Sentenza non definitiva di separazione e rapporti tra separazione e divorzio. Sentenza non definitiva di separazione e rapporti tra separazione e divorzio. Un’ipotesi di continenza di cause.
Gianfranco Dosi
La possibilità di pronunciare nel processo di separazione una sentenza non definitiva di separazione, anche in presenza di una domanda di addebito, è stata controversa in passato in giurisprudenza fino alle decisioni delle Sezioni Unite che - dopo un braccio di ferro tra la giurisprudenza di merito e la prima sezione della Cassazione (disponibile ad ammetterla solo ove non vi fosse stata domanda di addebito: Cass. 13312/99 ) - l’avevano ammesso sul presupposto che domanda di separazione e domanda di addebito sono due domande diverse sulle quali non vi sono ostacoli di principio a decidere in momenti differenti (Cass. sez. Unite 15248/2001 e 15279/2001 ).
L’estensione al processo di separazione dell’art. 4 co. 9 della legge sul divorzio era, allora, resa possibile da una interpretazione intelligente dell’art. 23 della legge 6 marzo 1987, n. 74 che estende ai giudizi di separazione il contenuto nell’art. 4 della legge sul divorzio o, quanto meno, sulla base dell’art. 277 cpc (Cass. sez. Unite 15248/2001 citata).
La questione è stata ora risolta, fortunatamente, dalla legge 28 dicembre 2005, n. 263 il cui articolo 4 ha inserito due ultimi periodi all’art. 709-bis del codice di procedura civile. In base a questa aggiunta è ora espressamente indicato che “nel caso in cui il processo debba continuare per la richiesta di addebito, per l’affidamento dei figli o per le questioni economiche, il tribunale emette sentenza non definitiva relativa alla separazione. Avverso tale sentenza è ammesso soltanto appello immediato che è deciso in camera di consiglio”.
E’ possibile indicare alcuni principi nel dibattito su questo tema.
Il primo è che l’espressione “Il tribunale emette sentenza non definitiva...” sta a ribadire che la pronuncia è dovuta – e non discrezionale - tutte le volte, naturalmente, in cui il giudice non ritenga possibile che la causa venga definita tutta subito. Analogamente avviene, sulla base del medesimo linguaggio usato dall’art. 4 co 9 della legge sul divorzio, per la sentenza non definitiva di divorzio. La sentenza non definitiva, insomma, non dovrebbe aver bisogno neanche di una domanda di parte.
Il secondo principio è che la domanda di divorzio è proponibile non appena si verifica il duplice presupposto che siano trascorsi tre anni dalla prima comparizione dei coniugi davanti al presidente (art. 3 LD) e che vi sia il giudicato sullo status anche in base a sentenza non definitiva di separazione. Quindi la sentenza non definitiva di separazione permette di anticipare al massimo il giudizio di divorzio.
Il terzo principio è che il giudicato sullo status può intervenire per acquiescenza ove il processo di separazione prosegua in appello sulle sole questioni accessorie (Cass. sez. Unite, 15279/2001 citata).
Il quarto principio è che avverso la decisione non definitiva non è ammessa per legge riserva di appello ma solo appello immediato. L’appello potrà essere fondato soltanto su errores in procedendo o su altre questioni di legittimità come per esempio, in caso di divorzio, la mancata considerazione di una eccezione del convenuto sulla interruzione della separazione.
Un quinto principio costituisce una conseguenza inevitabile della sentenza non definitiva di divorzio ed è che l’eventuale assegno di separazione goduto da un coniuge viene meno con il giudicato sullo status di divorzio a meno che non sia stato confermato come assegno provvisorio divorzile in sede presidenziale. Si tratta di una conseguenza del principio generale secondo cui l’assegno di separazione viene meno con il giudicato di divorzio (Cass. 7488/94 ).
Dai principi che il tema della sentenza non definitiva di separazione e di divorzio richiama è possibile desumere l’esistenza nel diritto di famiglia di un generale favor libertatis, cioè di una tendenza specifica dell’ordinamento a garantire il più possibile il diritto all’acquisizione rapida dello stato libero.
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In relazione a quanto precede si pongono nella prassi alcuni problemi.
1. Quando va pronunciata la sentenza non definitiva (di separazione e di divorzio) ?
Poiché la pronuncia della sentenza non definitiva presuppone che il giudice valuti che il processo “debba continuare per la richiesta di addebito, per l’affidamento dei figli o per le questioni economiche” è evidente che non sarà possibile nessuna valutazione prima che il thema decidendum del processo non sia compiutamente definito. Pertanto la decisione sul rinvio al collegio per la sentenza non definitiva non potrà che avvenire al momento dello scioglimento della riserva sui mezzi istruttori di cui all’art. 183, co 6, c.p.c.
