocata dalla legge n. 54 là dove impone l'applicazione delle nuove norme sull'affidamento condiviso anche alla filiazione naturale e più precisamente a quei "procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati" che l'art. 38 disp. att. c.c. assegna, com'è noto, alla competenza per materia del giudice specializzato .
L’art. 38 disp. att. cc. (nella sua formulazione attuale, novellata da ultimo con la legge n. 184 del 1983) attribuisce al giudice minorile una competenza specifica nell’adottare i provvedimenti contemplati in disposizioni del codice, espressamente indicate (tra cui l’art. 317 bis), con la conseguenza che permane la residuale competenza del Tribunale ordinario per tutti i provvedimenti non demandati alla cognizione di una diversa autorità giudiziaria.
A mio avviso pertanto sono prive di fondamento normativo entrambe le opzioni interpretative che già sono venute a contrapporsi e che sono volte ad attribuire alla legge n. 54 una portata innovativa sul riparto delle competenze tra Tribunale ordinario e Tribunale per i Minorenni:
- la prima si esprime a favore dell’acquisizione al Tribunale per i Minorenni della competenza anche per l’adozione dei provvedimenti di contenuto economico, ritenendo che la nuova disciplina non consenta di scindere tra loro il momento decisorio sull’affidamento rispetto a quello sul mantenimento, ormai troppo tra loro connessi da consentire che, addirittura, sopravviva la consueta anteriore suddivisione di competenze e finisce quindi con il sottrarre al Tribunale ordinario ogni competenza sulle questioni attinenti al mantenimento della prole nata da genitori non coniugati (art. 261 c. c. in relazione all’art. 148 c.c.);
- la seconda opzione fa del pari leva, giungendo però a conclusioni opposte, sulla natura intrinsecamente unitaria della disciplina di nuovo conio, così che il giudice deve tenere presenti nella determinazione dei contributi economici anche le condizioni concordate o stabilite sulle modalità di affidamento; in particolare, è oggi univoco l’invito a considerare, a tale ultimo fine, l’entità dei periodi di permanenza del figlio presso ciascun genitore, cosicché significativa è l’indicazione che ad occuparsi di entrambe le questioni, così intimamente tra loro connesse, sia un unico giudice.
Tale ultimo orientamento interpretativo seguito dal Tribunale per i Minorenni di Milano si fonda, nonostante l’indiscussa sopravvivenza dell’art. 38 disp. att., sull’osservazione che detta norma non contiene la riserva a favore del Tribunale per i Minorenni per l’applicazione degli artt. 155 e ss. c.c., così che sarebbe più forte l’attrazione a favore del tribunale ordinario. Secondo tale tesi il secondo comma dell’art. 4 legge n. 54 laddove estende “le disposizioni della presente legge” “richiama integralmente le norme precedenti sia sostanziali che processuali e queste ultime presuppongono l’innesto su un rito ben preciso che è quello di cui agli artt. 706 e ssg.
Non è possibile comprendere sulla base di quali presupposti il Tribunale per i Minorenni di Milano ritiene applicabile il rito speciale ex art. 706 e ssg. c.p.c. a tutte le controversie tra genitori non coniugati tanto in materia di affidamento di figli naturali quanto per le domande di contenuto economico, senza peraltro estendere tale nuova disciplina, ad esempio, ai giudizi in tema di nullità di matrimonio, che secondo un’ interpretazione unanime si ritiene continuano ad essere soggetti al rito ordinario di cognizione civile.
