La riforma MastellaIl Disegno di legge "Mastella" sulla giustizia civile.
di Claudio Cecchella
Professore di diritto processuale civile e fallimentare
all'Università di Pisa
1. L'ennesima riforma del rito.
Alcuni processualisti nel commentare l'ultima riforma intitolavano il loro contributo "Il processo civile di riforma in riforma" e un noto processualista, Claudio Consolo, ha raccolto suoi scritti sotto il titolo "Dieci anni e sei riforme del processo civile" (e non teneva ancora conto della produzione incontenibile degli anni 2005 e 2006), cionondimeno ormai non passa legislatura che il guardasigilli in carica non tenti la "sua riforma" volta per volta ispirato dal processualista più sensibile del momento.
Siamo all'ennesimo episodio, nonostante che la dottrina processualistica e gli operatori più attenti da tempo abbiano escluso l'opportunità di riforme del rito come terapie alla grave malattia della giustizia, colpita a morte dal virus del ritardo nella tutela, evidenziando come il problema sia ordinamentale, in termini di organici della magistratura (togata) e in termini di informatizzazione dei servizi di giustizia.
Ma l'attuale compagine governativa resta ancora suggestionata all'architettura dei riti e ai ritocchi minimi, ma non meno significativi, all'impianto della compagine che ha preceduto.
2. Il De profundis del rito societario.
Senza tenere in considerazione le gravi difficoltà suscitate dall'approssimazione della tecnica legislativa che aveva ispirato l'art. 70 - ter c.p.c., il disegno di legge governativo concepito sotto l'impulso del conclamato programma di una accelerazione dell'agonizzante processo civile, sembra far assurgere la citata disposizione a fonte unica di ispirazione della regolamentazione del processo societario.
Infatti il disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri il 16 marzo 2007 sconvolge, per il bene della giustizia civile, un intero decreto legislativo (il n. 5 del 2005 sul processo societario), con la introduzione di un terzo comma all'art. 70 -ter c.p.c.: <>. E' il trionfo dei detrattori del nuovo rito, come ha giustamente sottolineato Luiso in un recente contributo pubblicato su www.judicium.it ove si legge: "Si tratta, com’è evidente, di una scelta radicalmente “politica”, tesa a dare soddisfazione a chi, in questi ultimi anni, ha considerato il rito societario come la fonte di tutti i mali del processo".
Lo spunto di Luiso merita la massima attenzione, poiché ancora una volta si pensa (dopo le riforme degli anni 1973, 1990-95, 2003 e infine degli anni 2005-2006) che la terapìa per il morbo sia (ancora) una riforma del rito e non si è ancora inteso, dopo trenta anni di riforme, che il problema è essenzialmente di spesa pubblica, in termini di incremento degli organici, che allinei l'Italia alla Germania o alla Francia, di giudici e di personale di cancelleria nonché di informatizzazione del processo civile.
Ma quello che è peggio, non si è colto, pur nei limiti palesi del rito societario, quanto di positivo esso potesse avere per certe scelte radicali, ma in linea con sistemi di giustizia che hanno dimostrato - grazie anche alla maggiore attenzione ai problemi ordinamentali - una diversa efficienza dal processo italiano. Ci riferiamo evidentemente al monopolio della parte, nella fase della trattazione, pur con tutte le remore, ben evidenti, manifestate per altri aspetti dal c.d. rito delle società.
3. La nuova fase di trattazione ordinaria.
La manutenzione starordinaria del rito ordinario si misura ancora una volta con la fase di trattazione, croce e delizia dei riformatori a partire dagli anni novanta del secolo scorso.
Qui il futuro legislatore confida nella terapia dei termini e dei programmi offerti dal giudice, questi infatti - che può solo concedere i termini per il deposito di memorie ai fini dell'esercizio dello ius poenitendi delle parti e per la formulazione delle prove sulla base di "giusti motivi" (contraendosi in questo modo il processo ordinario a preclusioni che maturano con gli atti iniziali della prova e tutto riconducendosi poi alla fine ad un rito che assomiglia molto a quello del lavoro degli anni settanta ove le preclusioni maturano tutte e subito, con sconfitta inesorabile della verità sostanziale sulla verità formale) - fissa un calendario con udienze e termini in sede di udienza di trattazione, oppure, nel caso conceda i termini alle parti per lo scambio di ulteriori memorie, "progetta" l'intelaiatura del processo entro venti giorni. Orbene questa pianificazione che è stata salutata come il toccasana della giustizia civile, è da prevedere costituirà il progetto di un agonia, ove i principi di cui al nuovo art. 152 - bis delle disp. att. sulla durata (due anni per il giudizio di primo grado, due per quello di seondo e uno per il giudizio di legittimità), privo di concrete sanzioni, fa soltantro sorridere (in linea con la novellazione dell'art. 175 c.p.c.).
