Appunti sulla mediazione dopo la riforma con il d. lgs. n. 28 del 2010 e la legge n. 183 del 2010.
La mediazione dopo la riforma con il d. lgs. n. 28 del 2010 e la legge n. 183 del 2010.
Note per gli studenti del corso di diritto processuale civile anno accademico 2010/2011
di Claudio Cecchella
1. L’origine privatistica dei tentativi obbligatori.
Sul piano legislativo una disciplina della conciliazione è espressione della più recente evoluzione normativa, alla fine del secolo scorso e all’inizio del presente, dovuta al rilievo nell’ordinamento dello Stato offerto ad alcune esperienze, espressione dei corpi intermedi della società civile, associazioni e società, i cui statuti ed atti costitutivi contenevano una clausola di obbligo degli associati o soci ad esperire, prima di avviare la domanda di tutela dei diritti in sede giurisdizionale, un tentativo di conciliazione svolto in seno all’organo dell’associazione o società.
Il fenomeno era noto soprattutto nell’ambito associazionistico sviluppatosi attraverso il movimento sindacale dei lavoratori e dei datori di lavoro, che offriva istanze conciliative e arbitrali alla risoluzione della controversia, prima che essa attingesse alla giurisdizione (molto più conciliative che arbitrali, nel segno della scarsa evoluzione e maturità del movimento sindacale in Italia, a dispetto delle forme di giustizia privata più evolute manifestate nella realtà anglosassone e nordamericana).
Si trattava, evidentemente, di un modo attraverso il quale il corpo intermedio tentava di trattenere a sé la lite, evitando che attingesse agli organi di giustizia dello Stato.
L’esperienza di tentativo obbligatorio di conciliazione nell’ambito associazionistico è emerso non solo nel diritto del lavoro, ma anche nel diritto agrario e nel diritto delle locazioni.
Il legislatore ha fatto emergere un’esperienza di conciliazione come condizione dell’azione, nel 1978, in relazione alle controversie locatizie sull’equo canone, nel 1982 nelle controversie agrarie e nel 1998 nelle controversie di lavoro. In questo modo il tentativo obbligato riconciliazione non è stato altro che il recepimento delle esperienze privatistiche di autonomia privata dell’associazionismo sindacale.
2. La conciliazione giudiziale secondo la più recente normativa.
L’ordinamento in precedenza conosceva solo l’esperienza di una conciliazione facoltativa ma all’interno della giurisdizione, attraverso una normativa che oggi è tutta contenuta nell’art. 185 c.p.c. per il rito ordinario.
Nel rito del lavoro invero, a partire dal 1973 la conciliazione giudiziale non è più facoltativa, essendo imposto un previo tentativo, all’udienza di discussione ex art. 420 c.p.c.
Invero anche nel rito ordinario, a seguito della riforma dovuta dalla legge n. 353 del 1990 il tentativo di conciliazione in limine litis era diventato obbligatorio, secondo il modello del rito lavoro. A seguito della novella del 2005, con la legge numero 80, il tentativo si è tuttavia trasformato in facoltativo (essendo prevalsa con la complicità del giudice una prassi contraria), su istanza delle parti oppure su iniziativa discrezionale del giudice. Questo nella formulazione dovuta alla recente novella, l’articolo 185 c.p.c. sancisce altresì il diritto della parte di farsi rappresentare da un procuratore speciale, da delegare con atto pubblico o scrittura privata, eventualmente anche autenticata dal difensore tecnico. La norma non offre rilievo nel giudizio agli atti, alle dichiarazioni e informazioni acquisite in sede di tentativo, salvo che il rappresentante della parte, senza giustificato motivo, non conosca i termini della controversia in vista del tentativo, poiché in tal caso da tale comportamento il giudice può desumere argomenti di prova (che come è noto non consentono di fondare la decisione, ma di dirigere il libero apprezzamento nella prova libera).
Vi è stato tuttavia un recente intervento, pure in relazione al tentativo di conciliazione nelle controversie di lavoro. A seguito della recente legge n. 183 del 2010 è stato novellato l’articolo 420 c.p.c., il quale ha conservato il carattere obbligatorio del tentativo; ma contro una secolare tradizione, il giudice può dare – secondo la nuova formulazione- rilevanza nel giudizio all’ingiustificato rifiuto della parte di aderire alla proposta mediativa che lo stesso giudice formula: si tratta di una scelta molto inopportuna per il concreto svolgersi positivo del tentativo, come sarà possibile evidenziare nella trattazione che segue.