Tuttavia la prassi degenerativa in uso di non riservarsi la decisione come vorrebbe il codice ma di rinviare ad una udienza apposita l’ammissione dei mezzi di prova fa già slittare necessariamente la decisione sulla sentenza non definitiva. Ed un ulteriore slittamento avviene a causa della prassi, diffusa in alcuni tribunali, di rinviare inutilmente ad una successiva udienza la precisazione delle conclusioni sulla sentenza non definitiva cui seguiranno comparse e repliche.
Cosicché la sentenza non definitiva rischia di intervenire moltissimo tempo dopo la definizione del thema decidendum della causa vanificando quel favor libertatis al quale ho prima accennato.
Sarebbe necessario perciò anticipare i tempi prevedendo che fin dall’udienza di prima comparizione ed all’atto di assegnare i termini dell’art. 183, co 6, cpc il giudice istruttore inviti le parti a precisare le conclusioni e a replicare - nelle rispettive note istruttorie - in ordine alla eventuale sentenza non definitiva.
Il provvedimento potrebbe essere del seguente tenore: “Il GI concede termine di 30 giorni per la precisazione delle domande... di ulteriori 30 giorni per replicare... e per l’indicazione dei mezzi di prova nonché per precisazione delle conclusioni in ordine all’eventuale sentenza non definitiva di separazione (o divorzio), e di ulteriori 20 giorni per prova contraria nonché per repliche in ordine alla eventuale sentenza non definitiva e riserva la decisione (ovvero”rinvia per l’ammissione sui mezzi istruttori e per l’eventuale rimessione al collegio per la sentenza non definitiva all’udienza del....”).
2. Ottenuto il giudicato sullo status, può il divorzio essere chiesto prima dei tre anni dall’udienza presidenziale di separazione?
La risposta a questa domanda sembra essere del tutto negativa. Infatti l’art. 3 della legge sul divorzio prevede che “per la proposizione della domanda” le separazione deve essersi protratta ininterrottamente da almeno tre anni a far tempo dalla avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione.
La legge sembra, cioè, attribuire alla parte un potere processuale di agire in giudizio che, analogamente a quanto affermato dalla giurisprudenza in materia di ammissibilità dell’azione dichiarativa della paternità naturale (Cass. 9505/97 ), appare costruito come presupposto processuale, in particolare come presupposto della domanda.
Richiamo qui il dibattito sulla differenza tra il concetto di presupposto processuale (cioè di presupposto della domanda) e il concetto di condizione dell’azione (cioè di presupposto della decisione).
Allo stato credo che l’interpretazione sia scontata e che spetti solo al legislatore costruire il presupposto della decorrenza del triennio dall’udienza presidenziale di separazione come condizione dell’azione, cioè come condizione della decisione che quindi può sopraggiungere nel corso del giudizio essendo sufficiente che sussista al momento della decisione. Basterebbe soltanto modificare la dizione normativa e prevedere “per la decisione sul divorzio le separazione deve essersi protratta ininterrottamente da almeno tre anni...”.
Questo permetterebbe di giovarsi ancora di più della sentenza non definitiva di separazione consentendo di presentare domanda di divorzio subito dopo il giudicato sullo status di separazione indipendentemente dal decorso del triennio oggi previsto.
L’ostacolo rappresentato dalla previsione del tentativo di conciliazione nella fase presidenziale del giudizio di divorzio potrebbe essere superato eliminando il tentativo di conciliazione e lasciando alla parte convenuta la facoltà di eccepire il suo dissenso rispetto alla prospettiva del divorzio e alla parte ricorrente l’onere di insistere nella domanda o di aderire all’eccezione rinunciando, quindi, all’azione.
3. I problemi più gravi che la sentenza non definitiva di separazione pone sono legati alla possibile sovrapposizione tra la causa di separazione e quella di divorzio.
Come si è detto, il giudicato sullo status nel giudizio di separazione – cui si perviene con la sentenza non definitiva di separazione - e la scadenza del triennio dalla comparizione dei coniugi davanti al Presidente, costituiscono presupposti del divorzio che possono sopraggiungere quando nella causa di separazione è ancora in corso – in primo grado o anche in appello - la trattazione delle domande accessorie (addebito, assegno, affidamento dei figli).
In tal caso se uno dei due coniugi promuove la causa di divorzio si verifica la pendenza contemporanea tra le stesse parti di una causa di separazione e di una causa di divorzio.
