La riforma dei riti
La soppressione del rito societario e la revisione dei riti a cognizione piena (relazione al Convegno La riforma del codice di procedura civile, Bologna, 14 settembre 2009)
di Claudio Cecchella
Sommario: 1. Problemi applicativi delle riforme del 1990/1995: le ragioni del rito societario; 2 Le risposte del rito societario e i nuovi problemi indotti al rito civile; 3. Il primo sintomo di agonia del rito societario: la sua sopravvivenza come rito concordato; 4. La riforma del 2005: la concentrazione della trattazione in un’unica udienza e la oralità del processo civile.; 5. Il nuovo regime delle preclusioni e i riflessi sulla disciplina degli atti introduttivi; 6 Il nuovo regime delle deroghe alle preclusioni per ragioni di contraddittorio e ius poenintendi; 7. Le ragioni del fallimento del rito societario. 8. La delega sui riti. L’occasione mancata. 9. Principi direttivi.
11 Problemi applicativi delle riforme del 1990/1995: le ragioni del rito societario. Con la l. 26 novembre 1990, n. 353, il processo civile di cognizione ordinaria era stato oggetto di una profonda riforma, risolvendo nell'ultimo decennio del secolo una stabilità normativa della durata di quaranta anni.
L'impianto originario del codice era infatti mutato sensibilmente solo per effetto della l. 14 luglio 1950, n. 581, che aveva condotto alla eliminazione dell'originario regime di preclusioni alle attività difensive delle parti, conducendo il processo civile ad un modello in cui la fase di trattazione era diluita lungo tutto il corso del procedimento senza mai esaurirsi, sino al culmine del processo, potendo le parti, anche alla udienza di precisazione delle conclusioni, allegare nuovi fatti oppure dedurre nuovi mezzi di prova, con il rischio che il processo potesse in ogni momento retrocedere ad una fase cronologicamente esaurita, per trattare e sottoporre al contraddittorio i nova a cui erano abilitate senza limiti le parti.
Nel 1990 si apre la stagione - sulla suggestione del modello adottato sin dal 1973 (legge 11 agosto 1973, n. 533) per le controversie di lavoro e assimilate - degli interventi sul rito, con la introduzione di preclusioni iniziali diluite tra atti introduttivi e udienza di trattazione in relazione ai diversi mezzi difensivi, quale antidoto alla profonda crisi vissuta dalla giustizia civile, in termini di celerità dei risultati e quindi di effettività dei mezzi di tutela giurisdizionale.
Tuttavia la riforma da subito stenta nelle opzioni di fondo, poiché prima ancora che le nuove disposizioni entrino in vigore, la scelta originaria del 1990 (legge 26 novembre 1990, n. 353) viene significativamente attenuata nel 1995, con la legge 20 dicembre 1995 n. 534, che costituisce la base normativa sulla quale è interventa prima la riforma del 2005 e poi quella del 2009.
Se, per l'esperienza successiva, agli occhi degli operatori della attuale congiuntura, quel progetto è inesorabilmente fallito, esso aveva quanto meno l'utilità di proporre un modello razionale al processo civile, evitando che esso, superata una fase, potesse sempre retrocedervi, soltanto perché in ogni momento poteva, a seguita dei nova introdotti dalle parti, riaprirsi una trattazione e ciò addirittura anche dopo l'esaurimento della fase istruttoria o all'epilogo del procedimento quando le parti si rimettono al giudizio.
Alla degenerazione della c.d. controriforma degli anni cinquanta veniva opposta alle attività assertive e istruttorie delle parti la barriera di una fase iniziale del processo, coincidente con la trattazione, all'esito della quale erano in modo definitivo fissati l'oggetto (thema decidendum) e la fattispecie (thema probandum) della cognizione e il processo doveva assumere un cammino spedito verso l'alternativa tra fase istruttoria o fase decisoria vera e propria, senza alcun ritorno alla trattazione. Il modello era ben evidente negli artt. 180, 183 e 184 c.p.c. (e nel nuovo regime dell'art. 167 c.p.c.).
Oltre alla razionalizzazione della dinamica del processo, quel modello aveva poi il pregio di introdurre una progressività nel maturarsi delle preclusioni, differenziata in relazione alle varie attività difensive.
