Reclamo, revoca e modifica dei provvedimenti sommariSOMMARIO: 1. Premessa: le impugnazioni dei provvedimenti sommari tra garanzie di difesa ed esigenze di stabilità. – 2. Genesi ed evoluzione dei provvedimenti provvisori nella separazione e nel divorzio. – 3. L’impostazione tradizionale degli strumenti del reclamo e della revoca: differenze e caratteri tipizzanti. – 4. Crisi dell’impostazione tradizionale in relazione ai provvedimenti presidenziali nella separazione e nel divorzio. – 5. Significato e ratio della scelta operata dal legislatore con l’introduzione del reclamo. – 6. I nodi insoluti dei rapporti tra reclamo e revoca: a) il concorso tra i due rimedi. – 7. Segue: b) il regime di stabilità del decreto emanato dalla corte d’appello in sede di reclamo. – 8. Segue: c) il problema della reclamabilità dei provvedimenti emanati dal giudice istruttore. – 9. Conclusioni.
1. - Il tema delle impugnazioni rappresenta per definizione uno dei fondamenti sui quali si impernia qualsiasi sistema di diritto processuale. Per assolvere al proprio compito istituzionale, la tutela giurisdizionale è chiamata infatti a reperire un punto di equilibrio tra diverse esigenze, che nello svolgimento diacronico del processo sollecitano soluzioni e modelli antiteticamente orientati.
Da un lato, la funzione primaria della tutela giurisdizionale consiste nell’assicurare la certezza, da sempre postulato e cardine della scienza del diritto; e tale connotato rappresenta un formante insopprimibile anche del diritto processuale, attesa la necessità che il giudizio, una volta assolto il proprio compito e accordata la tutela richiesta, ritorni al terreno del diritto sostanziale, quasi fondendosi con esso (si pensi alla tradizionale funzione della res judicata di facere de albo nigrum).
Per converso, il valore della difesa e il riconoscimento della fallibilità del giudizio umano impongono nei confronti della decisione l’adozione di una serie di rimedi esplicantisi in ulteriori gradi di giudizio ovvero come strumenti di «revisione» di differente significato e possibile valenza. In ciò si sostanzia il significato delle impugnazioni, il cui etimo allude al rinnovato esercizio della forza e quindi, in ultima analisi, della difesa attiva.
La necessità di contemperare questi opposti valori e reperire un punto di equilibrio tra essi si avverte non soltanto in relazione ai provvedimenti decisori «finali» (rectius, definitivi), ma altresì per quelli di natura provvisoria o sommaria, chiamati a dettare una disciplina meramente temporanea per le situazioni sostanziali in contesa. Per alcuni profili, anzi, proprio la sommarietà dell’intervento cognitivo che di regola caratterizza i provvedimenti provvisori rende fondamentale assicurare la presenza di uno strumento di controllo ad hoc .
2. - Per lungo tempo, nel silenzio della legge, dottrina e giurisprudenza si sono interrogate in merito alla natura dell’ordinanza con la quale il presidente, nella prima fase dei giudizi di separazione e divorzio, impartisce i provvedimenti provvisori e urgenti nell’interesse dei coniugi e della prole ; e dal dibattito sulla natura al dibattito sulla stabilità e sulla ammissibilità di un controllo immediato (sub specie di un’impugnazione che avrebbe assunto la forma del reclamo) il passo era ovviamente breve.
In questo ambito, la tesi negativa aveva decisamente prevalso , anche se la riconosciuta funzione (quanto meno lato sensu) cautelare di tali provvedimenti , unitamente a una lettura «a maglie aperte» del reclamo cautelare ex art. 669-terdecies c.p.c. , avevano indotto parte della dottrina e della giurisprudenza di merito , a sostenere l’esperibilità del rimedio anche avverso di essi.
La l. 14 maggio 2005, n. 80, pur non prendendo posizione esplicita sul tema, ha contribuito a rinvigorire l’antica querelle. Nel rinnovare integralmente la disciplina dei giudizi di separazione e divorzio , la riforma ha modificato la precedente formula codicistica, estendendo per tabulas anche alla separazione (art. 709, 4° comma, c.p.c.) il potere di libera modifica e revoca da parte del g.i. dei provvedimenti resi dal presidente, senza più riservarlo alle ipotesi di deduzione di mutamenti nelle circostanze (anche se va ricordato come detta soluzione fosse stata da più parti già ammessa anche nel precedente regime, mediante applicazione analogica dell’art. 4, 8° comma, l. div.) .
La nuova previsione ha quindi indotto parte della dottrina a rafforzare il convincimento circa la non reclamabilità dell’ordinanza presidenziale, considerando la libera modificabilità e revocabilità come dato incompatibile (in aggiunta alle precedenti argomentazioni a sostegno della tesi negativa) con il reclamo ai sensi dell’art. 669-terdecies c.p.c., unico in allora astrattamente ipotizzabile . In questa direzione tale argomento negativo sarebbe risultato assorbente anche rispetto al dato (pure astrattamente orientato in direzione opposta) dell’introduzione di un sistema generale di misure cautelari di natura anticipatoria dotate del carattere di ultrattività, ma non per questo non reclamabili .