Viene, poi, consacrato un ruolo mediativo del giudice che non è solo inopportuno, ma che rischia di fare oscillare pericolosamente il giudicante sull’orlo della ricusazione. Sin tanto che il giudice tenta la conciliazione, mantenendo una posizione neutrale, nulla quaestio; ma quando il giudice viene spinto a suggerire la soluzione conciliativa è difficile pensare che non esprima un parere o peggio ancora non anticipi una pronuncia (art. 50, n. 4, c.p.c.). Il giudice deve svolgere il delicato compito di giudicare, la mediazione deve essere affidata ad organismi estranei alla giurisdizione, altrimenti viene snaturata la posizione di terzietà ed imparzialità del giudicante che ha il rango di principi della Costituzione.
Differentemente del rito ordinario, ove il tentativo è facoltativo, permane nel rito del lavoro l’obbligatorietà, che la giurisprudenza ha sanzionato di nullità in caso di mancato esperimento, con un orientamento molto severo, poi non confermato in sede di rito ordinario, nel breve periodo della obbligatorietà (dl 1995 al 2005).
3. La conciliazione stragiudiziale ovvero la mediazione obbligatoria su fonte convenzionale.
Accanto ad un’esperienza di conciliazione giudiziale, di cui si sono delineati i tratti nella più recente produzione normativa, come abbiamo già veduto, il legislatore ha tenuto presente un’esperienza conciliativa obbligatoria nell’espressione dell’autonomia privata.
Vi è da dire, tuttavia, che sin tanto la obbligatorietà sul piano convenzionale non fosse stata recepita dal legislatore, le clausole che imponevano sul piano privatistico l’obbligo erano nulle perché dstinate ad incidere su di una funzione pubblica come la giurisdizione, la quale può essere limitata solo da negozi giuridici tipici, come l’accordo sulla competenza o sulla giurisdizione nei casi consentiti, la convenzione d’arbitrato, per fare degli esempi.
Il legislatore nel recepire le clausole contrattuali, non ha fatto altro che tipizzarle e quindi legittimarle.
L’articolo 5, 5° comma, del d. lgs n. 28 in esame attribuisce per la prima volta ai patti che impongono un tentativo di conciliazione contenuti in un contratto o nell’atto costitutivo o nello statuto di un ente lo stesso effetto di un tentativo obbligatorio ex lege.
In questo modo il recepimento della evoluzione della conciliazione, come manifestazione della autonomia privata, raggiunge l’apice.
4. La conciliazione stragiudiziale nel diritto del lavoro.
A fronte della tradizione secolare di una conciliazione obbligatoria nel diritto del lavoro, con la legge n. 183 del 2010 il legislatore ammette nelle controversie ex art. 409 c.p.c. un tentativo di conciliazione solo facoltativo nel nuovo testo novellato dell’art. 410 c.p.c. (è da pensare che l’eventuale obbligatorietà sancita da clausola di fonte collettiva possa comunque rientrare nell’art. 5, 5° comma, poc’anzi commentato).
Deroga all’inaspettata liberalizzazione la controversia sulla qualificazione del rapporto di lavoro in sede di certificazione intersindacale, dove è previsto un tentativo obbligatorio davanti all’apposita commissione, nel contesto del quale la stessa norma (art. 80 del d. lgs n. 276 del 2003) offre rilievo al comportamento complessivo della parte solo agli effetti della regolamentazione delle spese e dei danni per l’attività processuale, artt. 91, 92 e 96 c.p.c.
Al contrario (il legislatore non smette mai di sorprendere l’interprete) il comportamento della parte di mancata accettazione della proposta mediativa ha rilievo ai fini del giudizio, il che vuol dire che – contro la disciplina adottata nella mediazione di diritto comune con il d. lgs. n. 28 v infra par. 10, ove il riflesso è soltanto sulle spese – incide, ma non è dato capire in che termini, sul merito della controversia (art. 411, 2° comma, c.p.c.). Di fronte alla lacuna, l’interprete ormai abituato ad acrobazie nell’applicazione della norma processuale, è da pensare che il rilievo sia soltanto quello di un argomento di prova, non certo di una prova vera e propria. Il danno provocato alla libertà di espressione delle parti nel tentativo è tanto ed è minato alla radice il successo della conciliazione che rende del tutto inutile la previsione legislativa contenuta nell’art. 410 c.p.c.
