Questioni varie in tema di impugnazione Francesco P. Luiso
QUESTIONI VARIE IN TEMA DI IMPUGNAZIONE
DEI PROVVEDIMENTI DI SEPARAZIONE E DIVORZIO
SOMMARIO: 1. Premessa; 2. Presupposti e contenuto della sentenza non definitiva di separazione e divorzio; 3. L’impugnazione della sentenza non definitiva di separazione e divorzio; 4. Il potere di impugnazione del P.M.; 5. La legittimazione ad impugnare e la formazione del giudicato.
§ 1. Nel programma dell’incontro, la sessione, alla quale sono stato chiamato a dare il mio contributo, è significativamente intitolata all’appello camerale. E non c’è dubbio che i problemi più rilevanti, in materia di impugnazione dei provvedimenti di separazione e divorzio, sono creati appunto dalla previsione – più netta per il processo di divorzio (art. 4, comma 15, L. 898/1970), più sfumata per il processo di separazione (art. 709-bis c.p.c.) – relativa alle modalità di proposizione, svolgimento e decisione del processo di appello. Ma l’argomento, proprio perché centrale, sarà ampiamente trattato nelle altre due relazioni che compongono questa sessione: per cui ho ritenuto opportuno concentrare il mio intervento su altri problemi, che si presentano in materia di impugnazione delle sentenze pronunciate nei procedimenti di separazione e divorzio.
Un’indagine giurisprudenziale concentrata sulle pronunce edite negli ultimi venticinque anni indica alcune questioni specifiche in tema di impugnazione delle sentenze di separazione e di divorzio, che è opportuno affrontare, quantomeno per fare il punto su di esse anche alla luce delle recenti riforme: si tratta, in primo luogo, della c.d. sentenza non definitiva di separazione e divorzio; in secondo luogo, del potere di impugnazione del P.M.; e, infine, della legittimazione ad impugnare delle parti e del correlato fenomeno del passaggio in giudicato delle relative sentenze.
§ 2. Iniziando dalla prima questione, gli elementi normativi sono offerti dall’art. 4, comma 12 della L. 1° dicembre 1970 n. 898 e dall’art. 709-bis c.p.c. Quest’ultima norma prevede che, “nel caso in cui il processo debba continuare per la richiesta di addebito, per l’affidamento dei figli o per le questioni economiche, il tribunale emette sentenza non definitiva relativa alla separazione. Avverso tale sentenza è ammesso soltanto appello immediato che è deciso in camera di consiglio”. L’altra norma, invece, in modo più sintetico afferma che, “nel caso in cui il processo debba continuare per la determinazione dell’assegno, il tribunale emette sentenza non definitiva relativa allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio. Avverso tale sentenza è ammesso solo appello immediato”.
Il primo presupposto per la pronuncia della sentenza non definitiva di separazione e divorzio è dunque costituito da un processo cumulato, cioè nel quale vi sono più oggetti di decisione, il che di solito è la conseguenza della avvenuta proposizione di più domande. È chiaro, infatti, che se l’unico oggetto del processo è costituito dalla domanda di separazione o di divorzio, l’unica pronuncia possibile è appunto quella che accoglie o rigetta l’unica domanda proposta, e che dunque è necessariamente una sentenza definitiva. Nel caso di specie, poi, occorre tener conto del fatto che le pronunce relative ai figli minori debbono essere prese dal giudice ex officio, e quindi anche se non vi è non dico la domanda, ma neppure la sollecitazione di uno dei coniugi. Dunque, in materia di separazione e divorzio, ben vi può essere un processo cumulato pur in assenza di una pluralità di domande.
La novellazione dell’art. 709-bis c.p.c. ha definitivamente chiarito che quella di addebito costituisce una autonoma domanda nell’ambito del processo di separazione, e non costituisce invece il profilo interno di un’unica domanda. La questione era già stata risolta nello stesso senso dalla giurisprudenza della Cassazione , mentre in precedenza si riteneva prevalentemente che la decisione sulla richiesta di addebito non potesse essere separata dalla sentenza sulla separazione. Pertanto, ove la sentenza di separazione sia impugnata limitatamente al solo addebito, si verifica il passaggio in giudicato della pronuncia di separazione .