In senso contrario, è stato invece evidenziato come proprio la l. n. 80/2005 avrebbe determinato il venir meno delle ragioni antea volte a negare la reclamabilità dei provvedimenti presidenziali, sub specie delle loro caratteristiche di ufficiosità e ultrattività. Sotto il primo profilo, l’ordinamento contempla in effetti provvedimenti emanabili ex officio e pur tuttavia reclamabili ; mentre in relazione al carattere di ultrattività si è giustamente rimarcato che il rito societario, dapprima, e il nuovo regime dei provvedimenti cautelari, poi, hanno portato una decisa attenuazione del nesso di strumentalità necessaria rispetto al giudizio di merito per i provvedimenti aventi natura anticipatoria (senza che da questo ne possa conseguire la loro non reclamabilità) .
Nel dibattito tra le due contrapposte posizioni è intervenuta la l. 8 febbraio 2006, n. 54 , che, senza (almeno apparentemente) incidere sul «nuovo» regime di revoca/modifica da parte dell’istruttore, ha sciolto ogni possibile dubbio inserendo nella chiusa dell’art. 708 c.p.c. la previsione per cui «Contro i provvedimenti di cui al terzo comma» (id est, i provvedimenti presidenziali) «si può proporre reclamo con ricorso alla corte d’appello che si pronuncia in camera di consiglio. Il reclamo deve essere proposto nel termine perentorio di dieci giorni dalla notificazione del provvedimento» .
3. - La compresenza nel sistema dei due strumenti sopra evidenziati (reclamo e revoca) induce quindi a interrogarsi sul rispettivo ambito di applicazione.
Al riguardo, dal punto di vista della sistematica processuale, reclamo e revoca appaiono istituti – almeno astrattamente e a una prima lettura - diversamente finalizzati e connotati da specifiche differenze.
E così, dal punto di vista della funzione, mentre il reclamo di regola viene utilizzato alla stregua di (si licet) gravame in senso proprio nei confronti di determinate classi di provvedimenti e, in quanto tale, comporta la rinnovazione del giudizio, esplicando effetto anche sostitutivo del provvedimento impugnato, la revoca, pur non integrando nel sistema l’esercizio di un potere unitario , viene tradizionalmente e nelle sue linee essenziali impostata come strumento dalla funzione meramente caducatoria/eliminatoria . La nozione di revoca (nell’alveo della quale vengono peraltro accomunate fattispecie marcatamente differenti, in alcune delle quali l’organo giurisdizionale esplicita una sorta di mero ius poenitendi - sollecitato o meno dall’istanza di parte -, mentre in altre si trova a dare atto di elementi che innovano la situazione già disciplinata ) consiste in ogni caso nell’esercizio di un munus omogeneo per natura a quello esercitato dal giudice con il provvedimento del quale si intendono porre nel nulla gli effetti.
Relativamente alla incidenza, poi, il reclamo insta necessariamente avverso provvedimenti che, proprio perché intrinsecamente passibili di un immediato controllo, presentano una stabilità ancora ridotta. Esso integra un segmento/fase eventuale, che laddove esperito diviene tuttavia necessario per il completamento dell’iter formativo del giudizio. In questa prospettiva, il reclamo si indirizza contro provvedimenti potenzialmente (ma non ancora) definitivi e può pertanto definirsi motivo della stabilità ridotta del provvedimento e al contempo rimedio contro di essa .
Per contro, la revoca interessa di regola provvedimenti interinali comunque provvisori e come tali intrinsecamente inidonei alla definitività (così la revoca generale delle ordinanza ex art. 177 c.p.c. ), anche laddove dotati di funzione lato sensu decisoria o comunque tale da incidere su diritti (è il caso delle ordinanze anticipatorie di cui agli artt. 186-bis e 186-ter c.p.c. ), ovvero provvedimenti che hanno già completato il loro fisiologico excursus e si presentano pertanto come definitivi (v. l’art. 742 c.p.c.), indipendentemente dalla vexata quaestio di una loro possibile idoneità alla cosa giudicata, almeno di tipo formale .
Ancora, dal punto di vista dei termini, il reclamo in quanto mezzo di gravame è fisiologicamente assoggettato a un termine di proponibilità (eventualmente a doppio regime, vincolato o meno all’adempimento di una specifica conditio iuris), mentre la revoca si presenta tendenzialmente come rimedio esperibile senza limiti di tempo, per motivi non soltanto sopravvenuti ma – almeno secondo un orientamento – anche originari .
Infine, dal punto di vista dell’organo giudicante, la decisione sul reclamo di regola compete a un organo di grado superiore o quanto meno in una composizione più allargata (cfr. sempre l’art. 669-terdecies c.p.c.), mentre la revoca rimane appannaggio dello stesso giudice che ha pronunciato il provvedimento la cui efficacia si intende rimettere in discussione.
4. - Ad un esame più analitico, le differenze appena evidenziate tendono tuttavia ad assottigliarsi e confondersi e ciò anche a motivo dell’assenza di una disciplina unitaria e dell’utilizzo di rimedi dallo stesso nomen juris anche nei confronti di provvedimenti di differente natura.