Nell'impianto del 1990, il legislatore definitiva in primo luogo un termine di decadenza in relazione alle attività assertive delle parti, ovvero alle allegazioni fattuali (fatti costitutivi, modificativi, impeditivi ed estintivi), coincidente con gli atti introduttivi e, quindi, un termine successivo fissato alla udienza di trattazione per la formulazione dei mezzi istruttori, con una soluzione assai equilibrata sul piano del principio di eventualità, evitando che le parti fossero costrette a dedurre "alla cieca" prove del tutto inutili perché riferite a fatti non contestati o irrilevanti (a cui rischia di portare un processo con preclusioni omnicomprensive e coincidenti con gli atti introduttivi, secondo il modello del rito del lavoro). In questa direzione appariva centrale lo svolgimento della (tendenzialmente unica) udienza di trattazione, dell'interrogatorio "ad clarificandum" delle parti, con il quale oltre ad ottenere precisazione sui fatti rilevanti si poteva acquisire l'ambito della effettiva contestazione e quindi del thema probandum; lo svolgimento del contraddittorio dell'attore in relazione alle attività assertive del convenuto con la pienezza dei poteri difensivi (domande, chiamate di terzi, eccezioni) e dello stesso convenuto mediante note scritte nel termine fissato per contraddire i nova discendenti dall'esercizio del contraddittorio dell'attore in udienza; per tutte le parti in udienza o in forma scritta nel termine fissato sul presupposto di "giusti motivi" di uno ius poenitendi (precisazione e modifica di domande, eccezioni e conclusioni).
In sostanza ne risultava esaltata l'assoluta centralità, se non esclusività, della udienza disciplinata dall'art. 183 c.p.c. ed una trattazione prevalentemente orale, essendo quella scritta assoggettata ad un'autorizzazione del giudice (cfr. l'art. 180 e l'art. 183, 4° e 5° comma c.p.c. nella disciplina risultante dalla riforma del 1990).
Sulla scia di una elaborazione della commissione ministeriale presieduta dal Prof. Giuseppe Tarzia, l'impianto della riforma del 1990 viene modificato in modo rilevante nel 1995. L'attività assertiva si diluisce in due fasi, quella della allegazione dei fatti costitutivi a fondamento della domanda, da esaurirsi a pena di decadenza con gli atti introduttivi, quella invece assertiva dei fatti che fondano un'eccezione (estintivi, modificativi e impeditivi) da proporsi nel termine che il giudice fissa all'udienza di prima comparizione ex art. 180 c.p.c. anteriormente all'udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c. Mentre le prove devono essere dedotte, a seguito della trattazione delle questioni in fatto alla udienza di prima trattazione e dell'eventuale incremento del thema probandum per l'esercizio del contraddittorio o del limitato ius poenitendi consentito, nella seconda udienza di trattazione ex art. 184 c.p.c., o nel termine in essa fissato.
Ne consegue la scissione del processo sostanzialmente in tre udienze, un'udienza di prima comparizione ex art. 180 c.p.c.; un'udienza di prima trattazione ex art. 183 c.p.c. e infine un'udienza di seconda trattazione ex art. 184 c.p.c., ovvero l'eliminazione della originaria centralità dell' udienza disciplinata dall'art. 183 c.p.c., ma soprattutto una forte propensione allo svolgimento in forma scritta della trattazione, a causa dei termini che vengono scanditi nelle varie udienze che si susseguono, termini non assoggettati ad autorizzazione discrezionale del giudice.
Nella evidente diversità dei modelli sovrapposti in soli 5 anni e senza che la soluzione adottata legislativamente nel 1990 abbia mai avuto l'occasione di una effettiva applicazione, per la pluriennale vacatio legis, si faceva tuttavia apprezzare la progressività delle preclusioni. Su questo aspetto è bene insistere, per la differente soluzione ancor più di recente adottata nell'ambito della riforma delle società commerciali.
Nel rito del lavoro o delle locazioni (ma anche agrario), caratterizzati da fattispecie fortemente tipizzate dal legislatore e perciò maggiormente ripetitive, per i minori margini di espansione dell'autonomia, ove il compito del difensore era ed è relativamente più facile (tanto che in alcuni casi è dettata addirittura una disciplina espressa del legislatore sull'onere probatorio, si pensi all'art. 5 della legge 15 luglio 1966, n. 604 sui licenziamenti individuali), si giustifica forse una maggiore severità di un sistema a preclusioni tutte coincidenti con gli atti introduttivi.
In coerenza con le fattispecie atipiche espresse dall'autonomia dei privati proprie del rito ordinario, con una casistica complessa e assai spesso non ripetitiva, si fa preferire invece il diverso modello a preclusioni diluite nel corso del processo e sino al culmine della fase di trattazione, oltre la quale ogni novità è definitivamente preclusa.