Nonostante che l’art. 4, comma 12 della L. 898/1970 – pur esso modificato, come l’art. 709-bis c.p.c., dalle riforme del 2006 – continui a riportare la precedente restrittiva dizione, che fa riferimento unicamente alla determinazione dell’assegno, si deve ritenere che anche nel processo divorzile la situazione non sia diversa da quella del processo di separazione, e che dunque il cumulo, in presenza del quale si ha la pronuncia della sentenza non definitiva di divorzio, può verificarsi in presenza di qualunque altra situazione, nella quale il giudice sia chiamato a pronunciarsi su più oggetti processuali, e dunque non soltanto sulla determinazione dell’assegno.
Una volta che si sia in presenza di un processo cumulato, si realizza il presupposto minimo oggettivo per la pronuncia della sentenza non definitiva di separazione o di divorzio. La fattispecie è quella stessa prevista dall’art. 277, comma 2, c.p.c., dalla quale peraltro differisce in quanto la norma generale, per la pronuncia separata su una o alcune delle più domande proposte, richiede l’istanza di parte e la verifica, da parte del giudice, della esistenza di un apprezzabile interesse della parte richiedente per la sollecita definizione di alcune soltanto della domande cumulate. Nel nostro caso, invece, la sussistenza di tale interesse non è oggetto di valutazione da parte del giudice, in quanto sia l’art. 709-bis c.p.c. sia l’art. 4, comma 12 della L. 898/1970 lo danno per esistente ope legis: rectius, non subordinano la pronuncia della sentenza non definitiva alla esistenza di un tale interesse, ed alla sua verifica da parte del giudice.
Inoltre, mentre l’art. 279, comma 2, c.p.c. richiede una istanza di parte, gli artt. 709-bis c.p.c. e 4, comma 12 della L. 898/1970 non ne fanno menzione: dunque, la sentenza non definitiva deve essere pronunciata anche se nessuna delle parti la richiede espressamente .
Come nell’ipotesi prevista dagli artt. 277, comma 2, c.p.c. e 279, comma 2, nn. 4 e 5 c.p.c., è peraltro necessario che la domanda di separazione o divorzio sia matura per essere decisa: è evidente, infatti, che se per essa si rendesse necessario lo svolgimento di attività istruttoria, il collegio, al quale la causa fosse rimessa dal giudice istruttore, non potrebbe pronunciare una sentenza, ma dovrebbe pronunciare l’ordinanza prevista dall’art. 279, comma 1, c.p.c.
Quanto sopra esposto mostra chiaramente che – al di là della terminologia utilizzata sia dall’art. 709-bis c.p.c. sia dall’art. 4, comma 12 della L. 898/1970 – la sentenza <> di separazione e divorzio non ha niente a che vedere con la sentenza <> di cui all’art. 279, comma 2, n. 4 c.p.c. La pronuncia di separazione e divorzio definisce uno dei più oggetti del processo, mentre la sentenza non definitiva si limita a decidere di una delle più questioni, di rito o di merito, rilevanti all’interno di un unico oggetto. E, dunque, mentre l’immediata impugnazione di quest’ultima devolve al giudice dell’appello lo stesso oggetto che rimane pendente innanzi al giudice che ha pronunciato la sentenza appellata (rimanendo diversificata solo la rispettiva cognizione: in sede di appello la questione, oggetto della non definitiva; in primo grado, tutte le altre questioni ad eccezione di quella oggetto della non definitiva), nel nostro caso l’immediata impugnazione della sentenza devolve al giudice di appello un ambito di decisione rispetto al quale il potere del giudice di primo grado è oramai interamente esaurito. Con la conseguenza che, come vedremo, la sentenza di appello potrà esplicare efficacia sul processo di primo grado, eventualmente ancora in corso sugli altri oggetti, ai sensi dell’art. 336, comma 2, c.p.c.