In ogni caso, l’intervento giudiziale impone non soltanto per il reclamo ma anche per la revoca una comune modalità di estrinsecazione, per la quale l’organo giudicante è tenuto a motivare il suo eventuale dissenso dal provvedimento «a monte», sulla base di elementi che devono essere necessariamente esplicitati ; in questo senso, la stessa fisionomia della revoca viene a mutare, trasformandosi da mera «ritrattazione» ad atto maggiormente complesso, al quale si associa sempre più sovente il potere di modifica, che comporta di fatto la possibilità di sostituire il provvedimento nella sua interezza, mediante un nuovo regolamento e assetto di interessi.
Dal punto di vista dell’incidenza, la revoca/modifica si dirige anche verso provvedimenti sommari comunque passibili di divenire definitivi, sia pure in ipotesi eccezionali: si pensi alla ultrattività che connota i provvedimenti cautelari aventi carattere anticipatorio ovvero l’ordinanza presidenziale resa in separazione e divorzio, della quale in particolare ci si occupa. Proprio con riferimento a quest’ultima, poi anche dal punto di vista dell’organo giudicante, il potere di revoca e modifica viene attribuito all’istruttore, il quale costituisce (almeno in astratto e nelle intenzioni del legislatore), un soggetto diverso dal presidente.
In più, occorre tenere presente il connotato speciale dei provvedimenti resi nella separazione e nel divorzio, dotati di una stabilità non tanto attenuata quanto diversa , anche laddove assistiti dal giudicato. La clausola rebus sic stantibus che ne informa il relativo regime implica in effetti che la revoca/modifica divenga strumento di riesame tipico, da esercitarsi anche successivamente alla formazione della reiudicata, pur se di regola unicamente al ricorrere di mutamenti nelle circostanze .
Questo essendo il complessivo (e disorganico) quadro normativo, l’intervento legislativo che ha interessato il potere di revoca/modifica dei provvedimenti presidenziali, rendendolo «libero» e non più condizionato al verificarsi di mutamenti nelle circostanze, induce a riflettere circa il significato dell’introdotto reclamo.
5. - A questo proposito, deve ritenersi che il riconoscimento espresso del nuovo strumento abbia inteso rispondere all’esigenza di garantire il diritto di impugnazione nei confronti di un provvedimento (l’ordinanza presidenziale) che, pur emesso a cognizione sommaria e per sua natura non definitivo , interviene nel conflitto familiare regolamentando aspetti personalissimi e incidendo direttamente sui diritti e sulle situazioni sostanziali delle parti, con immediata efficacia, anche esecutiva .
In altri termini, la particolarità strutturale e l’indiscussa valenza dell’ordinanza presidenziale hanno suggerito l’adozione di un controllo immediato da parte di un organo giudiziario (la corte d’appello) dotato di particolare auctoritas e più radicata esperienza, e con una competenza per territorio più estesa, così da assicurare al contempo una maggiore uniformità di trattamento quanto meno all’interno dei singoli distretti . In questo senso, la riforma ha voluto assicurare una forma di controllo ritenuta indispensabile nel sistema di garanzie costituzionali proprie del «giusto processo», segnatamente alla luce del riformato art. 111 Cost. e dei canoni dallo stesso evidenziati.
Non possono peraltro non evidenziarsi gli inconvenienti pratici di tale scelta, dalla quale deriva una dilatazione del contenzioso endoprocessuale, in un momento del giudizio nel quale la conflittualità è di regola ai massimi livelli (ciò che rappresenta un danno per le parti e soprattutto per i minori coinvolti nel dissidio familiare) , nonché, ulteriormente, a motivo del connesso appesantimento dei ruoli delle corti d’appello, delle ulteriori difficoltà di ordine burocratico e, più in generale, degli oneri processuali aggiuntivi .
Anche da un punto di vista sistematico, la formulazione non felice della norma ha sollevato diversi interrogativi di non poco momento.
Così, in primo luogo, e per quanto concerne la natura da attribuire al reclamo in oggetto, se da un lato il mezzo prescelto dal legislatore presenta alcune similitudini rispetto al reclamo cautelare ex art. 669-terdecies c.p.c., il cui ambito di applicazione si estende oltre tutto anche a provvedimenti non qualificabili stricto sensu come cautelari (come ad es. i provvedimenti possessori), in senso contrario le peculiari caratteristiche dell’ordinanza presidenziale e la sua natura sui generis, unite al fatto che la nuova disciplina non ricalca quella dell’art. 669-terdecies c.p.c. (in primis sotto il profilo della competenza e dei termini) inducono piuttosto a negare una sua pretesa assimilazione al reclamo cautelare .
Né riterrei del tutto corretta la sussunzione nell’ambito del reclamo camerale di cui all’art. 739 c.p.c. . A prescindere infatti dalle analogie di regime positivo, osta a tale equiparazione la considerazione che, come già precisato, il reclamo in oggetto si inserisce su provvedimenti intrinsecamente provvisori (salva l’ipotesi, peraltro eccezionale, dell’ultrattività prevista in caso di estinzione del giudizio), mentre il reclamo camerale rappresenta un segmento di un procedimento unico, chiamato a incidere su un provvedimento che, in sua assenza, è idoneo a definire il procedimento.
Deve quindi ritenersi che il rimedio prescelto dal legislatore costituisca dal punto di vista sistematico una nuova figura, specifica e autonoma forma di controllo per i provvedimenti resi nella separazione e nel divorzio .
