Reclamo, revoca e modifica dei provvedimenti sommari1a)- Prima premessa, sul “punto di vista”
Quando mi sono chiesto, per fedeltà al tema che mi avete assegnato, quale fosse il mio punto di vista sul problema di cui oggi discutiamo, ho dovuto accorgermi di averlo interamente cambiato. La prima volta che ho scritto qualcosa ) sul reclamo cautelare, infatti, mi ponevo dall’interno del modello uniforme del procedimento con un’ottica tutta processuale e nazionale; oggi guardo al problema, di cui oggi discutiamo, da un punto di vista prevalentemente sostanziale e sopranazionale, comunque più interno al diritto delle persone (questa è un’espressione che preferisco all’altra, più usata ma meno ampia, di diritto di famiglia).
Non saprei dire se questo sia sempre il punto di vista “del giudice”; diciamo che è il punto di vista di “un giudice”, che da vari anni sperimenta un utilizzo ampio del reclamo cautelare in materia di provvedimenti del giudice delle separazioni (e dei divorzi), e dà (con i colleghi della Sezione) un giudizio molto positivo su questa esperienza. Sono dunque molto grato agli organizzatori per aver dato modo a me (e credo di poter dire “al Tribunale di Genova”) di sottoporre ad una discussione ampia questa nostra esperienza, e sono particolarmente lieto che questo avvenga per iniziativa (anche) di un Osservatorio del diritto di famiglia, perché auspico che anche un Osservatorio genovese possa presto (incrementando le forze che lo sorreggono) ricambiarVi l’invito.
Ma passo subito a rappresentarvi la spina dorsale del mio intervento che, come dicevo in apertura, pretende di collocare il ragionamento in un ambito europeo, e più precisamente nel cuore della tematica della tutela, in ambito nazionale, dei diritti fondamentali attribuiti ad ogni persona dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
So bene che è possibile argomentare sull’argomento del reclamo collegiale anche prescindendo del tutto da questa prospettiva: lo ho fatto in passato anch’io, lo abbiamo fatto (come Tribunale di Genova) in alcune decisioni che sono state pubblicate su Riviste, lo fanno insigni studiosi e, mi sembra, la totalità dei colleghi che sinora escludono l’ammissibilità del ricorso contro i provvedimenti emessi dai giudici istruttori ex art. 708 c.p.c. (o 4 della legge sul divorzio). Ma a me pare che l’approccio diverso, che oggi vi propongo come mio contributo specifico (e personale) alla discussione, sposti sensibilmente l’asse del problema, e dia un colore tutto diverso alle varie soluzioni.
Sino a quando lo consideriamo un problema interno all’ordinamento nazionale, infatti, anche a me pare che l’ammissibilità del reclamo cautelare contro i provvedimenti dei giudici istruttori rimanga un problema interpretativo complesso e fortemente opinabile; a questa opinabilità corrisponde, del resto, l’attuale contrasto giurisprudenziale, che vede ancora la maggioranza dei colleghi contrari all’ammissibilità ). Ma se collochiamo il problema nell’ordinamento sopranazionale ), la mia convinzione è che esso diventi insieme più semplice, e direi anche assai più chiaro. Come cercherò ora di illustrare, a me pare anzi che in quest’ottica la soluzione della ammissibilità del reclamo al collegio diventi una soluzione per più aspetti obbligata.
1b)- Seconda premessa, su specializzazione e organizzazione degli uffici
Ma nel mio discorso ci sarà un secondo aspetto, con il quale concluderò il mio discorso, ed al quale preferisco aggiungere subito un accenno, che sarebbe errato considerare come “fuori tema”. Infatti quello che, a mio modo di vedere, è il nodo veramente critico (di questo come di altri problemi interpretativi) sono le ricadute sull’organizzazione e sulla gestione degli uffici e del lavoro: aspetto, questo, che emerge non tanto nei convegni quanto nei discorsi diretti con i colleghi, i quali spesso mi chiedono (preoccupati) come facciamo ad assorbire, a Genova, il lavoro aggiuntivo che viene dai reclami contro i provvedimenti del giudice istruttore.