Ancora difformemente dalla soluzione di diritto comune, con una scelta questa volta migliore, l’exequatur del verbale di perfezionamento della conciliazione (con il doppio passaggio presso la Direzione provinciale del lavoro, art, 411, 3° comma c.p.c., in caso di conciliazione sindacale), affidato al tribunale in qualità di giudice del lavoro (e non del suo presidente) si conserva sul binario di una valutazione di regolarità formale senza oltrepassare il confine di un rito contenzioso avente ad oggetto il rispetto della norma imperativa (continuando a valere nelle controversie di lavoro la stabilità dell’ultimo comma dell’art. 2113 c.c., in caso di violazione della norma imperativa di legge o di contratto o accordo collettivo).
Altra novità degna di rilievo, pure essa non rinvenibile nella disciplina comune, è la possibilità di offrire alla commissione di conciliazione intersindacale un mandato per una risoluzione arbitrale della controversia, art. 412, 1° comma, c.p.c., che conduce però al diverso argomento, non meno rilevante agli effetti del calmieramento del contenzioso giurisdizionale, dell’arbitrato.
5. La nuova ipotesi di una conciliazione giudiziale affidata ad un’istanza stragiudiziale.
Ma la riforma ha un altro pregio (che la successiva legge sulle controversie di lavoro non coglie), quella di ammettere un’iniziativa del giudice, che deve manifestarsi prima della udienza di precisazione delle conclusioni o di discussione (perchè da quel momento in poi il giudice deve assumere il suo ruolo di dispensatore di un giudizio, in cui una parte vince e una parte perde), volta ad affidare le parti ad un’istanza di mediazione stragiudiziale.
Il profilo, per chi ha esperienza pratica di controversie, non può non essere ritenuta assai opportuna, ogni qual volta si avverte che le parti sono vicine ad una conciliazione della controversia, opportuna perché affida il tentativo ad uno svolgimento esterno alla giurisdizione, nel quale non può né deve essere coinvolto il giudice, il cui compito è di giudicare e non di mediare (disastrosa nella diversa formulazione già colta per le controversie di lavoro, cfr par. 2).
Naturalmente il tentativo del giudice deve incontrare la volontà delle parti e l’effetto è ancora quello di un tentativo obbligatorio di mediazione, di cui si dirà tra breve (par. 6).
6. Il tentativo obbligatorio ex lege, in particolari materie, il suo effetto e la sua costituzionalità.
L’art. 5, 1° comma, del d. lgs. n. 28 individua alcune materie (con una soluzione in alcuni casi incomprensibile, per cui se ne lascia la lettura ad una diretta percezione della norma) nelle quali l’azione deve essere preceduta da un tentativo obbligatorio, presso un organismo abilitato secondo le previsioni della legge e del regolamento attuativo.
La violazione della disposizione deve essere rilevata dalla parte che ne ha interesse e dal giudice entro la udienza di trattazione (quando invece è fondata su di un contratto, il rilievo è comprensibilmente solo della parte nel primo atto difensivo, 5° comma).
Il rilievo non conduce ad una sentenza processuale di inammissibilità dell’azione che chiude il processo in rito, né ad una sospensione del processo come condizione di procedibilità della domanda, crea (a valere anche per le altre ipotesi della conciliazione ex contractu o stimolata dal giudice, parr. 3 e 4) semplicemente un rinvio della udienza per un lasso di tempo sufficiente a consentire l’esperimento del tentativo: quattro mesi ex art. 6 del d. lgs. n. 28 del 2010.
Si tratta di una soluzione pregevole, sul piano della opportunità e sul piano della costituzionalità.
Della opportunità, poiché esclude l’onere della riassunzione a carico della parte, con tutte le problematiche imposte dal rispetto di termini perentori che possono in caso di inosservanza integrare una fattispecie estintiva del processo, con grave perdita degli effetti sostanziali e processuale della domanda.