Quanto poi alla possibilità di sindacato, malgrado la prospettazione di una lettura restrittiva che escluderebbe la riproposizione delle questioni già esaminate dal presidente e riserverebbe al giudice del reclamo i soli profili di erronea interpretazione e applicazione delle norme di diritto ovvero manifesta incongruenza del provvedimento impugnato , pare difficile negare alla corte d’appello un generale potere di rivisitazione dell’ordinanza , che entrambe le parti sono legittimate a sollecitare , nella misura beninteso in cui l’illegittimità o erroneità nel merito del provvedimento si sia tradotta in una soccombenza (totale o parziale) in capo ad una di esse.
6. - Il nuovo regime normativo ha peraltro evidenziato le più marcate aporie in relazione alla duplice tipologia di «controllo» avverso l’ordinanza presidenziale oggi prevista dalla legge (sub specie dei due differenti istituti del reclamo avanti alla corte d’appello e della revoca/modifica da parte del giudice istruttore). Il «doppio binario» di fatto introdotto necessita invero un coordinamento che i legislatore non ha esplicitato.
In proposito, il primo e più generale quesito consiste nell’individuare quali siano i rapporti (e le rispettive interferenze) tra il potere di reclamo e il potere di revoca/modifica da parte dell’istruttore, sotto il profilo dei presupposti e delle condizioni di proponibilità dei due rimedi. Non può infatti ipotizzarsi che sia stata attribuita a due distinti strumenti un’identica funzione di controllo (ed eventuale sostituzione), senza alcun coordinamento tra di essi.
Detto raccordo non può peraltro ritenersi fondato su un rigido rapporto gerarchico, ovvero di prevalenza/precedenza tra gli stessi, come è stato ad esempio ritenuto da una giurisprudenza di merito, che ha attribuito una sorta di «corsia preferenziale» al reclamo e individuato nella consumazione del relativo potere di proposizione la condizione di esperibilità della richiesta di revoca/modifica .
In questa prospettiva, si è affermato che fino a quando il reclamo non sia stato proposto (e laddove lo stesso sia ancora astrattamente esperibile), non potrebbe essere formulata all’istruttore istanza per la revoca/modifica, poiché quest’ultima presupporrebbe la definitiva consumazione del potere di reclamo. La logica del sistema sarebbe quella di una alternatività tra i due rimedi, ma anche di una prevalenza del reclamo, divenendo pertanto necessario conoscere se la parte intenda o meno servirsi previamente di tale strumento. Così ragionando, si è ritenuto che la notifica dell’ordinanza presidenziale (alla quale l’art. 708, 4° co., c.p.c. ancora il termine per la proposizione del reclamo) rappresenterebbe una condizione di procedibilità del potere di revoca/modifica da parte dell’istruttore, in assenza della quale quest’ultimo non potrebbe essere validamente esercitato .
La tesi in esame pecca tuttavia di eccesso: non appare invero neppure immediata la funzione della notifica dell’ordinanza presidenziale ai fini dell’esperibilità del reclamo in corte d’appello (segnatamente al fine di comprendere se la stessa valga unicamente ai fini della decorrenza del termine di impugnazione, ovvero rappresenti una specifica conditio iuris per lo stesso reclamo). In proposito, anzi, considerare la notifica dell’ordinanza come condizione per la proponibilità stessa del reclamo di fatto costringerebbe la parte soccombente a un adempimento – la notifica - che essa non ha per altri profili alcun interesse a compiere. Per questo motivo, deve più verosimilmente ritenersi che la notifica abbia unicamente lo scopo di «provocare» l’impugnazione e accelerare la formazione della stabilità del provvedimento e sarà dunque di regola la parte vittoriosa a porla in essere, ai fini della decorrenza del termine breve (non diversamente del resto rispetto a quanto avviene per tutte le impugnazioni). Così ragionando, tuttavia, non si può escludere che, in sua mancanza, il reclamo possa essere proposto anche successivamente, e la soluzione ragionevole appare quella di consentire la proposizione di tale mezzo entro il consueto termine annuale (decorrente dalla pronuncia dell’ordinanza presidenziale, se avvenuta in udienza, o dalla comunicazione alle parti, se avvenuta ad esito di scioglimento di riserva assunta all’udienza) .
Se questa è, dunque, la soluzione che pare maggiormente condivisibile ai fini dell’esperibilità del reclamo, risulta ancora più arduo ritenere che la notifica si ponga come specifica condizione di ammissibilità o proponibilità del potere di revoca/modifica da parte dell’istruttore.
Del resto, l’individuazione di una scala gerarchica tra i rimedi in esame non rappresenta certamente l’unica lettura possibile del dato normativo, atteso oltre tutto che nessuna disposizione consente di organizzare il raccordo tra i due istituti secondo un criterio di prevalenza del primo (reclamo) sul secondo (revoca/modifica).
Inoltre, proprio l’intervenuta «mutazione genetica» del potere di revoca/modifica suggerisce di reperire un coordinamento tra i due strumenti attualmente a disposizione che non soltanto risponda alla logica e alle esigenze delle parti, ma si dimostri coerente dal punto di vista sistematico complessivamente considerato.