Dirò subito che, in gran parte, questo è un problema a dimensione minima, probabilmente perché i difensori valutano con grande prudenza le possibili conseguenze di una decisione collegiale di rigetto del reclamo: fatto sta che solo raramente noi abbiamo dovuto far fronte a più di un reclamo alla settimana (avendo una pendenza di circa un migliaio di procedimenti in istruttoria tra separazioni e divorzi, ed includendo nel conto anche i normali reclami cautelari contro provvedimenti ante causam resi in altri procedimenti). In ogni caso a Genova il problema della specializzazione della sezione è stato un problema molto presente, che proprio quest’anno ha portato ad una riduzione del numero dei magistrati, proprio al fine di consentire (tornerò sul punto alla fine) una specializzazione piena delle materie affidate alla sezione che presiedo.
Non è per questo, comunque, che ho voluto parlare subito anche di questo aspetto, ma piuttosto per suggerire un collegamento tra il tema di oggi e quello, più complessivo, del Tribunale specializzato per la famiglia.
1-c) Sommario degli argomenti
In ogni caso, sono venuto non a riproporvi la rilettura di una delle nostre ordinanze (che in questa sede credo di poter dare per lette), ma a confrontarmi con voi su un ragionamento assai più articolato, del quale vi espongo subito una specie di sommario.
L’argomento dal quale partirò non è interno al diritto di famiglia, ma riguarda più in generale i compiti del giudice italiano per la tutela dei diritti fondamentali che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (ma il discorso dovrebbe allargarsi anche alla Carta europea di Nizza, e spingersi sino agli sviluppi tendenziali del diritto comunitario) attribuisce ad ogni persona nelle sue relazioni familiari. Per questi aspetti, mi sento un latore di opinioni più che un protagonista, nel senso che mi limiterò a ricondurre, alla nostra materia, riflessioni che non sono nate nel campo del diritto di famiglia ).
Poiché però noi ragioneremo sull’art. 8 (quello sul rispetto della vita privata e familiare) e sull’art. 13 (quello sul diritto di ricorso effettivo) della CEDU, norme sulle quali l’elaborazione giurisprudenziale è molto meno consistente che sul tema della ragionevole durata del processo (altro diritto fondamentale attribuito a ciascuno dall’art. 6 della CEDU) ritengo necessario (scusandomene con chi ha già presente il tema) un breve riassunto del percorso concettuale che la Corte di cassazione ha fatto negli ultimissimi anni in ordine ai rapporti tra CEDU e ordinamento nazionale. Nel passare all’ambito specifico di applicazione dell’art. 8 sarà, naturalmente, necessario rilevare analogie e differenze tra il diritto alla ragionevole durata del processo ed il diritto di ciascuno alle proprie relazioni familiari.
Il secondo passaggio sarà dedicato in modo più specifico al tema del rimedio processuale, cioè al “ricorso effettivo” assicurato ai titolari di diritti fondamentali dall’art. 13 della CEDU; toccherò, in particolare riferimento, il tema dell’imparzialità c.d. oggettiva dell’organo destinatario del ricorso; e sarà rispetto a questo secondo argomento che esporrò qualche riflessione sui poteri di decisione sommaria/cautelare (l’ambiguità della dizione qui è d’obbligo) del giudice istruttore nei procedimenti di separazione e divorzio.
La conclusione, l’ho già detto, sarà dedicata al senso della specializzazione del giudice che tratta questioni di famiglia, ed all’auspicio che anche questo bel Convegno possa essere un momento di avvicinamento al Tribunale specializzato della famiglia.
2a)- I diritti fondamentali europei davanti al giudice italiano
La ragione per la quale è utile ripercorrere, oggi, quanto è avvenuto a proposito della durata ragionevole del processo è che, ancora tra il 2002 ed il 2003, la nostra Corte di cassazione affermava ) che la Convenzione europea attribuirebbe “in primo luogo a ciascuno Stato la cura di assicurare il godimento dei diritti riconosciuti al singolo (art.1)”, per cui la tutela davanti alla Corte di Strasburgo avrebbe soltanto un “carattere sussidiario” (esaurite le vie di tutela nazionali), e dunque le decisioni di quella Corte non potevano avere effetti vincolanti per i giudici nazionali.