Della costituzionalità, poiché l’azione giurisdizionale può essere condizionata ma non esautorata dei suoi effetti e prima di tutto degli effetti della domanda, a cui conduce l’ipotesi della inammissibilità diversamente da quello della improcedibilità, che quegli effetti fa salvi. Quindi è in linea con la garanzia costituzionale dell’azione un tentativo obbligatorio la cui violazione non conduce ad una definizione in rito del processo, ma solo una pausa in esso (la improcedibilità), che conserva gli effetti della domanda originaria (contrariamente all’esperienza giurisprudenziale delle controversie agrarie).
7. Le controversie nel diritto della famiglia.
Sorprendentemente, salvo il fugace cenno ai patti di famiglia, il legislatore dimentica la materia più bisognevole di un intevento mediativo, per i costi sociali e personali della controversia familiare, che trascina con sé assai spesso gli interessi del minore.
L’occasione era ghiotta per una codificazione, magari con norma ad hoc.
Si è forse voluto tenere fuori la materia dalla competenza degli organismi di conciliazione, poco preparati professionalmente a ricevere il contenzioso familiare. Certamente il diritto di famiglia necessita di una previsione non più procastinabile.
Il tutto resta relegato alla lacunosa disciplina dell’art 155-sexies, 2° comma, c.c., che abilita il giudice, prima di pronunciare i provvedimenti di affidamento, ma solo sul consenso delle parti, ad avviare un intervento mediativo da parte di esperto (magari come è prassi in sede di consulenza). La norma lascia incerta la serietà del centro di mediazione ove il giudice potrà rivolgersi (a differenza dei criteri selettivi di individuazione degli organismi dispensatori di mediazione nel diritto comune) e già per questo necessita di una disciplina integrativa, che auspicabilmente dovrà ripensare le soluzioni generali per l’intera materia.
8. Le esenzioni.
La stessa ragione costituzionale, che fa divieto di una definizione in rito del processo in difetto di esperimento del tentativo, ne esclude il rilievo in relazione ad una domanda cautelare, che non tollera ritardi rispetto alla sua funzione di prevenire un danno grave ed irreparabile al diritto.
Per la identica funzione latu sensu cautelare, ugualmente non tollera ritardi la trascrizione della domanda. Art. 5, 3° comma cit.
L’esenzione è tuttavia ampliata dal legislatore, per il caso dei procedimenti a cognizione sommaria: monitori (di ingiunzione e convalida di licenza e di sfratto), possessori, camerali. Ma anche procedimenti a cognizione piena: l’opposizione a decreto ingiuntivo sino ai provvedimenti anticipatori ex artt. 648 e 649 c.p.c.; i procedimenti di cognizione incidentali nel processo esecutivo; i procedimenti civili esercitati in sede penale.
La ratio si fa apprezzare, per i procedimenti sommari, il cui carattere anticipatorio è incompatibile con le pause imposte dal tentativo (a valere anche per quelli pronunciati in sede di opposizione a decreto ingiuntivo).
Quanto agli altri casi a cognizione piena, è la particolare sede – quella esecutiva o quella penale – che rende meno opportuno il tentativo.
9. I riflessi sugli obblighi del difensore tecnico.
Il legislatore ha ritenuto opportuno far gravare sui difensori tecnici gli obblighi di informativa alle parti, senza neppure concedere agli avvocati un ruolo istituzionale nel tentativo, pur nel rilievo delle opzioni esercitate in esso dalle parti, seppure solo ai fini delle spese in sede giurisdizionale.
La violazione degli obblighi di informativa, da formalizzare con modalità tassative (in forma scritta con atto da allegare all’atto introduttivo, art. 4, 3° comma, d. lgs n. 28), ha conseguenze sulla validità del mandato, rendendolo annullabile, quindi invalidabile su istanza di parte.
La disciplina è assai criticabile per vari aspetti.
Perché rovescia sul difensore tecnico le conseguenze della disinformazione, minando i suoi diritti nascenti dalla prestazione di lavoro intellettuale, con il privare di effetti il mandato che ne costituisce il titolo.