Il pregio rispetto alla riforma del rito del lavoro del 1973 è inoltre costituito da una più precisa disciplina delle deroghe alle decadenze per esigenze di contraddittorio o anche di uno ius poenitendi (la normativa contenuta nell'art. 183 c.p.c.è assai migliore dell'analoga dettata nel rito del lavoro ex art. 420 c.p.c.).
Ma oltre alla razionalizzazione della dinamica del processo, il modello adottato nel 1995 e poi effettivamente entrato in vigore non ha dimostrato di attenuare l'agonìa della giustizia civile, per la semplice ragione che un intervento sul rito avulso da una serio e ampio intervento sull'ordinamento giudiziario e in particolare sui ruoli della magistratura e sul numero dei giudici e degli addetti alle cancellerie, non poteva che perpetuare i difetti del passato.
A ciò si aggiunga il prevalere di una lettura troppo letterale della dinamica impressa al processo di cognizione dagli articoli 180, 183 e 184 c.p.c., che per un verso impone, con una sorta di meccanicistico andamento della fase iniziale di trattazione, il succedersi, senza alcuna utilità di trattazione delle questioni, delle varie udienze, anche quando non vi fosse stata una reale ragione di prolungare il dibattito sui mezzi difensivi prima di passare all'istruzione, in presenza di un processo di solo diritto o documentale oppure di questioni pregiudiziali o preliminari (art. 187 c.p.c.) capaci di condurre immediatamente alla decisione (l'art. 187 c.p.c., che com'è noto fonda il potere del giudice di invitare subito le parti alla precisazione delle conclusioni sul fondamento di questione pregiudiziale o preliminare è richiamato solo nell'art. 184 c.p.c. e quindi ha modo di essere applicato solo in occasione della seconda udienza di trattazione).
Per altro verso la trattazione, causa lo scandirsi in ognuna delle tre udienze regolate dagli artt. 180, 183 e 184 c.p.c. di termini per il deposito di memorie, si conduce solo in forma scritta, rendendo del tutto inutile il contatto del giudice con i difensori o addirittura nell'udienza di prima trattazione tra il giudice e le parti.
Nei tribunali con maggiori carichi, il pedissequo susseguirsi di udienze e di termini per il deposito di memorie, senza ragioni fondate nelle esigenze di un reale dibattito tra le parti o di una progressiva introduzione di temi difensivi, consuma il processo in un percorso della durata di qualche anno (nella economia di un'udienza all'anno), prima ancora che esso possa confluire nell'alternativa tra fase istruttoria poi seguita dal giudizio o immediata fase decisoria.
Si deve dire che una delle maggiori cause di tale degenerazione è da rinvenire anche nella scarsa conoscenza del fascicolo da parte del giudice, sommerso dai carichi, incapace di imprimere una vera ed efficace direzione al procedimento e soprattutto di esercitare i poteri di cui agli artt. 187 e 188 c.p.c., se non dopo anni, in occasione del primo e unico esame del fascicolo, imposto dalla necessità di pronunciarsi sulle richieste istruttorie delle parti, alla udienza susseguente a quella regolata nell'art. 184 c.p.c., ove vengono dispensati i termini per la formulazione delle richieste istruttorie, ma quando ormai il triplice sviluppo della trattazione si è ormai inesorabilmente imposto, con l'inevitabile pregiudizievole dilazione alla tutela dei diritti.
A tale sistema ha inizialmente reagito la Corte di Cassazione (Cass., 25 novembre 2002, n. 16571, in Foro it., 2003, I, 466), ribellandosi alla automaticità del rinvio dalla udienza di prima trattazione (art. 183 c.p.c.) alla udienza di seconda trattazione (art. 184 c.p.c.), ammettendo il differimento solo quando vi fosse una reale necessità di esercitare lo ius poenitendi da una delle parti mediante memoria da depositarsi nel termine fissato dal giudice e che rende necessaria la fissazione di una nuova udienza. In caso contrario, la parte avrebbe dovuto sin dalla udienza di prima trattazione produrre i documenti e dedurre i mezzi di prova oppure chiedere il termine per la formulazione delle istanze istruttorie, evitandosi inutili rinvii.
Ma alla degenerazione non è stato posto un serio argine, poiché le parti si sono abituate a richiedere sempre il termine per l'esercizione dello ius poenitendi, provocando l'inevitabile rinvio, anche se poi in concreto non esercitano tale facoltà.