Tale diversità di trattamento sotto l’aspetto processuale a ben vedere ha una sua precisa spiegazione in quanto mentre nella separazione giudiziale (ma anche nel divorzio e nei giudizi di nullità) la disciplina dei rapporti tra genitori e figli è stabilita dal giudice con un provvedimento (anche solo pronunciato in via provvisoria) che dà rilevanza giuridica alla crisi della coppia, nella crisi della coppia genitoriale non unita in matrimonio a seguito della cessazione della convivenza “non sussiste questa inevitabile necessità di un intervento giudiziario” (Cass. 20-4-1991, n. 4273) in quanto si crea una situazione di fatto la cui incidenza sull’esercizio della potestà è regolata direttamente dall’art. 317 bis. Dunque mentre la disciplina dell’affidamento condiviso trova applicazione necessaria quando il giudice pronuncia la separazione e il divorzio e la tutela dei minori, avendo la propria fonte in appositi capi della sentenza costituiva dello stato di separazione e di divorzio, non altrettanto può dirsi per la separazione della coppia di fatto in cui lo scioglimento avviene senza alcun intervento giudiziario ed in cui, anche con riguardo all’affidamento ed al mantenimento dei figli, tale intervento è previsto come indispensabile solo nel caso in cui i genitori naturali, nella loro autonomia, non abbiano raggiunto un accordo. Trattasi cioè di un intervento meramente eventuale o successivo, su domanda quindi di ciascun genitore o forse anche su iniziativa del PM nell’esercizio delle sue funzioni di tutela del minore, anche se sussistono dubbi su questa legittimazione ufficiosa ad agire ai fini dell’art. 317 bis, con la finalità soprattutto di meglio adattare all’interesse del minore i criteri previsti dalla stessa norma. Ed è proprio in considerazione dell’immediata operatività dei criteri di legge che ci si è a lungo interrogati sull’ammissibilità di un ricorso presentato congiuntamente dai genitori non coniugati volto ad ottenere una sorta di verifica della non contrarietà all’interesse dei figli di quanto tra loro concordato, con un obiettivo analogo a quello della separazione consensuale, prassi a cui sembra opportuno dare seguito anche per prevenire future ipotesi di contrasto e per conferire maggiore stabilità alla situazione disciplinata.
Inoltre non è dato comprendere come sia possibile la ricostruzione del sistema procedurale operata dal Tribunale per i Minorenni di Milano che applica le regole processuali della separazione coniugale ai procedimenti relativi all’esercizio della potestà sui figli naturali quando già la Corte Costituzionale investita proprio della questione sull’applicabilità della disciplina della separazione dei coniugi alla cessazione delle convivenze di fatto nel cui ambito sia nata prole ha rilevato come l’assenza di un procedimento specularmente corrispondente a quello di separazione dei coniugi involge questioni di politica legislativa, ma certamente non determina la violazione dei principi costituzionali “in considerazione delle diversità delle situazioni poste a raffronto, che non ne consente la reductio ad unitatem” (Corte Cost. 13 maggio 1998, n. 166)
La Corte peraltro in questa pronuncia ha richiamato i principi già in precedenza affermati proprio in relazione alle convivenze di fatto e alle diverse competenze rispettivamente attribuite al Tribunale per i Minorenni e al Tribunale ordinario per l’emanazione dei provvedimenti riguardo all’affidamento e al mantenimento dei figli naturali ed ha sottolineato come già con la sentenza n. 23 del 1996 aveva ha ritenuto che: a) la suddetta attribuzione di competenza al tribunale ordinario quanto ai profili economici, anziché al tribunale per i minorenni, trova la sua ragionevole giustificazione nel fatto che "con la richiesta di revisione del contributo avanzata dal genitore che ha presso di sè il minore nei confronti dell'altro non affidatario si radica una lite che non coinvolge più direttamente il minore, bensì due soggetti maggiorenni"; b) ai fini della denunciata violazione degli artt. 3 e 30 Cost. "non rileva la comparazione con la competenza unitaria prevista in materia per i figli legittimi, poiché diversa è la ratio - e la situazione sottostante - delle due discipline poste a raffronto". Tali diversità si incentrano nella mancanza, per i figli. naturali, di un processo necessariamente unitario che in caso di conflitto fra i genitori coinvolga il momento della separazione, quello della sorte dei figli comuni e quello del regolamento dei rapporti patrimoniali sia tra loro che relativamente al mantenimento della prole.
Superati i profili di costituzionalità, che rimangono invariati anche alla luce della nuova disciplina introdotta con la legge n. 54, resta solo da verificare se è possibile, in presenza di un silenzio normativo sull’abrogazione di norme di legge, quell’operazione interpretativa in forza della quale si ritiene essere venuto meno il criterio di individuazione della competenza del Tribunale per i Minorenni nel caso di affidamento di prole naturale, che trae origine dal rilievo che il rinvio disposto dall’art. 38 disp. att. c.c. all’art. 317 bis c.c. non operi più per abrogazione tacita di tale ultima normativa.