Perché non lascia intendere le conseguenze sugli atti processuali compiuti: l’invalidazione ne provoca la caducazione e la non riferibilità alla parte? Con tutte le conseguenze in termini di nullità o addirittura inesistenza degli atti, colpendo a morte il valore della certezza degli atti del processo.
In difetto di prova dell’informativa, l’obbligo si trasferisce nel giudice in udienza.
10. La processualizzazione del tentativo.
Avere affidato la lite sui diritti ad un procedimento, seppure destinato ad una soluzione conciliata, rende inevitabile la necessità che in esso penetrino le garanzie del giusto processo.
Il principio della domanda, poiché l’istanza deve contenere tutti gli elementi di una sua identificazione, in difetto il tentativo non potrà dirsi esperito sull’oggetto della domanda (art. 4, 2° comma d. lgs. n. 28) e produce tutti gli effetti della domanda sulla prescrizione e sulla decadenza, art. 5, 6° comma, con un effetto sospensivo della decadenza, ma per una sola volta.
Il principio di terzietà e imparzialità del mediatore (art. 14), a cui si devono informare i regolamenti degli organismi di conciliazione, art. 3, 2° comma, d. lgs. cit., e di cui è corollario il dovere di riservatezza (art. 9 d. lgs. cit.).
Il principio del contraddittorio, rendendosi necessario che il destinatario del tentativo sia reso edotto della istanza e dei suoi contenuti in forme idonee allo scopo (art 8, 1° comma, d. lgs, cit.).
Al contrario il legislatore sembra dimenticare il principio dell’organo precostituito per legge, fissando la competenza sulla base dell’iniziativa della parte che si è mossa per prima, art. 4, 1° comma d. lgs. cit.
11. Gli effetti della conciliazione fallita.
La concreta possibilità di giungere ad un esito positivo del tentativo è abbandonato alla libertà delle parti di esprimere le proprie pretese e soprattutto la disponibilità a concederle, seppure in parte, alla corrispondente concessione dell’altra, nella logica della transazione; libertà che impone di rendere immuni le dichiarazioni, gli atti e le informazioni acquisite in sede di tentativo, nella futura sede giurisdizionale.
Contrariamente le parti sarebbero restìe a concedersi con libertà e senza pregiudizi alle tecniche di conciliazione offerte dal mediatore.
Per questa ragione, e correttamente (in contrasto con la successiva scelta del legislatore delle controversie di lavoro, cfr. par. 2 e 4) l’art. 10 sancisce l’irrilevanza di dichiarazione e informazioni acquisite nella successiva sede giurisdizionale.
Naturalmente l’ingiustificato ostruzionismo a partecipare al tentativo è sanzionato come comportmento valutabile ex art 116, 2° comma, c.p.c., opportunamente richiamato dall’art. 8 del d. lgs. cit.
La norma protegge intensamente l’immunità della parte, col divieto di prova testimoniale, sinanche del deferimento del giuramento decisorio sul fatto verificatosi in occasione del tentativo e con il segreto che può essere invocato dal mediatore (e non soltanto innanzi all’autorità giurisdizionale).
L’immunità può essere solo rimossa dalla parte che ne ha interesse (art. 10, 1° comma, cit.).
Anche la mancata adesione alla proposta mediativa non può avere rilievo sul merito della successiva controversia giurisdizionale, salva la regolamentazione sulle spese.
Quest’ultimo aspetto rende necessario un approfondimento.
L’art. 13 del d. lgs. cit., sancisce una graduazione, tra un obbligo e un potere discrezionale del giudice.
Obbligo, se il giudizio finale coincide con la proposta mediativa, di escludere il vincitore dal recupero delle spese di giudizio e di conciliazione e di condannarlo a pagare le spese dell’altro, sino all’applicazione anche di una sanzione economica ulteriore a favore dello Stato. Tuttavia il richiamo all’art. 92 c.p.c. e alla opzione in esso codificata sulla compensazione delle spese, lascia spazio per una scelta che consente l’esercizio di un potere discrezionale anche nell’ipotesi. Il giudice potrà comunque fare uso anche degli effetti condannatori imposti dalla responsabilità processuale aggravata ex art. 96 c.p.c. (particolarmente 3° comma); qui il legislatore aggiunge un profilo sul quale non avremo certamente dubitato.