Ancora: come abbiamo distinto la sentenza non definitiva di separazione e divorzio dalla sentenza non definitiva di cui all’art. 279, comma 2, n. 4 c.p.c., così dobbiamo distinguerla dalla sentenza di cui all’art. 279, comma 2, n. 5 c.p.c. Quest’ultima fattispecie è caratterizzata dalla separazione delle più cause cumulate: quella o quelle decise e quella o quelle rimaste da decidere, infatti, in virtù del provvedimento di separazione seguono, da quel momento in poi, strade diverse. La pronuncia della sentenza non definitiva di separazione o divorzio, invece, non produce una scissione del cumulo, che resta tale anche se uno dei suoi molteplici oggetti si trova pendente innanzi al giudice dell’impugnazione. Del resto, una separazione fra la causa di separazione o divorzio e le altre cause ad essa cumulate non sarebbe neppure pensabile, poiché fra di esse intercorre una connessione per pregiudizialità, e ben si sa che in presenza di una tale connessione lo scioglimento del cumulo processuale non è ammissibile.
Resta confermato, dunque, che la sentenza non definitiva di separazione e divorzio è perfettamente equiparabile alla sentenza parzialmente definitiva, di cui all’art. 277, comma 2, c.p.c., dalla quale differisce, come già detto, solo per la diversità di condizioni per la sua pronuncia: il collegio, se la domanda di separazione o divorzio è matura per la decisione, deve deciderla immediatamente, senza valutare se la sua decisione immediata risponde ad un apprezzabile interesse della parte, e senza che l’istanza di questa sia necessaria. Sotto ogni altro profilo, invece, vi è perfetta analogia fra la sentenza parzialmente definitiva e la sentenza non definitiva di separazione e divorzio.
§ 3. Appurati presupposto e contenuto della sentenza non definitiva di separazione e divorzio, resta da vedere come mai il legislatore abbia previsto l’obbligo per il giudice, quando ne ricorrono i presupposti, di pronunciare una tale sentenza. La facile spiegazione sta in quanto prevedono sia dall’art. 709-bis c.p.c. sia dall’art. 4, comma 12 della L. 898/1970, i quali ambedue stabiliscono che “avverso tale sentenza è ammesso soltanto appello immediato”. Dunque, lo scopo perseguito dal legislatore è quello di accelerare la formazione del giudicato, imponendo dapprima la pronuncia della sentenza non appena la domanda di separazione e divorzio sia matura per la decisione, ed impedendo poi la proposizione della riserva di appello nei confronti della stessa.
In ciò si riscontra un’ulteriore differenza con la sentenza parzialmente definitiva, prevista dall’art. 277, comma 2, c.p.c., nei confronti della quale la riserva di appello è ammessa proprio per concedere alla parte soccombente sulla parzialmente definitiva la possibilità di rinviare all’esito globale del processo la valutazione circa l’opportunità di impugnare la stessa . Quando si tratta di separazione o divorzio il legislatore ritiene inopportuno concedere alla parte soccombente una tale possibilità, perché consentirle di dilazionare l’impugnazione della sentenza di separazione o divorzio in attesa della integrale decisione di tutte le controversie pendenti può condurre ad un ritardo nella formazione del giudicato, e ben sono note le peculiarità che assume il giudicato sulla separazione (che costituisce, fra l’altro, presupposto necessario della pronuncia di divorzio) e sul divorzio (in quanto lo scioglimento del matrimonio si produce solo quando si forma il giudicato sulla sentenza di divorzio).
La irrilevanza di una riserva di appello nei confronti della sentenza non definitiva di separazione e divorzio comporta che quest’ultima passa in giudicato, una volta che siano decorsi i termini per appellarla, e nonostante che sia stata proposta riserva. La formazione del giudicato può ovviamente essere accertata in ogni sede e luogo in cui essa sia rilevante: ad es., nell’eventuale processo di divorzio, nel quale si debba appunto verificare l’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza di separazione .
Se, dunque, come è pacifico, la ratio delle disposizioni esaminate è quella appena vista, è evidente che alcune questioni, controverse in giurisprudenza e dottrina, debbono essere affrontate e risolte alla luce della stessa.