Un’analoga situazione di sovrapposizione - già da tempo all’attenzione della prassi – si verifica tutte le volte in cui, dopo il giudicato sulla separazione, pendono contemporaneamente davanti allo stesso tribunale un procedimento di modifica delle condizioni di separazione ex art. 710 cpc e la causa di divorzio. In questo caso la giurisprudenza di legittimità ha difeso la piena autonomia dei due procedimenti negando la litispendenza (Cass. 5497/92 ) e affermando che l’interesse alla pronuncia sulla modifica dell’assegno persiste anche in pendenza di una causa divorzile (Cass. 7488/94 ). La giurisprudenza di merito ha risolto il problema in vario modo o negando che in sede divorzile si possano affrontare le questioni relative alle modifiche richieste nel procedimento ex art. 710 cpc (Corte d’appello Napoli, 22 marzo 2000 ) o, più empiricamente e ragionevolmente, attribuendo al giudice del divorzio il potere di occuparsi anche delle modifiche della separazione (Trib. Roma. 9 marzo 1996 ). In quest’ultimo caso sarà il giudice del divorzio ad affrontare e risolvere gli eventuali problemi pratici, per esempio di decorrenza dell’assegno, legati all’autonomia dell’assegno di separazione da quello divorzile.
La questione della sovrapposizione tra la causa di separazione e quella di divorzio richiede, però, di essere affrontata oggi con più sistematicità.
Intanto si può cominciare con l’osservare che, ove per ipotesi forse non paradossale, la causa di divorzio dovesse terminare prima di quella di separazione (si pensi ad un contenzioso in separazione sull’affidamento dei figli che si trascini per anni davanti alla Corte di cassazione e che i figli, nel frattempo diventati maggiorenni, non costituiscano più materia di trattazione per il giudice del divorzio) ne deriverebbe nel giudizio di separazione la necessità di una dichiarazione di cessazione della materia del contendere.
La situazione più problematica, però, ed anche statisticamente più diffusa, è quella in cui la trattazione delle questioni accessorie in sede di separazione dopo il giudicato sullo status si sovrapponga ad una causa di divorzio nella quale il giudice del divorzio è investito delle medesime questioni.
Che deve fare il giudice del divorzio quando è chiamato a trattare di un affidamento o un assegno di cui sta discutendo il giudice di primo grado o di appello della separazione?
a) La prospettiva della completa autonomia tra le due cause
Secondo un primo orientamento – in nome della completa autonomia dei due procedimenti – si ritiene che il giudice del divorzio possa continuare a trattare la causa senza porsi il problema dei rapporti con il giudizio di separazione.
Ed è quello che statisticamente avviene con maggiore frequenza nella aule dei tribubnali.
Con la conseguenza che si verifica una duplicazione di istruttoria, magari con la sovrapposizione di due CTU sull’affidamento o di due accertamenti di natura tributaria sul medesimo coniuge. Con violazione del principio di economia processuale e col rischio molto evidente di contrasti tra le decisioni.
b) La prospettiva della sospensione della causa di divorzio
Alcuni giudici sospendono la causa di divorzio – s’intende dopo la sentenza non definitiva di divorzio - in attesa del giudicato sulle domande accessorie nella causa di separazione. Il che, per esempio, in materia di assegno divorzile appare del tutto sensato ove, per esempio, in separazione si discutesse dell’addebito, attesi i riflessi dell’addebito sul tema se non altro della quantificazione dell’eventuale assegno divorzile. La sospensione non impedirà, perciò, al giudice del divorzio di riesaminare in piena autonomia le questioni già esaminate dal giudice della separazione.
In tal caso la ratio della sospensione del giudizio di divorzio è individuabile nella necessità di evitare duplicazioni di attività istruttoria ma anche nella opportunità soprattutto logica di basare la causa di divorzio sul giudicato della separazione.
Sennonché la sospensione del giudizio – che in ogni caso può lasciare sospeso per molti anni il processo di divorzio - trova ostacolo in quella giurisprudenza (Cass. 11567/2003 ) che nega la possibilità di una sospensione (che sarebbe una sospensione discrezionale) del processo civile oltre i due casi espressamente previsti nel codice di procedura civile della sospensione necessaria (per pregiudizialità art. 295) o su istanza di parte per quattro mesi al massimo (art. 296). E, come è stato affermato sempre in giurisprudenza (Cass. 733/2003 , Cass. 9471/1999 ) la pregiudizialità cui fa riferimento l’art. 295 cpc non è la pregiudizialità semplicemente logica ma giuridica, nel senso che la decisione in una causa dipende dalla soluzione di una controversia di cui si discute in un’altra causa. E francamente non si può dire che la decisione sulle domande accessorie in divorzio dipenda, per necessità giuridica, dalla soluzione che ne dà il giudice della separazione.