Al riguardo, la costruzione dei rapporti tra i due rimedi secondo una logica di rigida alternatività/esclusione, ovvero di precedenza/prevalenza ha maggiore significato e viene tradizionalmente proposta laddove gli stessi abbiano differente ambito di estrinsecazione (ad esempio il reclamo consenta la spendita di vizi tanto di merito quanto di legittimità propri del provvedimento, mentre la revoca/modifica investa unicamente profili di merito, con allegazione di nova, o al limite di situazioni anche preesistenti, ma non previamente conosciute) .
Con riferimento all’ordinanza presidenziale, invece, il dato per il quale il potere di revoca/modifica attribuito all’istruttore sia stato modificato e costruito in termini di maggiore ampiezza, non più veicolato e limitato dal necessario rispetto della clausola rebus sic stantibus ma liberamente esercitabile, finanche per una semplice rivisitazione delle ragioni che hanno determinato il provvedimento, pare condurre proprio verso una soluzione più «aperta».
Se questa è la prospettiva, deve ritenersi che il raccordo tra i due strumenti non presupponga alcuna gerarchia o prevalenza, ma consista nel loro concorso alternativo, liberamente esercitabile dalla parte in dipendenza delle circostanze proprie del caso di specie e soprattutto tenuto conto che il provvedimento emanato ad esito dell’iniziativa prescelta potrebbe essere dotato di un differente grado di stabilità nel successivo corso del giudizio .
Ad analoga soluzione si perviene del resto nel settore per alcuni aspetti «confinante» del procedimento cautelare uniforme, pure significativamente inciso dalle riforme del 2005. In quest’ambito, invero, deve ritenersi che il reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., laddove concretamente instaurato, costituisca la sede naturale e necessaria per la verifica della sussistenza o meno dei presupposti della misura cautelare (e abbia pertanto non già una funzione meramente di controllo, legittimante unicamente una revisio prioris instantiae, ma il più pregnante significato di strumento integralmente devolutivo e sostitutivo , consentendo altresì l’esame di eventuali circostanze sopravvenute ), ma per converso lo strumento della revoca ex art. 669-decies c.p.c. (pure limitato alla deduzione di nova o di «fatti anteriori di cui si è acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare») possa essere fatto valere in tutte le ipotesi in cui il reclamo non sia stato proposto e addirittura anche in pendenza dei termini per la sua proposizione .
Né riterrei idonea a modificare tale conclusione la considerazione avanzata da autorevole dottrina, per la quale tra lo strumento del reclamo e quello della revoca intercorrerebbe una differenza, attesa la veste unicamente per il secondo istituto di esercizio di poteri ufficiosi, che porterebbe a un’espansione di quest’ultimo rimedio . Riterrei, invero, che per quanto concerne la possibilità di una pronuncia anche difforme da quanto richiesto, entrambi gli istituti (reclamo e revoca) partecipino del carattere tipico dell’intervento giudiziale in separazione e divorzio, e possano quindi, negli stessi ambiti e segnatamente in relazione ai profili inerenti la prole minore, svincolarsi dalle formali domande delle parti ; quanto invece all’estrinsecazione del principio della domanda, riterrei maggiormente opportuno non svincolare neppure l’istituto della revoca da una sollecitazione delle parti, e ciò sul presupposto che la revoca in esame non si dirige nei confronti di mere ordinanze istruttorie o procedimentali, quanto piuttosto su provvedimenti che incidono su diritti e posizioni sostanziali, ciò che suggerisce l’adozione di una lettura restrittiva almeno sul piano formale . Diversamente operando, il giudice istruttore finirebbe con l’essere dotato di un potere quasi incondizionato, in contrasto con le esigenze e finalità della materia.
Per tutte queste ragioni, deve ritenersi che la parte sia inizialmente libera circa la scelta del mezzo concretamente utilizzabile, nella consapevolezza, tuttavia, come è stato correttamente sottolineato in un’altra decisione giurisprudenziale, che electa una via non datur recursus ad alteram, e nella conseguente applicazione della regola della prevenzione . In effetti, passando dal piano astratto delle tutele offerte a quello concreto della scelta del rimedio, non sarebbe coerente ipotizzare che due strumenti concorrenti sollecitino autorità giudiziarie diverse a pronunciarsi simultaneamente (o anche soltanto in sequenza successiva) su una medesima istanza statuendo su un thema decidendum reso identico non soltanto dal provvedimento impugnato ma altresì dai motivi di contestazione. Diversamente, anche a tacere della evidente contrarietà al principio di economia processuale, elevato sarebbe il rischio di pronunce contraddittorie e finanche incompatibili .
7. - Un ulteriore problema consiste nel verificare se, una volta esperito il reclamo e conclusosi lo stesso con un provvedimento di accoglimento della corte d’appello, il giudice istruttore detenga ancora il potere di intervenire sui provvedimenti provvisori e urgenti, così come riformati.
Anche a questo riguardo, nel silenzio legislativo le tesi astrattamente prospettabili sono molteplici.