In primo luogo, l’espressione “avverso tale sentenza è ammesso soltanto appello immediato” non può essere intesa come deroga al possibile concorso di impugnazioni: in particolare, ove la sentenza che pronunci sulla domanda di separazione o divorzio decida anche di una questione di competenza, resta esperibile contro la stessa il regolamento facoltativo di competenza ex art. 43 c.p.c. Si noti, per incidens, che ove sia sollevata questione di competenza, la sentenza di separazione o divorzio non potrà non decidere pregiudizialmente tale questione.
In senso inverso, ove insieme alla sentenza di separazione o divorzio siano decisi alcuni delle altri oggetti del processo (ad es., quelli relativi ai figli, ma non quelli relativi all’assegno spettante al coniuge) non vi è alcun motivo di sottoporre anche questi ulteriori capi di decisione al regime dell’impugnazione immediata . La possibilità di proporre riserva di appello nei confronti di alcuni dei capi c.d. consequenziali in attesa della decisione degli altri non pregiudica le finalità perseguite dal legislatore, e al contempo consente alle parti di rinviare la decisione sull’impugnazione all’esito globale delle varie controversie.
Infine, e sempre tenendo conto della ratio della disposizione, quando la situazione sopra descritta si verifica in appello, si applica quanto previsto per il giudizio di primo grado . E dunque il giudice di appello deve pronunciare la sentenza non definitiva di separazione e divorzio, se la domanda è matura per la decisione e non lo sono invece gli altri oggetti del processo; e contro tale sentenza è ammesso solo ricorso immediato in Cassazione. D’altro canto, il fatto che il legislatore si occupi solo dell’appello immediato non può essere di ostacolo all’applicazione della norma anche alle ipotesi non disciplinate, nelle quali si presenti la medesima ratio.
Né si obietti che difficilmente in appello possono verificarsi i presupposti per la pronuncia della sentenza non definitiva: basti pensare all’ipotesi in cui il giudice di primo grado abbia erroneamente ritenuto sussistente un ostacolo alla decisione di merito della domanda di separazione o di divorzio. Poiché fra la domanda principale di separazione o divorzio e le domande consequenziali esiste un rapporto di pregiudizialità, nel senso che l’accoglimento della prima costituisce elemento necessario per l’accoglimento delle seconde, è ovvio che il tribunale che rigetta, in rito o in merito, la domanda principale deve automaticamente rigettare anche le domande consequenziali. Sicché, ove il giudice di appello vada di diverso avviso, si troverà con ogni probabilità di fronte ad una domanda principale matura per la decisione, ed a domande consequenziali da istruire.
Acquistano rilevanza, in questa direzione, le precisazioni sopra effettuate circa l’effettivo contenuto della sentenza non definitiva di separazione e divorzio. La riforma del 2006, infatti, ha escluso la possibilità di impugnazione immediata in cassazione delle sentenze non definitive, ed ha consentito, nei soli confronti delle sentenze parzialmente definitive, l’alternativa fra l’impugnazione immediata e la riserva di ricorso (artt. 360, comma 3, e 361 c.p.c.). Se si trattasse, dunque, veramente di sentenza non definitiva, il ricorso immediato per cassazione non sarebbe ammissibile.
Per concludere l’argomento, dobbiamo esaminare i rapporti fra la pronuncia di appello sulla domanda di separazione e divorzio e gli oggetti consequenziali, che possono alternativamente essere tuttora pendenti in primo grado, oppure essere già stati medio tempore decisi. La normativa da applicare è costituita sicuramente dall’art. 336, comma 2, c.p.c., che disciplina il c.d. effetto espansivo esterno. Come abbiamo già detto, gli oggetti consequenziali alla domanda di separazione e divorzio sono dipendenti da questa: nel senso che nessuna pronuncia su questi oggetti è possibile se non vi è accoglimento della domanda principale. Dunque, se il giudice di appello rigetta la domanda di separazione o di divorzio, e il giudice di primo grado ha nel frattempo pronunciato sugli oggetti consequenziali, la sentenza di primo grado su tali oggetti perde efficacia immediatamente. Dopo la riforma del 1990, infatti, l’effetto espansivo esterno della sentenza di impugnazione estende i suoi effetti agli atti e provvedimenti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata fin dal momento in cui è la sentenza di impugnazione è pronunciata, e non più – come in precedenza – dal momento del suo passaggio in giudicato.