Il potere di regolamentazione delle spese è invece discrezionale se il giudizio finale si discosta dalla proposta mediativa, poiché in tal caso il giudice può escludere il recupero delle spese sostenute nella fase di conciliazione, ma solo per gravi ed eccezionali ragioni.
Resta da intendere come possa inserirsi l’art. 91, 1° comma, c.p.c., nel testo dovuto alla legge n. 69 del 2009, che la riforma introdotta con il d. lgs n. 28 ignora.
L’applicazione della norma codicistica è evidentemente presclusa nel caso della coincidenza tra contenuti del giudizio finale e proposta mediativa, poiché in tal caso è applicabile l’art. 13, 1° comma e al massimo l’art. 92 c.p.c.
E’ invece un alternativa praticabile dal giudice, rispetto al 2° comma dell’art, 13 cit., quando non vi è perfetta coincidenza tra giudizio e mediazione, consentendo al giudice di esonerare la regolamentazione delle spese dal principio di soccombenza, cui si sostituisce quello del rifiuto ingiustificato ad aderire alla proposta mediativa; anche in tal caso è comunque fatto salva la misura della compensazione parziale o totale dell’art. 92 c.p.c.
In tutti i casi, secondo l’evoluzione legislativa che ha caratterizzato l’art. 92 c.p.c., il giudice deve motivare in modo espresso ed esplicito le sue determinazioni sulle spese, consentendo un sindacato anche del giudice di legittimità.
Ponendosi la regola sulle spese in relazione alla proposta mediativa e alla giustificatezza o meno delle ragioni che hanno spinto la parte a non aderirvi, questo tema deve essere ulteriormente approfondita.
Il tentativo invero non conduce sempre ad una proposta mediativa, potendo questa discendere da un’iniziativa discrezionale del mediatore, dovuta solo se le parti lo richiedono (art. 11, 1° comma, cit.). Nel caso di proposta mediativa effettivamente praticata si innesta un vero e proprio procedimento che avvia la manifestazione di un’espressione esplicita delle volontà delle parti in reazione alla proposta, preceduta da opportuno ammonimento del mediatore alle parti sulle conseguenze di un ingiustificato rifiuto di aderire.
Gli arbitri sono affidatari di una maggiore discrezionalità anche nelle misure sulle spese, perché non assoggettati alle disposizioni sin qui commentate (art. 13, 4° comma).
12. Gli effetti della conciliazione perfezionata.
Se alla proposta mediativa aderiscono le parti o se comunque queste si conciliano, il mediatore forma verbale degli accordi e autentica le sottoscrizioni (con una funzione che non pare consentire una pubblica fede sino a querela di falso: ne è riprova la necessità della autentica da parte di un pubblico ufficiale, nel caso che il verbale contenga patti che rendono necessaria la trascrizione).
Gli accordi possono essere rafforzati con misure coercitive, sul modello di quelle introdotte con la legge n. 69 del 2009, dall’art. 614 – bis c.p.c.
Il verbale è titolo per l’esecuzione, sia espropriativa che in forma specifica (art. 12), nonché per l’iscrizione di ipoteca, ma tale efficacia discende dall’exequatur concesso dal presidente del tribunale.
Su questo exequatur si addensano ulteriori nubi nelle scelte legislative.
Non si tratta – dopo una tradizione secolare per conciliazione e arbitrato – di un controllo di sola regolarità formale (provenienza dell’atto e autenticità delle sottoscrizioni), ma di un controllo sostanziale di legalità, essendo richiesto al presidente un sindacato sul rispetto delle norme imperative e di ordine pubblico. Tutto ciò trascina su un piano di incertezza l’esecutività, conducendola ad una sostanza contenziosa che non ha ragione di essere, ove si pone seriamente il problema della difesa tecnica della parte e della garanzia del controllo di legittimità innanzi alla Suprema Corte.
Peraltro in materie, come quella laburistica e affini (ex art. 2113 c.c., ultimo comma), la conciliazione era ed è destinata a resistere anche alla violazione della norma imperativa, resistenza che non è riconosciuta dalla recente riforma, non resta che prenderne atto in termini di nuove e futuri contenziosi, anche a seguito di una conciliazione perfezionata.
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