Saltando qualche passaggio, quello che conta è che, dopo la notissima decisione Scordino c. Italia della Corte europea dei diritti dell’uomo, 27 marzo 2003 ), l’intera cultura giuridica italiana ha dovuto fare una netta revisione; in quella sentenza, la Corte di Strasburgo aveva affermato (mutando giurisprudenza rispetto alla precedente pronuncia sul caso Brusco ) non solo la propria competenza a valutare in concreto l’effettività della riparazione offerta a livello nazionale , ribadendo (in motivazione) il carattere fondamentale del diritto in questione, ma soprattutto che alle autorità nazionali spetta di interpretare ed applicare il diritto nazionale in senso conforme ai principî della convenzione, per concludere infine che “pur rispettando il margine di valutazione di cui le giurisdizioni nazionali dispongono, queste ultime devono conformarsi alla giurisprudenza della corte accordando somme conseguenti”. E tutti sappiamo che tra la fine del 2003 e l’inizio del 2004 la nostra Corte suprema ha modificato il proprio orientamento precedente, prima chiarendo ) che nel nostro ordinamento il diritto all’equa riparazione esisteva comunque (come diritto sostanziale) anche prima della legge Pinto, in quanto rispetto all’art.2 della Costituzione “il dettato della Convenzione assume una portata confermativa ed esemplificativa”; poi affermando anch’essa che la legge 89/2001 impone al giudice di merito nazionale di non discostarsi, se non in misura “ragionevole” dai criteri di liquidazione dell’equa riparazione utilizzati dalla Corte europea.
In modo anche più esplicito, la successiva Cass. 23/12/2005 n.28507 ) ha affermato la natura “immediatamente precettiva delle norme convenzionali a seguito dello strumento di ratifica dello strumento di diritto internazionale”, precisando che il diritto all’equa riparazione sussisteva anche in caso di lungaggini processuali anteriori alla legge Pinto in quanto il diritto “trova fondamento nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ratificata con legge 4/8/55 n.848 che ha introdotto nell’ordinamento interno i diritti fondamentali, aventi natura di diritti soggettivi pubblici”.
La Legge Pinto, precisa poi la decisione ricordata per ultima, istituiva soltanto la “via di ricorso interno, prima inesistente”, “in attuazione del disposto dell’art. 13 della Convenzione “il quale stabilisce il diritto ad un ricorso effettivo davanti un’istanza nazionale il cui esperimento preventivo opera, a norma dell’art. 35, come condizione di procedibilità del ricorso alla Corte di Strasburgo che, ai sensi dell’art. 34, era proponibile in via immediata e diretta prima dell’introduzione del ricorso negli ordinamento nazionali”.
Come ho setto, mi sto limitando a riportare qui (senza nulla aggiungere) le conclusioni di altri studiosi della materia; mi sembra corretto riprodurne dunque anche le parole precise. Così Nicola LETTIERI, addetto giuridico presso la Rappresentanza Permanente d’Italia al Consiglio d’Europa a Strasburgo, scrive, nel suo “Prontuario della giurisprudenza europea” ) che “Lo Stato dunque non è più oggi assolutamente libero di avere le leggi che vuole né di darsi l’organizzazione politica, giudiziaria o amministrativa che giudica la migliore, ma deve avere le leggi e darsi l’organizzazione conforme alle disposizioni della CEDU, quali esse vivono nell’intepretazione che ne dà la Corte europea” e che “In ogni caso va registrata la tendenza che lentamente va prendendo piede nelle nostre aule di giustizia secondo cui il giudice interno ha quantomeno un obbligo ermeneutica di ricercare ed applicare, tra più interpretazioni possibili di una norma nazionale, quella che è più compatibile con la Convenzione e con l’interpretazione che della stessa dà la stessa Corte.” E il collega Luca PERILLI, nella relazione al CSM che ho già ricordato, conclude che “L’affermazione della immediata precettività delle norme della Convenzione fa sì che anche i giudici civili italiani, quali organo dello Stato, siano vincolati, in base all’art. 1 della Convenzione, al rispetto delle norme in essa contenute e debbano farne applicazione.