L’istituto dell’abrogazione tacita è disciplinato dall’art. 15 delle Preleggi, secondo cui le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori “…..per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore”
Con riguardo alla prima modalità di abrogazione tacita – l’ “incompatibilità” tra le nuove disposizioni e quelle precedenti – la giurisprudenza (Cass. S. U. 26 luglio 2002, 11096) ha precisato che l’incompatibilità tra le nuove disposizioni di legge e quelle precedenti….si verifica solo quando tra le norme considerate vi sia una contraddizione tale da renderne impossibile la contemporanea applicazione, cosicché dalla applicazione ed osservanza della nuova legge non possono non derivare la disapplicazione o l’inosservanza dell’altra”.
Orbene sul punto deve escludersi che tra l’art. 317 bis e l’art. 155 c.c. sussista una contraddizione tale da renderne impossibile la contemporanea applicazione del primo comma e di tutta la prima parte del secondo comma. La prima parte di tale articolo disciplina infatti una serie di situazioni di fatto che prescindono e precedono l’intervento dell’autorità giudiziaria: .
In realtà la legge n. 54 si inserisce nell’art. 317 bis dando nuovi criteri di intervento del TM: la nuova legge cioè si inserisce in quanto previsto dall’art. 317 bis dando compiuta disciplina al contenuto dei provvedimenti che il giudice specializzato ben poteva anche prima pronunciare nell’interesse dei figli, ma che non trovavano espresso regolamento nel caso di cessazione della convivenza. Con la legge n. 54 la fine della convivenza non è più causa di cessazione dell’esercizio della potestà perché la nuova legge muove dal presupposto che l’esercizio congiunto della potestà non viene meno per effetto della sola cessazione della convivenza: la potestà infatti continua ad essere esercitata congiuntamente nei modi indicati dall’art. 155 III comma e, in caso di dissenso, in applicazione delle nuove regole sull’affidamento condiviso.
Ancor meno può ritenersi che l’abrogazione tacita sia derivata dal fatto che la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore: del tutto insufficiente si rivela all’uopo l’art. 4 della legge n. 54, che esprime il mero intento legislativo di parificare l’ambito di tutela degli interessi dei figli nelle situazioni di separazione, divorzio, nullità del matrimonio e, entro certi limiti, di rottura delle convivenze more uxorio
Anche a questo proposito la giurisprudenza (Cass. 21 settembre 2005, n. 18602) ha seguito orientamenti particolarmente restrittivi per riconoscere la tacita abrogazione delle leggi, affermando che “l’abrogazione per nuova regolamentazione dell’intera materia è configurabile quando la legge successiva costituisca un sistema normativo tendenzialmente completo; e deve sicuramente escludersi che dall’art. 4 comma 2 legge n. 54 possa evincersi un siffatto “sistema normativo completo” del tutto innovativo rispetto alla disciplina della filiazione naturale, in relazione alla quale, come abbiamo visto, resta operativa tutta la prima parte dell’art. 317 bis, cioè quei principi enunciati dal medesimo articolo tuttora atti a fondare la decisione sull’affidamento della prole naturale nell’ipotesi in cui i principi introdotti con la legge n. 54 non possono trovare applicazione.
Dalle considerazioni svolte consegue come in presenza di norme di legge ancora in vigore e dell’impossibile operare di abrogazioni tacite sussista ancora il tradizionale riparto di competenza tra tribunale ordinario e tribunale per i minorenni, il quale quindi mantiene la propria competenza in materia di esercizio della potestà ed affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio anche successivamente all’entrata in vigore della legge n. 54/2006, e come con ciò il legislatore abbia perso, e non mi stanco a rimarcarlo, quell’occasione di rispondere all’esigenza di razionalizzazione e di funzionalità espressa da tutti gli operatori del diritto e più che mai dagli utenti, e che è anche espressione di quell’intima correlazione esistente tra le patologie familiari e le situazioni di disagio dei minori che meritano risposte alle loro esigenze in tempi brevi e nell’ambito di uno stesso contesto giudiziario.
Addirittura mi sembra invece che, allo stato, la situazione presenti ulteriori elementi di preoccupazione: infatti, in attesa che la Corte di Cassazione si pronunci sull’istanza di regolamento di competenza proposta dal Tribunale ordinario di Milano, con ordinanza del luglio 2006, a seguito della dichiarazione di incompetenza per materia a conoscere della controversia relativa all’affidamento di un figlio di genitori non coniugati in merito alla quale il Tribunale per i Minorenni di Milano aveva già declinato la propria incompetenza, si è verificato un vuoto di tutela che vede proprio i minori privi di un’autorità giudiziaria che si faccia carico delle loro necessità in un momento così delicato qual è quello della crisi della loro famiglia.