Nessun particolare problema si pone, se la sentenza di primo grado è passata in giudicato: infatti, ove fosse a sua volta cassata la sentenza di appello e passasse in giudicato una pronuncia di separazione o divorzio, la sentenza di primo grado riacquisterebbe i suoi effetti, sempre in virtù dell’art. 336, comma 2, c.p.c.: questa volta, però, applicato alla sentenza di appello.
Molto più complesso, ed impossibile da esaminare in questa sede, è invece il raccordo fra la sentenza che, in sede di impugnazione, riforma la sentenza non definitiva di separazione e divorzio e il processo ancora pendente (non importa se in primo grado o in appello) sugli oggetti consequenziali.
§ 4. La seconda questione che ritengo opportuno trattare ha ad oggetto la legittimazione ad impugnare le sentenze pronunciate nel procedimento di separazione e divorzio.
Il primo problema da affrontare riguarda la posizione del P.M. È pacifico che la L. 898/1970 ha implicitamente modificato l’art. 72, comma 3, c.p.c., non consentendo al P.M. di impugnare la sentenza di divorzio (il potere del P.M. di impugnare la sentenza di separazione era già escluso in precedenza) . Lascia perplessi, invece, la dizione dell’art. 5, comma 5, della L. 898/1970, il quale prevede che il P.M. possa proporre impugnazione “limitatamente agli interessi patrimoniali dei figli minori o legalmente incapaci”.
Ovviamente la scelta del legislatore di non attribuire al P.M. il potere di impugnare la sentenza di divorzio costituisce una scelta di politica legislativa, che può essere condivisa o meno. Invece, un’interpretazione letterale della disposizione sopra riportata, che consentisse al P.M. di impugnare solo le disposizioni patrimoniali relative ai figli minori, sarebbe sicuramente in contrasto con l’assetto complessivo dei meccanismi di tutela dei minori.
Infatti, in primo grado, com’è noto, le disposizioni, patrimoniali e non patrimoniali, relative ai figli minori (ed ai figli maggiorenni portatori di handicap, cui si applica la normativa riguardante i figli minorenni: art. 155-quinquies, secondo comma, c.c.), debbono essere prese di ufficio dal giudice nell’esclusivo interesse dei minori stessi, sicché rispetto ad esse non si configura una domanda in senso proprio dei coniugi l’uno nei confronti dell’altro, nel senso che le richieste avanzate non costituiscono presupposto necessario per la pronuncia del giudice; né d’altronde la “domanda” di un coniuge nei confronti dell’altro costituisce strumento di tutela di un diritto proprio, in quanto la situazione tutelata appartiene esclusivamente al figlio.
D’altro canto, la presenza del P.M. nei procedimenti in cui si discuta appunto di disposizioni relative ai minori è stata ritenuta costituzionalmente necessaria .
Se, dunque, il sistema complessivo affida al giudice la cura officiosa degli interessi dei minori, e prevede la partecipazione del P.M. ai relativi processi, sembra assolutamente irrazionale, ai sensi dell’art. 3 della Costituzione, limitare il potere del P.M. di proporre impugnazione relativamente ai soli interessi patrimoniali dei minori, come se gli interessi non patrimoniali degli stessi fossero irrilevanti.
E, dunque, o si ritiene di poter proporre un’interpretazione costituzionalmente adeguatrice dell’art. 5, comma 5 della L. 898/1970, oppure in relazione alla stessa deve evidentemente essere sollevata questione di legittimità costituzionale: perché non ha senso affidare al giudice ed al P.M. la cura degli interessi dei minori, e poi riservare ai soli coniugi – cioè proprio a coloro che, in materia, sono titolari solo di doveri e non anche di diritti – il potere di impugnare la sentenza. Non ha senso, in altri termini, prevedere che in primo grado la cura degli interessi dei figli prescinde da ogni iniziativa dei coniugi, per poi consentire ad essi soli l’impugnazione relativa agli interessi non patrimoniali dei figli.