Per non lasciare a metà l’argomento, affascinante ma complesso, delle forme di tutela dei diritti fondamentali in Europa, mi permetto di raccomandare anche la lettura di un breve ma incisivo saggio a quattro mani, apparso sull’ultimo numero di Questione Giustizia (BRONZINI-PICONE La giurisprudenza europea in movimento. Luci ed ombre nel processo di costruzionedi uno jus commune in Quest.Giustizia n.1/2007, pag. 119 ss.) nel quale si esamina l’interazione, appunto in ordine alla tutela dei diritti fondamentali, tra la Corte di Strasburgo e la Corte di Giustizia della Comunità Europea attraverso lo strumento dell’interpretazione giurisprudenziale.
2b)- Il diritto alle relazioni familiari
Veniamo dunque ai “diritti fondamentali” riconosciuti dall’art. 8 della CEDU ), e che l’Italia si è obbligata (come Parte contraente della Convenzione) ad assicurare, impegnandovi tutti gli organi statali senza distinzione ). Non poche, tra le sentenze della Corte di Strasburgo, riguardano proprio la materia familiare, talune riferite a procedimenti italiani altre relative ad altri Paesi europei ). E’, comunque, pacifico che l’art. 13 integri di per sè un precetto autonomo, che deve essere rispettato dagli ordinamenti sul piano puramente processuale, pur in assenza di violazioni di tipo sostanziale ).
Ciò di cui si potrebbe (temo) dubitare è, forse, che si possa qualificare l’interesse del minore come “diritto fondamentale” anche per il nostro ordinamento interno (notoriamente governato, nel diritto di famiglia, da ideologie contrapposte ma tutte palesemente adultocentriche), visto che nella Costituzione non è possibile rintracciare alcuna norma precettiva che lo affermi come tale. Ma questo dubbio non avrebbe, naturalmente, la minima consistenza né per il diritto convenzionale (basta pensare alla Convenzione di Strasburgo, ed ora dalla Carta europea di Nizza) né per il diritto comunitario (visto che l’art. 24 della Carta di Nizza è richiamato esplicitamente nel preambolo del regolamento 2201/2003 dell’UE); e, ai fini del nostro discorso, è possibile procedere senza distinguere la posizione degli adulti da quella dei minori, posto che nella sfera di applicabilità dell’art. 8 i rapporti genitori/figli ricadono comunque.
Sempre per sottolineare alcune differenze, non si può tacere che il “diritto fondamentale” di cui ci stiamo occupando viene descritto, nell’ordinamento interno ed in quello sovranazionale, con angolature abbastanza diverse: nel regolamento comunitario sul matrimonio europeo l’accento è sulla responsabilità ), nella nostra Costituzione l’art. 30 adotta la formula del “dovere/diritto dei genitori”. Tralasciando qui queste (credo significative) differenze, costituisce un dato comune ed indiscutibile che, su titolarità ed esercizio delle funzioni che spettano per legge ai genitori, solo autorità giurisdizionali possano effettuare interventi conformativi, modificativi o ablativi; e questo attribuisce alla giurisdizione una funzione che è contemporaneamente, ma inevitabilmente, di garanzia e di ingerenza: garanzia del diritto di ciascuno alle proprie relazioni familiari, e tuttavia anche, dal punto di vista dell’art. 8, “ingerenza di un’autorità pubblica” su tali diritti.