Secondo una prima (e radicale) interpretazione, si potrebbe negare all’istruttore il potere di modifica/revoca nei confronti del provvedimento emesso dalla corte d’appello in sede di reclamo. Questa lettura viene argomentata sulla base della lettera dell’art. 709, 4° co., c.p.c., che ricollega il potere di revoca/modifica ai soli «provvedimenti temporanei ed urgenti assunti dal presidente con l’ordinanza di cui al terzo comma dell’articolo 708») nonché, da un punto di vista sistematico, facendo leva sul principio di portata tendenzialmente generale in base al quale ai giudici di grado inferiore non competerebbe il potere di incidere sui provvedimenti emanati da un giudice di grado superiore.
Entrambi gli argomenti non si dimostrano, per verità, a perfetta tenuta. Ed invero, se per quanto riguarda il testo dell’art. 709, 4° comma (norma che è stata oltre tutto coniata quando ancora il reclamo non era stato introdotto nel sistema) esso può anche considerarsi come contenente un richiamo «aperto» e con esso un rinvio per relationem anche ai provvedimenti comunque sostitutivi dell’ordinanza presidenziale (attesa la sostanziale omogeneità del grado di incidenza sulle situazioni sostanziali), dal punto di vista della gerarchia tra gli uffici giudiziari non può essere revocato in dubbio come proprio nelle fattispecie in esame quanto meno il tribunale, in sede di decisione finale, abbia sicuramente il potere di intervenire nei confronti dell’ordinanza presidenziale, anche laddove la stessa sia stata modificata in sede di reclamo (il che sostanzialmente toglie valore all’argomento sopra illustrato) .
In una diversa - ma altrettanto radicale - prospettiva, potrebbe invece ritenersi che la possibilità di modifica, integrazione o revoca da parte del giudice istruttore permanga inalterata anche nei confronti del provvedimento emesso dalla corte d’appello in sede di reclamo.
Questa tesi, tuttavia, che pure comporta una forzatura del dato letterale (pur non probante, come sopra precisato, né in un senso né nell’altro), non pare condivisibile per ragioni di ordine sistematico, di fatto frustrando contra ius la funzione del reclamo. Non si potrebbe invero escludere che nel corso del giudizio la disciplina impartita dalla corte d’appello possa di fatto essere vanificata ad esito di una «semplice» differente lettura e interpretazione da parte dell’istruttore (per tacere, poi, dei casi in cui il presidente assegni la causa a sé in funzione di istruttore, nei quali egli potrebbe ritenersi agevolmente abilitato a ripristinare la sua primigenia ordinanza, revocando il provvedimento della corte).
Se dunque non si ritiene opportuno attribuire all’istruttore un potere di revoca/modifica «libero» e incondizionato, non può peraltro neppure farsi a meno di considerare che la disciplina impartita tramite i provvedimenti provvisori della separazione e del divorzio (non solo se emessi dal presidente, ma anche laddove in ipotesi riformati dalla corte d’appello) è comunque sempre temporanea e rispondente a un assetto di interessi dei componenti del nucleo familiare intrinsecamente variabile e tale da subire fisiologicamente alterazioni o variazioni nel corso del giudizio.
Questo essendo lo stato dell’arte, occorre sottolineare ancora come la regola generale sopra individuata del concorso alternativo subisca naturalmente un temperamento nella misura in cui la valenza esclusiva di uno dei due rimedi sull’altro non ha valore assoluto, ma una tenuta limitata ai motivi concretamente spesi con il rimedio in prima linea prescelto.
Per questi motivi, una lettura costituzionalmente orientata induce a scegliere come soluzione maggiormente appagante quella volta ad autorizzare la revoca e modifica da parte dell’istruttore anche del provvedimento emanato dalla corte d’appello in sede di reclamo, subordinandola tuttavia alla presenza di nuove circostanze, ritenendo che il potere revocatorio generale e incondizionato previsto dal nuovo art. 709, 4° comma, c.p.c. si sia ormai consumato per effetto della pronuncia in sede di reclamo da parte di un giudice superiore, ma sopravviva un più limitato potere di modifica/revoca, in ossequio alla clausola rebus sic stantibus implicitamente sottesa a tutti i provvedimenti in esame, anche laddove emanati dalla corte d’appello .
La soluzione così tratteggiata esprime una regola di «salvezza» e con essa un principio di ammissibilità del rimedio della revoca non previamente esercitato, su motivi, fatti e circostanze differenti da quelli posti a sostegno del reclamo, consentendo di armonizzare le esigenze di tutela giurisdizionale delle parti con le indicazioni di tecnica processuale, che un legislatore più accorto avrebbe tuttavia forse dovuto esplicitare con maggiore precisione.
8. - La nuova normativa ha lasciato infine irrisolta un’ulteriore questione, inducendo a interrogarsi se la formula dell’art. 708, 4° comma, c.p.c. debba essere intesa letteralmente e in senso restrittivo (limitando dunque la reclamabilità alla sola ordinanza pronunciata dal presidente del tribunale), ovvero in una prospettiva più ampia, tale da estendere il nuovo regime di impugnazione anche ai provvedimenti con i quali il giudice istruttore revochi o modifichi, nel corso del giudizio, la pronuncia del presidente.
Anche in merito a tale aspetto si è già registrato un panorama estremamente variegato in dottrina e in giurisprudenza.