Donde l'inutile sequela di memorie scritte, anche in mancanza di un reale dibattito sulle questioni prospettate dalle parti, e di udienze assai spesso occasionate dalla richiesta di un termine per il deposito di memoria, facoltà poi non concretamente esercitata e invocata esclusivamente allo scopo di ottenere il rinvio della udienza e il prolungarsi del processo nella palude della trattazione per qualche anno a tutto detrimento di un esaurimento in una tempistica accettabile della tutela giurisdizionale dei diritti.
2. Le risposte del rito societario e i nuovi problemi indotti al rito civile.
Alla situazione venutasi a creare ha reagito il legislatore, sempre nella costante prospettiva degli interventi sul rito, mediante il d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, con una scelta radicale, ma che risente evidentemente delle involuzioni del modello introdotto con la riforma del 1995, introducendo un rito che prescinde addirittura dalle stesse udienze o comunque da un preliminare contatto con il giudice, tutto assorbito dallo scambio di atti tra le parti (cfr. gli artt. 3, 4, 6, 7 del citato decreto legislativo), nello sviluppo dei quali, sempre con criterio di progressività, si vengono a perfezionare via via le preclusioni e quindi a definire il thema decidendum e il thema probandum.
Solo al culmine di una trattazione monopolizzata dagli atti di parte il procedimento conduce alla decisione del giudice, primo incontro del giudicante con le carte processuali, in occasione della pronuncia sull'ammissibilità dei mezzi di prova o in difetto sulla immediata rimessione in decisione (art. 12), prendendosi così atto di una prassi che vede generalmente il giudice poco preparato prima di tale momento sulle carte processuali.
Se in linea teorica il modello si fa apprezzare, soprattutto per avere disimpegnato il processo e soprattutto il giudice da un'attività inutile, assecondando come inevitabile sviluppo una trattazione condotta esclusivamente in forma scritta, esso ipotizza al suo interno un'alternativa al succedersi degli atti scritti che ne provoca uno sviluppo del tutto originale.
Su istanza unilaterale di ognuna delle parti può infatti cessare con effetto immediato la trattazione, qualunque sia il livello del suo sviluppo, anche iniziale dopo la notifica della citazione, e la controversia viene immediatamente rimessa innanzi al giudice. A ciò conduce l'istanza di fissazione di udienza (art. 8 e per gli effetti l’art. 10).
Ciascuna delle parti può infatti in ogni momento mettere fine allo scambio degli atti, se ritiene la causa già matura per la decisione, contrapponendo allo svolgersi completo della trattazione scritta un argine invalicabile per l'altra parte. L'iniziativa ha come conseguenza l'immediato maturarsi delle preclusioni alle difese (art. 10), non più diluite nell'evolversi del dibattito mediante scambio di atti delle parti e sino al suo esaurimento, una sorta di decadenza imposta dalla iniziativa della parte.
L'alternativa dettata dall'iniziativa di una sola parte, consapevole delle lacune nella difesa dell'altra, perciò interessata a far maturare immediatamente le preclusioni, riduce il processo ad un'insidiosa partita a scacchi, aperto in ogni momento alla scacco matto inferto da una parte all'altra e reca indiscutibilmente ad un modello a preclusioni immediate, poiché nessuna delle parti può permettersi di non formulare con l'atto introduttivo compiutamente le domande ed eccezioni o esaurire i mezzi di prova se non vuol cadere nella cattiva sorte di incorrere nell'istanza di fissazione di udienza dell'altra parte e quindi non potere più rimediare alla lacuna nel futuro sotto la scure della preclusione ormai maturata.
Di fatto il rito societario conduce ad un modello, quanto alle preclusioni, molto più vicino al rito del lavoro, dove vengono fatte coincidere con gli atti introduttivi.
Se questo modello non desta preoccupazioni in relazione alla materia per la quale è nato, quella societaria, governata dal principio di tipicità e da una legislazione imperativa, con spazi assai limitati per l'autonomia e una certa ripetitività della controversia, dove gli oneri di allegazione e prova appaiono meno gravosi per la parte. Pone invece in modo evidente dubbi sulla sua opportunità in relazione alla espansione dell'ambito di applicabilità dovuta all'art. 1 del decreto legislativo, che sembra preludere ad una futura generalizzazione, rispetto a controversie non strettamente societarie, come quelle che hanno titolo in una cessione delle partecipazioni sociali o nei patti parasociali oppure nei negozi di intermediazione mobiliare, ove i limiti all'autonomia sono inferiori e vige il principio di atipicità, che pone su basi meno certe gli oneri difensivi delle parti.