Torna invece la stagione dei tentativi di conciliazione, la cui obbligatorietà è restaurata, con tutte le conseguenze sulla parte assente (nuovo art. 185 c.p.c.) e dove si impone alle parti - è da pensare con le conseguenze di cui all'art. 116 c.p.c. (ma l'ipotesi resta nebulosa) - di esprimere formalmente le condizioni a cui è disposta a conciliare (obbligo che in un contesto contenzioso appare invero molto singolare e imbarazzante). Ma la previsione è in linea con la nuova etica "calvinista" che ispira il futuro riformatore, come sarà detto tra poco.
4. La sdrammatizzazione delle questioni di rito.
Vengono riscritte le norme sulla dinamica della questione di competenza (e di litispendenza e continenza), eccepita dalla parte solo in comparsa, e d'ufficio solo all'udienza di trattazione, e nel primo caso con l'onere dell'indicazione del giudice ritenuto competente al fine di favorire l'adesione dell'altra parte (salvo il caso della competenza per territorio inderogabile, art. 38 c.p.c.). Soprattutto non più giudicata nella forma della sentenza, ma con ordinanza reclamabile ai sensi del novellato art. 44 (cfr anche la novellazione degli artt. 39, 40, 47, 48, 49, 50, 295, 323, 324, e la abrogazione degli artt. 42, 43, 46).
Il lodevole intento di evitare il carico dei regolamenti di competenza (unito alla abrogazione del n. 2 dell'art. 360 c.p.c. relativo al motivo di legittimità fondato sulla competenza) incontra la difficoltà dell'art. 111 Cost. e quindi del ricorso straordinario, la cui applicazione potrebbe inficiare tutto il progetto governativo (anche se il ricorso straordinario è converito in appello ai sensi del novellato art. 339 c.p.c., con la prospettiva di un duplice grado !).
Ulteriore sdrammatizzazione scaturisce dal vizio di rappresentanza, assistenza o autorizzazione (a cui si unisce per la prima volta la nullità della procura), sanabili nel termine fissato dal giudice (art. 182 c.p.c.), ma con efficacia retroattiva e non più ex nunc.
5. Il processo civile si fa protestante.
Il processo civile viene inoltre moralizzato, sia attraverso la riscrittura dell'art. 88 sull'obbligo di lealtà, che viene tradotto - sul modello anglicano - in obbligo di verità, sia imponendo alla parte un'espressione positiva in sede di tentativo di conciliazione la cui minore o maggiore lontanza dai contenuti della sentenza finale determina anche la regolamentazione delle spese, non più fondata solo sulla soccombenza (nuovo art. 91 c.p.c.).
Quanto questa previsione sia in linea con l'attuale stato di moralizzazione della parte "continentale" italiana e quanto essa farà assurgere ulteriori questioni da proporre in sede di impugnazione (essendo quella della moralità uno dei temi in cui più si accendono gli animi), saranno i posteri a valutare. Qui si evidenzia solo una possibile previsione di un modesto operatore della giustizia.
Il soffio di etica faceva pensare ad una (finalmente) severa rilettura dell'art. 96 c.p.c. sulla responsabilità per danno provocato dal processo, con una riscrittura delle norme sull'abuso del processo.
La soluzione è deludente, essendo collocato nella disposizione un ultimo comma che prevede soltanto il pagamento di una sorta di penale civile (il doppio dei massimi tariffari) alla parte che agisce o resiste temerariamente (ma la fattispecie resta regolata, a differenza di molti ordinamenti europei, sulla colpa grave e quindi ancora di improbabile applicazione).