Secondo una prima ricostruzione, la lettera della legge indurrebbe ad escludere in radice la reclamabilità dei provvedimenti di revoca/modifica emanati dal giudice istruttore. Il dato letterale sarebbe, secondo questa impostazione, suffragato dalla non totale coincidenza tra la funzione del presidente del tribunale (e la sua cognizione) e le rispettive attribuzioni del giudice istruttore , anche se occorre comprendere se tali pretese differenze realmente giustifichino una differente soluzione alla luce dei valori costituzionali sottesi. Ciò non potrebbe avvenire sulla base della incidenza sulle situazioni sostanziali protette, atteso che, in relazione a detto profilo, i provvedimenti presidenziali e quelli istruttori di revoca/modifica incidono analogamente (rectius, identicamente). Quanto al regime, si potrebbe sostenere che i provvedimenti presidenziali vengono assunti a seguito di una cognizione necessariamente superficiale e sommaria; mentre l’istruttore ben può svolgere attività istruttoria e tenere conto pertanto dei risultati di essa ; ma anche tale pretesa diversità non ha una compiuta ragion d’essere, atteso che le esigenze di immediatezza talvolta sono identiche anche in relazione alle richieste avanzate all’istruttore, e d’altro lato che l’opinione dominante e la prassi costantemente riconoscono al presidente il potere di assumere, ove necessario od opportuno, mezzi istruttori finalizzati all’adozione dei provvedimenti di sua competenza.
Un’ulteriore tesi potrebbe consistere nel negare de iure condito la possibilità del reclamo, ma considerare al contempo il dato normativo come passibile di censura per contrarietà al dettato costituzionale, per violazione del principio di uguaglianza, del diritto di difesa e delle garanzie naturali del giusto processo: in questa prospettiva, la funzione di garanzia propria del reclamo dovrebbe essere ripristinata da un intervento correttivo del Giudice delle Leggi, che pure non risulta ancora essere stato investito della questione.
Proprio per ovviare al difetto dell’impostazione radicale e negativa, larga parte della dottrina e della giurisprudenza si è quindi interrogata circa la possibile individuazione di uno strumento di controllo anche avverso alle ordinanze istruttorie. In questa prospettiva, una soluzione è rappresentata dall’utilizzo non già del reclamo di cui all’art. 708, 4° comma, c.p.c. previsto per la sola ordinanza presidenziale, bensì del reclamo cautelare uniforme di cui all’art. 669-terdecies c.p.c. . Quest’ultima impostazione è stata suggerita sostenendo che il reclamo ex art. 708, 4° comma c.p.c. rappresenti una figura speciale, non suscettibile di applicazione analogica ad ulteriori provvedimenti, e negando così la sua estensione avverso le ordinanze emanate dall’istruttore. Al contempo, tuttavia, l’esigenza di evitare una ingiustificata e irrazionale disparità di trattamento avrebbe reso necessaria un’adeguata forma di controllo anche avverso i provvedimenti dell’istruttore, suggerendo l’applicazione del reclamo cautelare uniforme, siccome istituto di carattere generale.
La tesi in esame, che pure intende far fronte a un’esigenza effettivamente incontestabile (evitare illegittime disparità nelle forme di controllo accordate dalla legge nei confronti di provvedimenti dotati di omogeneità funzionale e tali da incidere sulle medesime situazioni sostanziali), non appare peraltro ad avviso di chi scrive realmente necessitata e anzi si dimostra non rispondente al sistema.
Come già evidenziato, invero, il reclamo introdotto dall’art. 708, 4° comma, c.p.c., pur presentando alcune caratteristiche similari rispetto al reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., ha una natura e una disciplina sui generis, funzionalmente correlate alle speciali caratteristiche dell’ordinanza presidenziale. Né i provvedimenti di modifica/revoca da parte dell’istruttore possono analogamente essere inquadrati in termini di esercizio di un potere stricto sensu cautelare . Per questo motivo, il tentativo di colmare la (apparente) lacuna legislativa mediante il richiamo alle norme del procedimento cautelare uniforme non appare la via interpretativa più corretta per risolvere il problema in esame.
L’impostazione da seguire pare quindi piuttosto un’altra e parte dalla considerazione che il processo di separazione e divorzio, malgrado la formale bipartizione delle fonti tuttora esistente, deve ormai essere considerato un modello processuale unitario, atto a disciplinare le differenti ipotesi di crisi della famiglia. La conferma di questa tesi deriva non soltanto dalle nuove norme sulla separazione e sul divorzio, che, ove raffrontate, denotano una trama complessiva del procedimento unica, in entrambi i casi parimenti basata sui medesimi «punti cardinali», ma soprattutto dall’omogeneità delle situazioni sostanziali coinvolte nei due giudizi. E l’adozione di un modello processuale omologo risulta anche dalla legge sull’affidamento condiviso, che nell’introdurre una serie di disposizioni processuali di rilevante portata (non soltanto il reclamo di cui si discute, ma altresì sui poteri del giudice), chiarisce come le stesse siano funzionali alla tutela delle medesime situazioni sostanziali e debbano identicamente estrinsecarsi nella separazione e nel divorzio.