3. Il sistema di misure coercitive indirette introdotto dal nuovo art. 709 ter c.p.c.
Dalle considerazioni esposte discende automatica la conseguenza che debbano essere ricondotte alla competenza del Tribunale ordinario o del Tribunale per i Minorenni le disposizioni “sanzionatorie” di cui all’art. 709 ter qui introdotto, quando le stesse si pongono in stretta correlazione con “le controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità di affidamento” a seconda che si tratti di filiazione legittima o naturale visto che la norma richiama la competenza del “giudice del procedimento in corso”, non avendo, invece, riguardo a eventuali inadempimenti agli obblighi di mantenimento, già altrimenti sanzionabili.
Grande interesse, numerose critiche e persino meraviglia ha destato tale previsione, che si colloca nella disciplina processuale, secondo la quale il giudice “in caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento, può modificare i provvedimenti in vigore e può, anche congiuntamente,…..” irrogare una serie di “sanzioni” alle quali non sono estranei profili risarcitori, anche a favore personale del minore.
Per meglio comprendere la disciplina prevista sarà necessario capire se gli obiettivi a cui è finalizzata siano stati quelli di ufficializzare il principio della risarcibilità del danno in questa materia o se – come ritengo sia preferibile pensare – si sia con tale disposizione voluta attuare una sorta di coazione psicologica al rispetto delle condizioni vigenti in tema di affidamento, seguendo la scia segnata, per gli aspetti economici, dall’art. 156 sesto comma c.c. che, prevedendo un sequestro fondato su un pregresso inadempimento piuttosto che sui generali presupposti del fumus boni iuris e soprattutto del mero periculum in mora, è stato ritenuto estraneo alla categoria dei provvedimenti cautelari (Corte Costituzionale 19 luglio 1996, n. 258) e così sottratto al relativo regime.
Muovendoci in quest’ottica dobbiamo ritenere che la modifica del provvedimento e l’irrogazione delle sanzioni possa avvenire anche d’ufficio una volta che il giudice viene a conoscenza della portata e del contenuto delle violazioni e delle inadempienze in oggetto.
Sembra inoltre che l’art. 709 ter c.p.c si venga spesso a configurare, secondo quanto ha rilevato autorevole dottrina, come un incidente di esecuzione in considerazione del fatto che il più delle volte l’astrattezza del titolo esecutivo non funziona in ambito familiare, in cui il titolo deve adeguarsi alle esigenze del minore ed ai nuovi equilibri venutisi a creare. In questi casi l’istituto finisce quindi con il calarsi nell’ambito dell’attuazione, nel senso più ampio del termine: una sanzione civile calata nell’esecuzione.
La legge usa l’avverbio “congiuntamente” e ciò comporta che il giudice può dare gli opportuni provvedimenti di attuazione ovvero può modificare i provvedimenti in atto e può in aggiunta adottare le misure sanzionatorie in questione. In relazione a queste ultime non è prevista alcuna gradualità ed inoltre è prevista la possibilità di adottarle contestualmente. In particolare il giudice può : 1) ammonire il genitore inadempiente; 2) disporre il risarcimento dei danni a carico di uno dei genitori nei confronti del minore; 3) disporre il risarcimento dei danni a carico di uno dei genitori nei confronti dell’altro; 4) condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria da un minimo di 75 euro a un massimo di 5000 euro a favore della Cassa delle Ammende.
Se dunque l’ottica del legislatore era quella di mirare, con la previsione di queste misure, ad una funzione deterrente e dissuasiva della violazione degli obblighi genitoriali collegati all’esercizio della potestà sui figli, mi sembra che queste misure poco possono avere a che fare con la responsabilità civile e le obbligazioni risarcitorie extracontrattuali in senso classico, anche se in giurisprudenza è in corso un’elaborazione tendente all’applicazione crescente del principio della responsabilità civile per la violazione di doveri familiari.
Basta però pensare come queste ultime cause sottoposte al giudizio ordinario di cognizione siano ritenute ormai, secondo un orientamento consolidato in Cassazione, non più trattabili per connessione nell’ambito del procedimento di separazione e divorzio, sottoposto a rito speciale proprio per assicurare un rapido svolgimento, per escludere l’opportunità, e forse anche la stessa configurabilità, di un’interpretazione che consentirebbe di dare ingresso a cause risarcitorie in senso proprio attraverso un sub procedimento, peraltro nato e voluto per finalità opposte rispetto all’appesantimento del rito, essendo prioritariamente volto all’attuazione di provvedimenti diretti ad assicurare con tempestività il rispetto dell’esigenza dei minori di avere un rapporto sereno ed equilibrato con entrambi i genitori.