Per esaurire l’argomento, occorre segnalare un contrasto giurisprudenziale relativo alle modalità di impugnazione dei capi della sentenza riguardanti i minori. Infatti, la Cassazione talvolta ha ritenuto necessaria la notificazione dell’impugnazione (o, in mancanza, l’integrazione del contraddittorio ex art. 331 c.p.c.) nei confronti del P.M. a quo ; altra volta ha ritenuto sufficiente la partecipazione al processo di impugnazione del P.M. ad quem .
§ 5. L’altro problema che intendo affrontare riguarda la legittimazione ad impugnare le sentenze pronunciate nel procedimento di divorzio, con speciale riguardo a quelle pronunciate su domanda congiunta (art. 4, comma 16, della L. 898/1970).
Per chiarire bene i termini della questione, è opportuno premettere che, secondo opinione concorde, la sentenza di divorzio è efficace dal momento in cui passa in giudicato, e che tale efficacia non è retroattiva: sicché il momento in cui avviene il passaggio in giudicato assume un significato particolare, in quanto ogni ostacolo alla pronuncia di divorzio, che si dovesse verificare fra la pronuncia della sentenza ed il passaggio in giudicato della stessa, ne impedisce la produzione degli effetti. Così, se la morte di uno dei coniugi ha luogo dopo la pubblicazione della sentenza, ma prima del passaggio in giudicato, la sentenza di divorzio non produrrà mai i suoi effetti; il contrario accade, se uno dei coniugi decede dopo che la sentenza di divorzio è passata in giudicato. Con la conseguenza che, ad esempio, nel primo caso il coniuge sopravvissuto acquista la qualità di erede, mentre nel secondo caso no.
Ora, si può certamente convenire sulla soluzione; ma sembra riduttivo, per verificare se la sentenza è o meno passata in giudicato, far riferimento esclusivamente al decorso dei termini, come è accaduto allorché la fattispecie appena ipotizzata è stata portata all’attenzione della Corte di cassazione, e questa si è limitata a verificare se la morte di uno dei coniugi era sopravvenuta o meno durante la decorrenza del termine per impugnare .
Come ognun sa, infatti, il giudicato formale dipende dalla impossibilità di proporre le impugnazioni c.d. ordinarie (art. 324 c.p.c. ) e dunque dalla perdita del potere di impugnare non solo per decorso dei termini, ma anche per acquiescenza: ma, ancor prima, per perdere il potere di impugnare è necessario che esso sia sorto, e dunque sia l’acquiescenza sia la mancata proposizione dell’impugnazione ordinaria nei termini assegnati debbono riguardare un soggetto, rispetto al quale quel potere è venuto ad esistenza . Dunque, la corretta impostazione è la seguente: individuare se ed in capo a chi è sorto il potere di impugnare; verificare se tale potere è stato perso (per acquiescenza o per l’inutile decorso dei termini prescritti) prima o dopo che sia verificato l’evento ostativo alla produzione degli effetti da parte della pronuncia di divorzio .
Secondo i principi generali, il potere di impugnare sorge a favore della parte soccombente: chi, invece, ha avuto dalla sentenza quello che aveva richiesto, non è legittimato ad impugnare. Tant’è vero che l’impugnazione da lui eventualmente proposta è inammissibile e comunque inidonea ad impedire il passaggio in giudicato della sentenza, se manca la tempestiva impugnazione di una parte legittimata, oppure quest’ultima fa acquiescenza .
Si deve dunque concludere che, a favore del coniuge che aveva chiesto la pronuncia di divorzio, non sorge il potere di impugnare, sicché l’eventuale acquiescenza, prestata dalla controparte prima che uno dei coniugi deceda, non impedisce al divorzio di operare. E soprattutto si deve concludere che, se il divorzio è chiesto da ambedue i coniugi, il potere di impugnare non sorge a favore di alcuno e dunque la sentenza di divorzio nasce già passata in giudicato formale .