Se quindi la sospensione è corretta logicamente essa appare non fondata giuridicamente.
c) La prospettiva della continenza di cause
Il problema potrebbe essere risolto nella diversa prospettiva della continenza di cause.
Il codice di procedura civile contempla, al secondo comma dell’art. 39, la continenza di cause come ipotesi diversa dalla litispendenza (prevista al primo comma del medesimo articolo). In entrambi i casi la questione può essere sollevata senza limiti di tempo – e risolta con sentenza - non appena ci si avvede della situazione che la determina.
La litispendenza presuppone che tra le stesse parti siano pendenti due cause uguali nel petitum e nella causa petendi, determinandosi in tal caso, del tutto logicamente, la cancellazione dal ruolo della causa successivamente proposta come mero "doppione". E non è il caso del rapporto tra separazione e divorzio dove petitum e causa petendi sono diversi.
La continenza, invece, presuppone due cause identiche nei soggetti e parzialmente coincidenti nell’oggetto, legate da un nesso di interdipendenza che si risolve nel fatto che una di esse contiene in sé anche gli elementi dell’altra (Cass. 733/2003 ). L’art. 39, co. 2 c.p.c., nella prospettiva di favorire il simultaneus processus, lascia sopravvivere entrambe le cause attribuendone la cognizione (translatio iudicii) al giudice previamente adito se competente (altrimenti all’altro giudice se il primo è incompetente).
Non è agevole individuare linee interpretative uniformi in giurisprudenza su questo tipo di nesso di interdipendenza. Secondo una interpretazione (Cass. 5676/1979 , Cass. 6536/1993 ) sarebbe necessaria l’identità delle parti e della causa petendi mentre è differenziato il petitum. In questa prospettiva la continenza è vista come rapporto di stretta connessione e interdipendenza nel senso di petita contrapposti, o addirittura di conseguenzialità (Cass. 10676/1995 , Cass. 2709/1996 , Cass. 2922/1997 , Cass. 1571/1998 ).
Secondo un altro orientamento (Cass. 3397/1984 , Cass. 1908/1986 , Cass. 1178/1989 ) la continenza si verificherebbe anche in ipotesi di parziale coincidenza della causa petendi.
Ebbene, il processo di divorzio, nella parte in cui concerne le domande accessorie sviluppate anche in sede di separazione, realizza una situazione di continenza di cause (art. 39 co 2, cpc).
Quanto al petitum si osserva che il contenuto accessorio nelle cause di separazione e divorzio è pressoché analogo discutendosi di assegno e di affidamento dei figli. Questo contenuto si sovrappone benissimo a quello trattato in sede di separazione. La continenza si verifica altresì se in sede di separazione si dovesse discutere anche di addebito ed anche nell’ipotesi in cui in sede divorzile la trattazione non coincidesse con entrambi i temi (assegno o affidamento) trattati in separazione. E’ pacifico, infatti, secondo la giurisprudenza prima vista che la differenziazione del petitum non esclude il vincolo della continenza.
Vi è, però, anche quella parziale coincidenza nella causa petendi che secondo l’orientamento della giurisprudenza a cui ho fatto sopra riferimento consentirebbe ugualmente di applicare il meccanismo della continenza. Finora la giurisprudenza non ha mai applicato questa conclusione alle cause di separazione e divorzio ma ho la sensazione che non è affatto difficile ipotizzarne l’applicazione. Infatti benché la causa petendi della separazione (cioè l’intollerabilità della convivenza) non coincida specificamente con la causa petendi del divorzio (da individuarsi nella impossibilità di ripristinare la comunione materiale e spirituale del matrimonio) vi è certamente una coincidenza nell’essere entrambe queste cause connesse al rapporto matrimoniale. E si è visto nella giurisprudenza sopra citata in materia di continenza di cause come si riconosce pacificamente che il collegamento ad un medesimo rapporto negoziale, anche con domande contrapposte, non osta all’applicazione delle regole del simultaneus processus.
In campo matrimoniale questa connessione è stata riconosciuta – come anche si è visto – espressamente dalla giurisprudenza che si è occupata dei rapporti tra modifiche dell’assegno di separazione e processo di divorzio ammettendo la domanda di adeguamento dell'assegno di separazione nel corso del giudizio di divorzio “proprio per l'opportunità del simultaneus processus innanzi allo stesso giudice per la definizione delle questioni patrimoniali indubbiamente connesse” (Cass. 7488/94 ).