Proviamo a spendere qualche riflessione, prima di procedere oltre, sulla contraddizione che è implicita in questa duplicità di funzioni. Come autorità “di garanzia” è evidente che il giudice istruttore offre, dopo il primo intervento in esito all’udienza presidenziale, il massimo di effettività; infatti, quando si tratta di relazioni tra genitore e figli, qualsiasi avvenimento che segnali disagio giustifica naturalmente l’intervento, senza che il requisito della sopravvenienza di nuove circostanze ) possa costituire (nel concreto) un vero ostacolo; da questo punto di vista mi sembra corretto riconoscere che, dal punto di vista della tutela dell’interesse del minore ) la costante ricorribilità all’istruttore costituisce effettivamente una importante garanzia di effettività.
Una volta intervenuto il provvedimento con il quale il GI esamina la nuova situazione dei rapporti personali che gli è stata sottoposta, ed assume le decisioni relative, però, la situazione cambia, nel senso che si pone il problema delle garanzie contro questa ulteriore “ingerenza di un’autorità pubblica” nell’esercizio del diritto di ciascuno delle proprie relazioni familiari; il problema può essere visto da due punto di vista, quello processuale interno al nostro ordinamento, che riguarda l’ambito di applicabilità del reclamo cautelare (e sul quale volutamente oggi io sorvolo), e quello (che vi sto proponendo) è di tipo sopranazionale, che riguarda la effettività di un “ricorso” rivolto alla stessa autorità che ha appena deciso ). Il problema, in questo caso, non sta nella mancanza di un ricorso, perché l’istanza di revoca proponibile allo stesso GI uno strumento lo offre: ma si tratta di capire se, secondo i criteri europei, tale organo possa essere considerato “oggettivamente imparziale”.
3)- Diritti fondamentali, imparzialità del giudice e doveri intepretativi.
A questo punto non posso evitare un’altra digressione al di fuori del diritto di famiglia, perché il tema dell’imparzialità del giudice è, anch’esso, assai differente se guardato dall’interno del nostro ordinamento o dal punto di vista sopranazionale.
Com’è noto, l’articolo 6 della CEDU ) è stato intepretato dalla Corte di Strasburgo in senso piuttosto rigoroso, distinguendo tra quello che viene chiamato “profilo soggettivo” (relativo alle convinzioni personali del giudice, per il quale l’imparzialità è presunta fino a prova contraria) e il profilo oggettivo dell’imparzialità, in base al quale il giudice deve offrire garanzie tali da escludere qualsiasi dubbio: in particolare, si pone il problema della “prevenzione” del giudice che abbia giudicato “la même affaire”. Ed è proprio sotto tale profilo che, recentemente ), la Corte di Strasburgo ha salvato, ma dopo una discussione difficile testimoniata dalle cinque opinioni di minoranza, l’imparzialità delle decisioni del nostro Consiglio di Stato, quando esamina questioni sulle quale sia già stato espresso (dallo stesso organo) un parere consultivo. Solo a stento, dunque, è stato ritenuto che il parere dato dal Consiglio di Stato in sede consultiva e la decisione sui ricorsi in sede giurisdizionale non costituiscano «la même affaire» o «la même décision»;
Se guardiamo all’interno del nostro ordinamento, il profilo dell’imparzialità del giudice ha ricevuto un rilievo maggiore con riferimento alla posizione del giudice penale ), per il quale è ormai acquisito anche a livello normativo che un giudice che abbia adottato una decisione in una qualunque fase del procedimento non potrà più essere chiamato a decidere in relazione ad essa, proprio poiché l’aver già deciso la medesima questione lo rende (oggettivamente) non più imparziale rispetto alla presunzione di innocenza dell’imputato.
Al di fuori del processo penale, si è avuto anche l’intervento della nostra Corte costituzionale a proposito della composizione della sezione disciplinare del C.S.M. ), mentre sul versante civile la strada più spesso battuta è quella che sposta il problema dall’organo alla sua composizione soggettiva, sotto forma di astensione o ricusazione del magistrato.