Vi è un ulteriore remora alla diffusione da alcuni auspicata del rito societario. Le ipotesi di incontro con il giudice, relegate alla istanza di fissazione di udienza collocano in posizione troppo deteriore la figura del giudicante.
Con questo non si vuole aderire a quelle tesi estreme che con toni accentuatamente polemici hanno intravisto nel nuovo rito una sorta di privatizzazione del processo, in deroga ad una funzione, quella giurisdizionale, che ha una vocazione inequivocabilmente pubblicistica. Si vuole solo sottolineare il rischio che, esaurita la trafila infinita delle memorie scambiate, si debba ritornare all'inizio per innescare un meccanismo di sanatoria di qualche vizio, emerso solo all'udienza, che più opportunamente poteva essere colto dal giudice in apertura (nullità della citazione, nullità della notifica della citazione, mancata integrazione del contraddittorio, difetto di rappresentanza, autorizzazione e assistenza, e così via).
Ne deriva il rischio di un ritorno al passato preriforma del 1990/1995, ove il processo, anche se in relazione a questioni di merito prospettate per la prima volta nel suo corso, poteva retrocedere in ogni momento ad una fase anteriore di trattazione, allontanando sempre più la sua confluenza naturale nel giudizio finale.
Non si deve, poi, dimenticare come il rito sia stato poco attento all’esigenza di una tutela anticipatoria in corso di causa, non prevedendo espressamente un contatto “anticipato” tra giudice e parti, al fine del conseguimento di una provvisoria esecutività di un decreto ingiuntivo opposto oppure di una delle ordinanze di cui all’art. 186 ter e bis c.p.c. Alla difficoltà ha dovuto porre rimedio il legislatore successivo con la legge n. 37 del 2004 che ha consentito un ricorso al giudice per l’applicazione degli artt. 648 e 649 c.p.c. (novellando l’art. 2 del d. lgs. n.5 del 2003). Intervento seguito da altro che ha consentito un’autonoma istanza al giudice fuori udienza per la pronuncia delle ordinanze di cui agli artt. 186 – ter e 186 – bis c.p.c. (legge n. 80 del 2005).
Si deve poi aggiungere che nei processi litisconsortili (assai diffusi in materia societaria, per derivazione dalla pluralità di soci che conducono a ipotesi di litisconsorzio unitario o quasi necessario), la gestione dello scambio infinito di memorie pone serie imbarazzi. E' infatti assai probabile che i termini differiscano per ognuno dei litisconsorti; il tempo della iniziativa di ognuno detta infatti i termini per gli altri e quindi reca a termini diversificati per la replica di ognuno, con un appesantimento generale degli atti processuali scritti acquisiti al processo e un generale affaticamento (e preoccupazioni) delle difese che intendono contraddire. Ne risulta poi ostacolata l'istanza di fissazione di udienza di una delle parti, se le altre parti rilanciano con la notifica di nuova memoria (come espressamente prevede nella tardiva edizione dell'art. 8, 5-bis comma d. lgs. n. 5/2003, dovuto all'ulteriore intervento dell'art. 3 d. lgs. 28 dicembre 2004, n. 310).
Ad aggravare la complessità del rito litisconsortile, la previsione di un termine ultimativo, art. 8, 4° comma, per la istanza di fissazione decorso il quale il processo inesorabilmente si estingue, donde la grave difficoltà nel processo con pluralità di parti nell’identificare questo termine ultimativo, causa il continuo rilancio a termini diversificati mediante notifica di memoria di uno dei litisconsorti.
La statistica insegna che la maggior parte dei processo c.d. societari sono confluiti in un’estinzione, con gravi responsabilità a carico dei difensori delle parti.
In conclusione, il c.d. rito societario per non perpetuare gli errori della novella del 1990/1995 ha soppresso l'udienza di trattazione, conducendo il processo civile immediatamente all'udienza di discussione, ma ha avvilito la direzione giudiziale della trattazione, ampliando a dismisura lo scambio di atti scritti tra le parti come forma di svolgimento della trattazione, con l'aggiunta dell'insidia dell'unilaterale istanza di fissazione di udienza generatrice di un maturarsi immediato delle preclusioni all'iniziativa difensiva di parte.