Questa conclusione, in linea con i principi generali delle impugnazioni, è invece disattesa dalla giurisprudenza sopra indicata , la quale è giunta a ritenere inefficace il divorzio a causa della morte di uno dei coniugi, verificatasi in pendenza del termine per impugnare, anche in presenza di domanda congiunta , oppure in un caso, nel quale il coniuge convenuto aveva concluso per l’accoglimento della domanda di divorzio . Anche la dottrina maggioritaria giunge alla stessa conclusione. Ma francamente la soluzione non convince.
In primo luogo, l’espressione utilizzata dall’art. 5, comma 5, della L. 898/1970 (secondo la quale “la sentenza è impugnabile da ciascuna delle parti”) non è sufficiente ad espellere dal sistema un requisito fondamentale e – a quanto risulta – immune da eccezioni, quale quello della soccombenza : requisito che, oltretutto, realizza il principio di buona fede e correttezza processuale . Sarebbe contrario ad ogni canone di lealtà e probità consentire ad una parte, che ha ottenuto quello che aveva richiesto , di venire contra factum proprium , e proporre impugnazione “pentendosi” di quanto aveva voluto.
In secondo luogo, la eventuale natura indisponibile del diritto, oggetto del processo, è irrilevante in questa direzione , poiché le conclusioni prese da una parte – e sulle quali si misura la soccombenza – non costituiscono un atto di disposizione del diritto. Altrimenti il giudice dovrebbe pronunciare anche quando, in materia di diritti indisponibili, l’attore rinuncia agli atti del processo o l’impugnante rinuncia all’impugnazione: ciò che non è mai stato sostenuto da alcuno.
Ancora: è vero che “il passaggio in giudicato della sentenza civile dipende necessariamente dall’estinzione del potere di impugnarla con i mezzi ordinari” e che non è configurabile “un’estinzione del potere di impugnazione anteriore a quello della nascita della sentenza” : però è anche vero che il potere di impugnazione, oltre che estinguersi, può anche non nascere, e che a tal fine è rilevante proprio “il concreto contenuto delle domande e delle difese proposte nel corso di un determinato giudizio” , poiché a favore della parte non soccombente il potere di impugnare non nasce proprio, e dunque rispetto alla parte vittoriosa acquiescenza e decorso del termine sono istituti senza significato, in quanto la sua acquiescenza non rileva, e la sua impugnazione non ha alcun effetto.
Dunque, tirando le fila: la sentenza di divorzio pronunciata su domanda congiunta, o a seguito di concordi conclusioni dei coniugi, nasce passata in giudicato perché non esiste alcun soggetto a cui favore sorga il potere di impugnare: non il P.M., come abbiamo visto; non i coniugi, perché nessuno dei due è soccombente. Né si può opporre che – quantomeno con riferimento alla sentenza di primo grado – resta esperibile il regolamento di competenza , e ciò per una duplice ragione: in primo luogo, perché il regolamento di competenza (ovviamente facoltativo) è esperibile solo se la sentenza di divorzio decide anche di una questione di competenza; e, dunque, se nessuna questione di competenza è decisa, la sentenza non è impugnabile con il regolamento. In secondo luogo perché, quando insieme al merito è decisa una questione di competenza, ciò significa che il tribunale si è ritenuto competente (altrimenti non avrebbe pronunciato nel merito), e dunque – secondo i principi – la parte vittoriosa nel merito non ha mai il potere di impugnare in rito, per carenza di interesse.
La conferma a contrario della insostenibilità della tesi maggioritaria si può ricavare proprio dagli assurdi e barocchi escamotages pensati dai suoi sostenitori, per ottenere il passaggio in giudicato senza attendere lo spirare del termine lungo: si va dalla dichiarazione di acquiescenza che ambedue i coniugi effettuano dinanzi al cancelliere, all’autonotificazione della sentenza o alla notificazione della sentenza a se stesso, nell’ipotesi in cui ambedue i coniugi siano difesi da un unico avvocato, alla proposizione di un appello inammissibile al solo fine di farlo dichiarare tale . Bizantinismi che mostrano quanto sia errato il punto di partenza.
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