Pertanto per la risoluzione dei problemi legati al rapporto tra la causa di divorzio e quella di separazione ancora in corso in primo grado può essere applicato tranquillamente il meccanismo previsto per l’ipotesi di continenza tra giudici ugualmente competenti e il giudice della causa successivamente proposta (cioè quello del divorzio) dichiara con sentenza la continenza tra le due cause e fissa un termine perentorio (per esempio sessanta giorni dopo il giudicato sulla separazione) entro il quale le parti devono riassumere la causa davanti al primo giudice.
Questo meccanismo ha il pregio di rispettare le esigenze logiche che stanno alla base della prassi sulla sospensione e al tempo stesso di rispettare il codice di procedura civile.
Se lo stato in cui si trova la causa che dovrebbe attrarre l'altra non consente la translatio - come nel caso in cui la causa di separazione penda in appello o in sede di legittimità - il simultaneus processus non sarà possibile ai sensi dell'art. 39 c.p.c. e al necessario coordinamento tra le due vertenze dovrà provvedersi altrimenti. Quindi, nell’ipotesi in cui al momento dell’introduzione della causa di divorzio il giudizio sulle domande accessorie della separazione si trovi già davanti ai giudici di appello o in cassazione, non potrà trovare applicazione il meccanismo previsto per la continenza di cause che presuppone che le cause siano pendenti entrambi di fronte al giudici di primo grado. In tale ipotesi non sono immaginabili alternative che non siano la sospensione del processo di divorzio ovvero, per superare i problemi sull’ammissibilità della sospensione cui facevo prima riferimento, il rinvio della causa di divorzio fino a quando non si formi il giudicato sulla separazione.
4. A quale giudice va chiesto il divorzio?
La soluzione proposta di applicare le regole della continenza consente anche di avviare a soluzione un altro problema: quello del giudice al quale presentare domanda di divorzio.
Posto che – a seguito della riforma operata dalla legge 14 maggio 2005, n. 80 - la competenza funzionale e territoriale sia per la separazione che per il divorzio appartiene al medesimo tribunale, in particolare a quello del luogo di ultima residenza dei coniugi, si potrebbe ipotizzare che, se la causa di separazione è ancora pendente in primo grado, il presidente del tribunale dopo gli adempimenti presidenziali rinvii per la trattazione di fronte allo stesso giudice che sta trattando la separazione affinché riunisca, se non altro per motivi di economia processuale, i due procedimenti o quanto meno (ove vi fossero motivi giuridici per escludere la riunione) li tratti parallelamente.
D’altro lato la riunione di due procedimenti connessi davanti allo stesso giudice di fronte al quale entrambi pendono è prevista dall’art. 274 c.p.c. e non vi dovrebbero essere problemi a ritenere applicabile la medesima norma in caso di continenza tra le due cause.
La riunione è comunque un provvedimento discrezionale che si sottrae al giudizio di legittimità. Lo ha affermato anche la giurisprudenza recente ricordando che il provvedimento di riunione previsto proprio dall'art. 274 c.p.c., relativo alla stessa causa (riunione obbligatoria) o a cause diverse ma connesse (riunione facoltativa), ovvero dettato da motivi di economia processuale, essendo strumentale e preparatorio rispetto alla futura definizione della controversia, è rimesso al potere discrezionale del giudice di merito e non è sindacabile in sede di legittimità neanche attraverso l'impugnazione della sentenza che definisce il giudizio nel quale il provvedimento stesso è stato adottato (Cass. 19840/2004 ).
La trattazione di fronte allo stesso giudice si potrebbe de iure condendo anche ottenere attraverso l’introduzione di una norma che consenta ad una delle parti (o ad entrambe congiuntamente) di presentare domanda di divorzio, in presenza dei presupposti di legge, allo stesso giudice istruttore che sta trattando la domanda di separazione.
Il meccanismo non è ignoto in altri Paesi tanto che lo stesso Regolamento europeo sulle cause matrimoniali lo prevede (art. 5 del Regolamento 2201 del 2003) ove si afferma che l’autorità giudiziaria competente sulla separazione è anche competente - ove la legislazione dello Stato lo preveda - a convertire la domanda di separazione in domanda di divorzio.
Un meccanismo analogo è previsto da tempo in Francia dove il coniuge convenuto in separazione può chiedere al giudice che la separazione sia convertita in divorzio.
Si tratterebbe di introdurre il principio che, ove richiesto dalle parti, separazione e divorzio costituiscono, in fondo, due fasi di un medesimo contenzioso matrimoniale che è opportuno attribuire alla cognizione di un unico giudice.
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