Queste misure mi sembrano perciò avere valenza sanzionatoria anche laddove prevedono un risarcimento del danno e sono semmai rapportabili ai danni punitivi previsti in altri ordinamenti ovvero a quelle misure coercitive che nel diritto francese vengono definite astreintes.
Se è così, la determinazione dell’an e del quantum debeatur dovrà del tutto prescindere dai parametri giurisprudenziali in materia di danno alla persona e di danno non patrimoniale, anzi sarebbe ragionevole affermare che non occorre alcuna prova del danno prodotto perché è lo stesso legislatore ad apprezzarne, in via generale e preventiva, la sussistenza in conseguenza delle riscontrate gravi inadempienze nel corretto svolgimento delle modalità di affidamento. Al giudice sarebbe solo rimesso il profilo, pur sempre di difficile individuazione, del quantum debeatur, con funzione elettivamente sanzionatoria sulla base di una valutazione prognostica che faccia ritenere adeguata quella misura idonea ad indurre il soggetto passivo a desistere dalla condotta pregiudizievole.
Si potrebbe così risolvere il problema, altrimenti di non facile soluzione, della sovrapposizione di tale misura con le ordinarie misure risarcitorie, che potranno essere sempre richieste con autonomo giudizio, nonché l’ulteriore problema che conseguirebbe dalla previsione di un risarcimento del danno in favore di terzo laddove si provvede in favore del minore, che invece potrebbe avere interesse a far valere, quale parte in autonomo giudizio, eventuali pretese risarcitorie.
Si risolverebbe così anche l’ulteriore problema della possibilità per il giudice di disporre d’ufficio il cd. risarcimento in favore del minore e anche di non disporlo, o di prevedere una misura meno afflittiva, nel caso in cui ritenga che non sia nell’interesse dello stesso perché, ad esempio, inasprisce la conflittualità tra i genitori con conseguente danno del figlio.
Quanto alla fattispecie “risarcitoria” prevista in favore dell’altro genitore ritengo invece che debba necessariamente operare il principio della domanda, mentre funzione sicuramente punitiva mi pare debba attribuirsi alla sanzione amministrativa che può essere quindi disposta anche d’ufficio.
Avere escluso una valenza risarcitoria in senso proprio consente di risolvere più agevolmente, e aggiungerei in conformità agli obiettivi volti a tutelare il minore, il problema della competenza. Indubbiamente sarà il giudice del procedimento a provvedere: cioè il giudice istruttore nella separazione e nel divorzio, il giudice delegato nel procedimento minorile, il collegio nel procedimento di modifica delle condizioni di separazione e divorzio, la corte d’appello se i relativi procedimenti sono oggetto di impugnazione, la corte d’appello in pendenza di giudizio per cassazione. Inoltre, in linea con siffatto orientamento interpretativo, sarà poi il collegio al momento della decisione a confermare modificare o revocare le misure adottate dall’istruttore.
Tale soluzione d’altronde, a mio avviso, trova conferma negli interventi additivi operati dalla Corte Costituzionale con specifico riferimento al sesto comma dell’art. 156 c.c.. Infatti la Corte costituzionale, intervenendo una prima volta con la sentenza .n. 278 del 1994, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del sesto comma, "nella parte in cui non prevede che il giudice istruttore possa adottare nel corso della causa di separazione il provvedimento di ordinare ai terzi debitori del coniuge obbligato al mantenimento di versare una parte delle somme direttamente agli aventi diritto". Successivamente, con la sentenza .n.258 del 1996, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del medesimo sesto comma "nella parte in cui non prevede che il giudice istruttore possa adottare, nel corso della causa di separazione, il provvedimento di sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato al mantenimento".
E’ stata poi la stessa Corte a chiarire come le due misure in questione rispondano alla necessità di tutelare nel modo più ampio possibile il coniuge bisognoso "e soprattutto i figli" ed a sottolineare l’identità di ratio di tali misure coercitive che assolverebbero quindi alla medesima funzione, sul piano degli obblighi economici, prevista dall’art. 709 ter c.p.c. per favorire il rispetto delle condizioni vigenti in tema di affidamento dei figli.