In questa prospettiva, deve ritenersi che il reclamo ex art. 708, 4° comma, c.p.c. non rappresenti (beninteso nell’ambito della separazione e del divorzio) una figura eccezionale, bensì piuttosto una forma di controllo che il legislatore ha voluto introdurre come «nuovo» rimedio per sopperire a un’antica esigenza, tipizzando la relativa figura nell’ambito dei giudizi in esame.
Così ragionando, il riferimento contenuto nella norma di legge va inteso come rinvio aperto, non limitato ai soli provvedimenti del presidente, bensì esteso per ragioni «di simmetria e di razionalità» ai provvedimenti del giudice istruttore che intervengano sulla disciplina provvisoria, in senso modificativo o integrativo, e che hanno analogo impatto sulle medesime situazioni sostanziali. Ciò tanto più oggi che il potere di modifica/revoca attribuito all’istruttore si presenta dotato di un notevole grado di ampiezza, non più limitato al necessario rispetto della clausola rebus sic stantibus.
In altri termini, il riconoscimento legislativo del reclamo rappresenta dal punto di vista sistematico una conquista, finalmente sintonica con il sistema di garanzie costituzionali offerte dall’ordinamento (particolarmente alla luce del riformato art. 111 Cost.) e con l’esigenza di assicurare il diritto di impugnazione contro tutti i provvedimenti (anche sommari) dotati di efficacia su diritti e direttamente incidenti su di essi. Questa funzione può tuttavia essere correttamente realizzata soltanto assicurando il suo utilizzo anche avverso i provvedimenti del giudice istruttore, dotati sul piano delle situazioni sostanziali coinvolte del medesimo grado di incidenza rispetto a quelli del presidente .
Da ultimo, l’utilizzo di un unico strumento per tutti i provvedimenti provvisori emanati nei giudizi di separazione e divorzio appare maggiormente funzionale anche sul piano della certezza del diritto (evitando di dover ricorrere a differenti regimi), nonché su quello della terzietà e imparzialità del giudice, poiché lo strumento dell’art. 669-terdecies c.p.c., pur nella necessaria esclusione dal collegio del giudice che ha emanato il provvedimento impugnato, potrebbe ingenerare problemi sia nelle ipotesi in cui il presidente mantenga anche il ruolo di istruttore nel giudizio a quo (e sia così impedito di partecipare al collegio), sia, più in generale, a motivo del minor grado di distacco «emotivo» che i giudici solitamente presentano all’interno di uno stesso organo giudiziario; motivo questo che, non a caso, ha indotto il legislatore ad attribuire la competenza del reclamo in esame alla corte d’appello .
9. - In definitiva, quindi, il raccordo tra gli strumenti di controllo avverso l’ordinanza presidenziale pare oggi impostato nei seguenti termini:
a – il reclamo avanti alla corte d’appello può essere proposto nel termine di dieci giorni dalla notifica dell’ordinanza presidenziale, ovvero, in mancanza della notificazione, entro un anno dalla pronuncia (o dalla comunicazione, se il provvedimento sia emanato fuori udienza);
b – qualora il reclamo non sia stato esperito, può essere richiesta all’istruttore la revoca/modifica del provvedimento, non necessariamente fondando la relativa istanza sulla deduzione di circostanze sopravvenute, ma potenzialmente anche su profili di legittimità o di merito. Non pare possibile, in effetti, evincere dalle norme un preteso effetto preclusivo alla mancata proposizione del reclamo, effetto che condizionerebbe il generale potere di revoca/modifica da parte dell’istruttore, riconducendolo nuovamente alla sola deduzione di fatti o circostanze sopravvenute. Osta a tale riguardo la considerazione che il reclamo si presenta come strumento soltanto eventuale, alla cui mancata proposizione non possono pertanto ricondursi effetti preclusivi;
c - nell’ipotesi in cui il reclamo sia stato invece concretamente esperito, in pendenza dello stesso non riterrei opportuno consentire la proposizione della revoca/modifica, essendo la sede del reclamo perfettamente idonea a fare valere qualunque circostanza, anche sopravvenuta, tale da incidere sull’assetto dei provvedimenti presidenziali ;
d - analogamente, nell’ipotesi in cui il reclamo sia stato anche deciso dalla corte d’appello, è ancora ipotizzabile la revoca/modifica del provvedimento emesso dalla corte da parte del giudice istruttore, ma questa volta previa necessaria allegazione e riscontro di nuovi elementi di fatto o diritto. Rimane per converso libera la integrazione da parte dell’istruttore dei provvedimenti presidenziali (anche ad esito del reclamo), mediante disciplina di temi e aspetti in precedenza non trattati e decisi;
e – infine, il reclamo ex art. 708, 4° comma, c.p.c. deve ritenersi ammissibile anche avverso alle ordinanze con le quali il giudice istruttore comunque incida sui provvedimenti provvisori nell’interesse dei coniugi e della prole.
Così operando è dato reperire un effettivo contemperamento tra le differenti istanze sottese alla materia in esame, rinvenendo un punto di equilibrio tra i dati – non sempre coerenti – forniti dal legislatore e l’insopprimibile valore delle esigenze di tutela concretamente spettanti alle parti e ai minori coinvolti nel giudizio.
Filippo Danovi
Professore straordinario
nell’Università degli Studi di Milano-Bicocca
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