Ma i problemi si pongono (così mi sembra) non per quanto attiene l’intero campo del diritto civile, ma in modo assai più stringente per quanto attiene alla categoria dei diritti fondamentali; e qui torniamo al punto di partenza, cioè alla scarsa rilevanza complessiva che il nostro ordinamento costituzionale interno offre (all’interno del campo civile) alla tutela dei diritti fondamentali. Il nostro tema di oggi, insomma, mi sembra sia come la punta di un iceberg, sinora pienamente affiorato solo con riferimento al diritto alla durata ragionevole dei processi, ma che riguarda, con riferimento agli altri diritti riconosciuti come fondamentali dalla Convenzione europea, molte altre aree mentre nella materia della famiglia risulta solo più evidente.
Quando dunque si tratta di diritti fondamentali ) a me pare che in Italia non siamo ancora abituati ad assumere non soltanto riferimenti normativi ma soprattutto percorsi interpretativi di tipo sopranazionale ). Così, nel nostro tema, la nozione di “imparzialità” del giudice che dovremmo porre a base di ogni ragionamento non può essere elaborata tutta all’interno del nostro ordinamento, perché, al contrario, al nostro ordinamento (ma ai giudici direttamente, nei loro percorsi interpretativi, obbligatori come per tutti gli organi dello Stato nazionale) incombe il dovere positivo adeguare gli strumenti di tutela in modo da renderli conformi non soltanto al testo dell’art. 6 e dell’art 13 della CEDU, ma all’interpretazione che, di tali norme, ha dato la Corte europea dei diritti dell’uomo.
Se dunque i diritti fondamentali riconosciuti dalla CEDU possono essere compressi dall’ordinamento nazionale, ma solo per quanto strettamente necessario, e se è un obbligo positivo per lo Stato adottare le misure adeguate per tutelare al meglio tali diritti, allora il ricorso effettivo previsto dall’articolo 13 CEDU per i familiari che lamentino una violazione dei diritti e delle libertà riconosciute dalla Convenzione non potrà essere un ricorso allo stesso giudice istruttore che abbia già pronunciato un provvedimento negativo. Soprattutto poi dopo che la nostra Corte costituzionale ) ha affermato la reclamabilità del provvedimento cautelare negativo in quanto “l’alterità del giudice dell’impugnazione rappresenta, secondo l’ordinamento, ma anche secondo il comune sentire, un fattore di maggiore garanzia”.
D’altra parte, per i figli nati fuori dal matrimonio tale possibilità è assicurata dal reclamo alla Corte d’appello contro le decisioni collegiali del Tribunale per i minorenni; per i figli di coppia coniugata, il primo provvedimento presidenziale è anch’esso reclamabile alla Corte; analoga garanzia viene assicurata anche dopo la separazione (e se non vi è procedimento di divorzio pendente) sotto forma possibilità di reclamo alla Corte d’appello come in tutti i procedimenti camerali.adottati a sensi dell’art. 709 n.3. A questa particolare tipologia processuale, di provvedimenti immediatamente esecutivi ma reclamabili in materia di responsabilità genitoriale, sarebbe dunque soltanto il provvedimento del GI (secondo l’interpretazione maggioritaria) a sottrarsi.
A me pare evidente la risposta negativa, ma provo a fare la controprova, per cercare di chiudere il cerchio del ragionamento. Per tutti coloro che non ritengono necessario il reclamo cautelare contro i provvedimenti resi dal GI a sensi dell’art. 708, vediamo quali risposte siano astrattamente possibili: forse che il diritto alle relazioni familiari non abbia dignità di diritto fondamentale? O che si tratti di un diritto fondamentale la cui tutela non richieda un giudice imparziale? O che in Italia si possa considerare “imparziale” un giudice che in Europa nessuno direbbe tale? O che il giudice italiano non sia tenuto ad interpretare il diritto nazionale in modo conforme ai principi europei, e non intenda comunque assicurare ai cittadini garanzie che il legislatore nazionale non impone in modo esplicito?
Forse mi sfugge qualcosa, ma non vedo altre alternative logiche. Tutto sta nel porre le domande, perché poi di simili risposte nessuna (mi pare evidente) suona bene, e nessuna si potrebbe dire all’altezza di una tradizione che, anche sul piano dell’integrazione giuridica europea, come “patria del diritto” talvolta continuiamo a vantare.