Di non facile soluzione è anche l’ulteriore problema di comprendere la portata del disposto secondo cui: “i provvedimenti assunti dal giudice del procedimento sono impugnabili nei modi ordinari”. Al riguardo può solo anticiparsi la ragionevolezza di una conclusione secondo la quale, se la competenza venisse riconosciuta anche al G.I., l’impugnazione dovrebbe essere inoltrata al tribunale in composizione collegiale, mentre ove la domanda fosse proposta in forma autonoma (con ricorso nelle forme dell’art. 710 c.p.c.) e il provvedimento conclusivo fosse dunque collegiale, con ogni probabilità scatterebbe la competenza della corte d’appello, giudice naturale di seconda istanza per le decisioni del tribunale.
Superfluo aggiungere che su ciascuna di queste problematiche è già aperto un intenso confronto.
4. Il reclamo avverso l’ordinanza presidenziale
La legge ha inserito in chiusura dell’art. 708 la nuova previsione per la quale “«Contro i provvedimenti di cui al terzo comma si può proporre reclamo con ricorso alla corte d’appello che si pronuncia in camera di consiglio. Il reclamo deve essere proposto nel termine perentorio di dieci giorni dalla notificazione del provvedimento».
Si tratta di una delle disposizioni senz’altro più dirompenti oltre che inaspettata, non solo perché una norma di carattere processuale è stata inserita nel contesto di una disciplina che, come si è detto, era stata pensata soprattutto a fini di tutela sostanziale del soggetto minore ma, anche, perché ha dato una sua soluzione al dibattuto tema dell’impugnabilità dei provvedimenti provvisori.
La formulazione della norma pone peraltro alcuni interrogativi di non poco momento.
Per quanto riguarda il regime positivo, la legittimazione spetta a entrambe le parti, nella misura in cui lamentino l’illegittimità o erroneità nel merito del provvedimento assunto dal presidente. Nell’ipotesi in cui il convenuto non si fosse ancora costituito nell’udienza presidenziale ritengo tuttavia non si possa non convenire sul fatto che nel giudizio di reclamo egli debba partecipare inevitabilmente con l’assistenza di un difensore e con questo costituirsi.
Quanto al temine per la sua proposizione il testo della norma in questione statuisce che il reclamo deve essere proposto nel termine perentorio di dieci giorni dalla notificazione dell'ordinanza presidenziale. Si noti che la notificazione dell'ordinanza è prevista dalla disciplina dei giudizi di separazione e di divorzio solo se è stata pronunciata nei confronti del convenuto non comparso all’udienza presidenziale: è quindi palese che la notificazione è qui strumentale alla decorrenza dei termini per il reclamo, cioè presuppone una notifica ad istanza di parte. Forse non era questo ciò che il legislatore aveva in mente, ma è difficile superare il dettato normativo e ritenere che il termine decadenziale decorra dalla data di emanazione dell’ordinanza “in udienza” o dalla sua comunicazione, anche in forma integrale, ad opera della cancelleria.
Quest’ultima soluzione è infatti quella prevista dall’art. 669 terdecies c.p.c. per la disciplina del reclamo cautelare, secondo il quale invece il diverso termine perentorio di quindici giorni viene fatto decorrere “dalla pronuncia in udienza ovvero dalla comunicazione o dalla notificazione se anteriore” e sembra pertanto impossibile ignorare ovvero privare di ogni sua valenza la diversità di scelta operata dal legislatore nel regolamentare i due istituti nel contesto della medesima legge 14 maggio 2005 n. 80.
D’altronde tale soluzione è perfettamente in linea con la natura camerale del procedimento di reclamo, che secondo una giurisprudenza ormai costante individua nella data della notificazione il dies a quo per la proponibilità del reclamo camerale contro provvedimenti dati nei confronti di più parti.
Si presenterà, allora, sempre più frequente il ricorso alla notificazione (di un provvedimento che, peraltro, già può essere ben conosciuto dalla parte e dal suo difensore, ove reso in udienza e finanche sottoscritto) al solo fine di provocarne la stabilità per effetto dell’inutile decorrenza del termine breve di impugnazione.