6. Il rafforzamento della tutela esecutiva.
Le misure coercitive volte ad assicurare l'adempimento degli obblighi di fare infungibili, e perciò insuscettibili di esecuzione forzata in forma specifica, per la necessità che la prestazione sia eseguita dall'obbligato, assai spesso connesse a situazioni giuridiche relative a beni fondamentali come la famiglia, il lavoro e così via, hanno finalmente accesso generale (e non più limitato a sporadici episodi), con la introduzione dell'art. 614 - bis c.p.c.
Il giudice che condanna all'obbligo di fare infungibile o di non fare può stabilire in sentenza - con l'efficacia del titolo esecutivo - che l'obbligato debba pagare una somma per l'inottemperanza (e questi potrà contestare l'avvenuto adempimento nelle forme della opposizione alla esecuzione).
7. Il rafforzamento della tutela sommaria.
E' esteso l'ambito della tutela sommaria non cautelare, con il nuovo art. 702 - bis c.p.c. (anche se restano ancora esclusi gli obblighi di fare e non fare): una sorta di settecento generalizzato, privo del presupposto del periculum.
Nei più recenti intereventi (dall'art. 19 del d. lgs n. 5 del 2004 alla legge n. 80 del 2005 che aveva riscritto l'art. 669-octies e l'art. 703 c.p.c.), aveva persuaso l'opportunità di lasciare il merito all'iniziativa della parte, conservando comunque gli effetti della misura sommaria, sui quali potevano placarsi gli animi dei litiganti, senza tuttavia dare ad essi la stabilità del giudicato.
Qualche difficoltà, sul piano dell'opportunità, pone invece il disegno governativo, che in difetto di merito introdotto in termini perentori assicura quegli effetti con la irrevocabilità del giudicato.
Infatti l'intento deflattivo è in tal caso pregiudicato, poiché la parte non potrà sopportare di subire il giudicato e sarà indotta alla cognizione piena, oltre ad essere poco tollerabili le poche garanzie offerte dal processo sommario alla difesa.
Ben venga una generalizazione del référé transalpino, ovvero di una tutela sommaria anche per gli obblighi di fare e non fare, ma questa venga mantenuta come binario parallalelo (come fanno i francesi) e non si contamini di qualità proprie della giurisidizione che si svolge nelle forme comuni e che conduce al giudicato.
L'effetto deflattivo di tale sistema è assicurato, ma non si costringa la parte alla cognizione piena.
8. Poteri d'ufficio e contraddittorio. Il giudizio di fatto.
La necessità del contraddittorio delle parti quando il giudice svolga una qualsiasi iniziativa officiosa (in ordine alla rilevazione di eccezioni o alla iniziativa probatoria), che già faceva capolino nell'art. 384, 4° comma c.p.c., è finalmente sancita generalmente nel nuovo art. 101, 2° comma, c.p.c., con la necessità di offrire alle parti un termine per memorie ove svolgere osservazioni e repliche.
Nel giudizio di fatto, con l'inciso "nonché i fatti non specificamente contestati" aggiunto al 2° comma dell'art. 115 c.p.c., si consente espressamente il fondamento della decisione sulla circostanza di fatto che non sia oggetto di espressa contestazione dalla parte (e la creatività avvocatesca avrà modo di esprimere la sua irrefrenabile fantasia nelle formule di contestazione che la prassi avrà agio di adottare).
9. La riduzione dei termini fissati alla parte e delle ferie dell'avvocato.
Il disegno è costellato di un generale intervento riduttivo dei termini consentiti, ad esempio l'annualità si trasforma in otto mesi (per impugnare art. 327 c.p.c.) o in sei mesi (per riassumere ex art. 392 c.p.c.) o in quattro mesi (per riassumere, artt. 50, 305, 306 c.p.c.), anche in tal caso nell'ingenua prospettiva di un'accelerazione del processo (che è lento quando si svolge e non quando non si svolge).
Sino alla riduzione dei termini feriali per l'avvocato, che cesserebbero con il 31 agosto e costituiscono in verità più un provvedimento punitivo per la categoria, piuttosto che una reale e seria terapia.
Ma proprio questi interventi sui termini denunciano in modo evidente l'inutilità del nuovo episodio e la necessità che il governo e il parlamento rivolgano la loro attenzione (finalmente) agli organici e ai servizi.
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