4)- Interpretazione delle norme, organizzazione degli uffici e specializzazione.
Forse ho già abusato della vostra pazienza, ma non posso ancora concludere, perché se non affronto anche il nodo organizzativo so di trascurare le condizioni materiali di lavoro, che a mio avviso hanno pesato, sinora, sul diniego del reclamo collegiale assai più che gli argomenti esegetici.
Io ritengo infatti che, quando un giudice affronta una questione interpretativa che può incidere sul suo modo di lavorare (che, cioè, è in grado di modificare la sua settimana/tipo di lavoro), le diverse conseguenze della scelta interpretativa possano diventare uno dei fattori (non dico l’unico, né il più importante; ma “uno dei fattori” sì) della decisione. Questa, sull’ammissibilità del reclamo collegiale contro le decisioni che il GI adotta ex art. 708, non è la sola né la più rilevante (penso ora a tutta la tematica sull’ascolto del minore, o all’interpretazione dei limiti di applicazione dell’amministrazione di sostegno) delle questioni interpretative che hanno ricadute organizzative. Dare spazio ai coniugi nelle udienze presidenziali, avere tempi adeguati anche per l’ascolto dei figli minori, aprire spazi costanti anche ai reclami collegiali di cui oggi discutiamo, assicurare tempo (e organizzazione) anche ai procedimenti per l’apertura delle amministrazioni di sostegno significa infatti fare difficili scelte (organizzative) di priorità, che per le sezioni non specializzate comportano come seconda faccia la (inevitabile) dilatazione della durata di altri procedimenti (sui quali magari incombono problemi di applicazione della legge “Pinto”).
Ma se dobbiamo darci (ripeto qui una delle conclusioni del prof. LETTIERI) “l’organizzazione conforme alle disposizioni della CEDU, quali esse vivono nell’intepretazione che ne dà la Corte europea”, credo che ciascuno debba assumere, a partire dai presidenti di Sezione, impegni e scelte coerenti; precisando che la parola “specializzazione” non indica, soltanto, la necessità di avere conoscenze che altri non hanno, ma anche (io credo soprattutto) poter organizzare la propria settimana di lavoro dedicando il tempo necessario ad ascoltare le persone, ed eventualmente a ridiscutere a fondo (questo è il reclamo collegiale) le conseguenze delle decisioni che vengono adottate in via sommaria nel corso del procedimento.
Come ha dimostrato la ricerca (poi ripresa dal CSM) che l’Associazione nazionale magistrati ha condotto nel 2003 ) sulle prassi nei procedimenti di separazione e divorzio, è nelle (grandi) divergenze delle prassi dei vari Tribunali che hanno radice le difformità nelle interpretazioni, nei risultati e nei tempi. Per condensare tutto in una proposizione conclusiva, direi che la “specializzazione” di cui il diritto delle persone ha bisogno abbia al suo centro lo spostamento della “prestazione” del giudice dalla fase finale (come è proprio della sentenza nei procedimenti ordinari) alla fase iniziale del procedimento, poiché le relazioni tra le persone non hanno altra dimensione temporale che non sia l’oggi. Se vogliamo chiudere con un richiamo al titolo di questo convegno, io ne proporrei (con un piccolo gioco di parole) un rovesciamento, risolvendo la necessità di specializzazione (che i “diritti fondamentali” ci chiedono nelle separazioni delle coppie coniugate, ma anche nei conflitti delle coppie non coniugate che hanno figli) nell’avviare un percorso che sposti la nostra cultura dalla sentenza finale ai provvedimenti con cui il giudice interviene sulle relazioni tra persone all’inizio dei procedimenti, e conseguentemente “dall’appello al reclamo”.
Spero di avervi dato qualche motivo di riflessione anche con le argomentazioni che ho esposto in questo intervento; ma sarei comunque contento se, di tutta l’esposizione, questa mia conclusione trovasse un posto nella riflessione collettiva, tra i problemi-cardine della costruzione di un procedimento unitario davanti al “Tribunale specializzato della famiglia” verso cui (spero) è in viaggio il diritto minorile in Italia.
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