Si pone, tuttavia, il problema di quello che può accadere ove nessuna delle due parti assuma l’iniziativa della notificazione, così che il termine iniziale non inizia a decorrere: in questo caso il reclamo s'intende precluso decorso l'anno dalla sua pronuncia e ciò in applicazione di quanto disposto dall’art. 327 c.p.c.
Resta, indubbiamente, l’anomalia di una facoltà di impugnazione per così dire “sospesa” e anche per non breve tempo, senza alcuna possibilità di stabilizzazione del regime interinale.
Ma il punto più critico è in ogni caso rappresentato dal mancato coordinamento della nuova norma con il potere di revoca e modifica dei provvedimenti presidenziali, non soltanto confermato, ma anzi rafforzato per effetto della l. n. 80/2005 che ha sancito anche per la separazione (nuovo art. 709, 4° comma, c.p.c.) la modificabilità e revocabilità dei provvedimenti senza richiedere ulteriormente come necessario il verificarsi di mutamenti nelle circostanze (soluzione, questa, peraltro da più parti ammessa anche in precedenza, mediante estensione analogica dell’art. 4, 8° comma, l. div.).
Andando ad esaminare cosa accade una volta che viene emessa l’ordinanza presidenziale dobbiamo ritenere che le parti abbiano due rimedi alternativi: uno davanti al giudice superiore, l’altro davanti al giudice istruttore della causa, ma electa una via non datur recursus ad alteram. Cioè, a mio avviso, l’alternatività non consente di tornare indietro. Infatti non appare concettualmente coerente con il nostro sistema giuridico, né rispondente a criteri di ragionevolezza e di economia processuale la possibilità di investire contestualmente due diverse autorità giudiziarie dell’esame di una medesima istanza fondata sui medesimi motivi, con l’inaccettabile ipotetica conseguenza dell’emissione di due provvedimenti tra loro contrastanti, entrambi dotati di uguale immediata efficacia esecutiva.
D’altronde la natura alternativa dei rimedi è presente anche nel sistema cautelare, nel quale però ai sensi del primo comma dell’art. 669 decies c.p.c. è precluso al giudice istruttore del merito ogni valutazione in pendenza di reclamo.
Ciò porta a concludere che il reclamo ex art. 708 c.p.c. proposto successivamente all’istanza di revoca/modifica dell’ordinanza presidenziale presentata al giudice istruttore debba essere dichiarato inammissibile, così come parimenti inammissibile debba essere ritenuta l’istanza di revoca/modifica presentata davanti a quest’ultimo successivamente alla proposizione del reclamo, sempre che entrambe le richieste si fondino sui medesimi motivi.
A diversa soluzione deve infatti pervenirsi laddove, in pendenza di reclamo, sopravvengano fatti nuovi che siano sottoposti all’attenzione del giudice istruttore, il quale sarà comunque tenuto a valutare l’adeguatezza e coerenza del provvedimento di cui si chiede la revisione rispetto alla nuova situazione venutasi a creare, la quale peraltro non potrebbe in ogni caso costituire oggetto di esame in sede di reclamo.
Nel silenzio della legge occorre inoltre dare una lettura sistematica ai rapporti tra gli effetti del provvedimento emesso dalla Corte in sede di reclamo ed i poteri di revoca e modifica da parte dell’istruttore. Per dare un senso al procedimento di impugnazione davanti ad un giudice superiore credo debba necessariamente ravvisarsi un effetto preclusivo rebus sic stantibus . Tale lettura trova conforto anche su un argomento letterale: il potere di modifica e revoca è dall’art. 709, 4° comma, c.p.c. ricollegato ai soli «provvedimenti temporanei ed urgenti assunti dal presidente con l’ordinanza di cui al terzo comma dell’articolo 708».
Ciò però non vuol dire che debba escludersi la possibilità di modifica, integrazione o revoca del provvedimento emesso dalla corte d’appello in sede di reclamo per la fondamentale considerazione che la disciplina dettata tramite i provvedimenti in esame (siano emessi dal presidente, ovvero dalla corte) è comunque sempre provvisoria e rispondente a un assetto di interessi dei componenti del nucleo familiare che può fisiologicamente subire alterazioni o variazioni. Ne consegue la possibilità della revoca e modifica da parte del giudice istruttore, ma subordinata alla presenza di nuove circostanze, comprendendo tra queste anche le nuove allegazioni di fatti già noti alle parti ma che queste ultime non abbiano esplicitato nella fase presidenziale, così come è loro consentito fare alla luce della nuova normativa della legge n. 80. Mi sembra dunque che al riguardo debba condividersi quell’orientamento dottrinario secondo cui il potere revocatorio previsto dall’art. 709, 4° comma, c.p.c. si sia senz’altro consumato per effetto della pronuncia in sede di reclamo da parte di un giudice superiore, ma sopravviva un più limitato potere di modifica/revoca, in ossequio alla clausola rebus sic stantibus implicitamente sottesa a tutti i provvedimenti in esame.
Una diversa soluzione credo finirebbe con l’attribuire all’istruttore un potere decisorio concorrente con quello della Corte e potrebbe portare al ripristino dei provvedimenti presidenziali riformati in sede di reclamo, cioè comporterebbe l’assoluta inutilità dell’esperimento del mezzo di impugnazione, i cui effetti, anche in tempi brevi, sarebbero del tutto vanificati. Non sarebbero allora in alcun modo giustificati i costi in termini economici, di durata del procedimento e di incremento della litigiosità che l’introduzione di questo strumento necessariamente comporta e che dovrebbero indurre a preferire tra due opzioni, in astratto egualmente percorribili, quella che, non presentando palesi contraddizioni e non ponendosi in aperto contrasto con il quadro normativo d’insieme, consente la formulazione di una previsione di maggiore funzionalità all’obiettivo che si vuole raggiungere in termini di efficienza di sistema, evitando di riportare su più tavoli un contenzioso che ha già ricevuto risposta con tutte le garanzie di legge.
Passando infine ad esaminare il problema delle spese della fase del reclamo, non certo allo scopo di vanificare la sempre doverosa applicazione della legge quanto per riaffermare che di un diritto, ancorché normativamente riconosciuto, non può certo abusarsi, mi sembra importante segnalare l’orientamento della Corte di Milano di provvedere in merito alle stesse. Questo non solo per il carattere impugnatorio del giudizio dinanzi ad un giudice diverso da quello investito del procedimento, ma anche perché si tratta di un giudice di grado superiore che definisce il procedimento davanti a sè, quindi integra una fattispecie diversa dal cautelare, una fattispecie che in un certo senso si riavvicina di più all’ipotesi disciplinata dall’art. 385 c.p.c..
D’altronde la previsione del rito c.d. camerale non esclude di per se’ la condanna di una parte al pagamento delle spese del processuali per i procedimenti camerali contenziosi, ossia nei casi in cui il legislatore abbia assoggettato al rito camerale la cognizione di una vera e propria controversia relativa a diritti soggettivi o status, la cui soluzione sia esplicazione di giurisdizione contenziosa e richieda, quindi, che le situazioni giuridiche coinvolte nel conflitto siano accertate in maniera incontrovertibile con un provvedimento che faccia stato tra le parti (sul punto Cass. 3246/1998).
Va aggiunto che i decreti emessi dal giudice in sede di giurisdizione volontaria non possono formare oggetto di ricorso per cassazione e che, nel caso in cui essi contengano anche la condanna di una parte al pagamento di spese processuali in favore di un'altra parte, solo a quest'ultima pronuncia (in quanto destinata a risolvere un contrasto in tema di diritti soggettivi, concernente l'onere di dette spese, ed in quanto non sia contro di essa esperibile un altro mezzo di gravame), è possibile riconoscere i connotati sostanziali di sentenza, con la conseguente ammissibilità (ma contro di essa soltanto) del ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost. (Cass. n. 420/1997).
Ciò dovrebbe comportare quindi la ricorribilità per cassazione del provvedimento concernente il regolamento delle spese.
Per concludere mi sembra che per un corretto funzionamento di tutta la legge, visto che la forma è a servizio della sostanza e visto che questa forma non è stata delineata con criteri chiari ed univoci, solo l’impegno congiunto di tutti gli operatori e studiosi del diritto potrà consentire di evitare che l’utilizzo incoerente o improvvido di strumenti processuali e l’incerta interpretazione del dato normativo, con il conseguente formarsi di prassi incerte e contrastanti nei diversi uffici giudiziari, si possano tradurre in una lesione dei diritti degli utenti che debbono sempre essere tutelati e, primo fra tutti, del diritto dei figli minori, spesso vittime della conflittualità dei genitori, che a questo punto rischiano di diventare anche vittime del processo.
Dott. ssa Maria Carla Gatto
Corte d’Appello di Milano – Sezione della famiglia e dei minori
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