Sono queste le ragioni – ma ritorneremo sul tema al termine – che hanno condotto negli anni duemila il legislatore ad un revirement, rispetto all’originario progetto di introdurre come sperimentale nell’ambito delle controversie societarie un processo che sarebbe dovuto diventare il rito generale per tutte le controversie.
3 Il primo sintomo di agonìa del rito societario: la sua sopravvivenza come rito concordato
Il rito societario al momento della sua introduzione, per l'irrilevanza e l'occasionalità della materia a cui era affidato, si collocava su di un piano di sperimentazione, nella prospettiva implicita di una generalizzazione per tutte le controversie civili. L'orientamento del legislatore è stato presto fortemente ridimensionato e forse, anche in considerazione delle violenti critiche sollevate, un modo elegante per riproporne le fortune destinandole ad un consenso che non può essere solo quello di occasionali detrattori, ma necessariamente misurato sulla pratica delle concrete vicende processuali.
La più opportuna diffusione è stata presto abbandonata alla volontà delle parti.
E' in tal modo stata scongiurata una generalizzazione ex lege.
L'art. 70 - ter delle disp. att. c.p.c., inserito dall'art. 2, comma 3- ter, lett a) legge 14 maggio 2005, n. 80, infatti, consente all'attore, oltre all'avvertimento di cui al n. 7) dell'art. 163, 3° comma c.p.c., l'ulteriore invito al convenuto di notificare la comparsa di risposta ai sensi dell'art. 4 del d. lgs. n. 3/2005, entro il termine di sessanta giorni dalla notifica della citazione.
Se il convenuto notifica nel termine la comparsa, anziché depositarla in cancelleria, il processo segue le regole del rito societario e si applicano gli artt. 4 e ss. d. lgs. n. 5 del 2003.
La norma lascia impregiudicata la possibilità che l'accordo si conduca non solo sulla scelta del rito, ma anche sui suoi contenuti, ovvero non pregiudica la possibilità che le parti, nello scegliere il rito societario possano convenire anche negli atti introduttivi di non dare applicazione all'art. 12 sull'istanza di fissazione di udienza sin tanto che non si sia compiuto lo scambio almeno delle memorie di cui agli artt 6 e 7, 1° comma del d. lgs. n. 5 del 2003, offrendo al rito una (auspicabile) dinamica diluita delle preclusioni, o semplicemente di rinunciare preventivamente a far valere l'eccezione di decadenza che discende dalla anticipazione della istanza di fissazione di udienza, visto che questa eccezione è nella disponibilità delle parti, ai sensi dell'art. 10, 2° comma dello stesso decreto legislativo. Si recupera così al c.d. rito societario, nella sua applicazione convenzionale, quella progressività del maturarsi delle decadenze che l'anticipazione della istanza di fissazione di udienza può annullare, appiattendolo alle peculiarità del rito del lavoro.
La disposizione si fa apprezzare poi per l'originalità di un processo giurisdizionale soggetto ad un rito che discende dal consenso delle parti (prerogativa, prima della riforma, del solo processo arbitrale, cfr. l'art. 816 c.p.c.).
La manifestazione di volontà non può precedere la litispendenza o essere perfezionata fuori dalle forme indotte dagli atti iniziali, trattandosi di negozio processuale che deve perciò seguire con un certo rigore i limiti di tempo e di forma indotti dalla norma, in forza del principio di tipicità.
Essa lascia tuttavia aperti gravi interrogativi interpretativi.
Se il termine minimo a difesa è di sessanta giorni ex art. 163 - bis c.p.c., l'udienza può tenersi al sessantunesimo giorno, ma che accade se il giorno prima il convenuto ha notificato la comparsa aderendo al rito elettivo proposto dall'attore senza poi comparire alla udienza ? Il giudice potrebbe non avere notizia dell'opzione verso il rito societario, non essendo la comparsa ancora acquisita agli atti (dovendosi depositarsi nei dieci giorni successivi alla notifica ex art. 5 d. lgs. n. 5 del 2003). E’ necessaria una soluzione nell'enigmatica e incomprensibile formula dell'art. 70 - ter c.p.c. in commento, ove si legge che l'invito al convenuto è di notificare la comparsa "entro di un termine non inferiore a sessanta giorni dalla notificazione della citazione, ma inferiore di almeno dieci giorni al termine indicato ai sensi del primo comma dell'art. 163 - bis del codice", ma l'articolo richiamato al primo comma regola solo il termine minimo a difesa di sessanta giorni. L'unica interpretazione plausibile, pur concedendosi l'interprete ad una certa libertà, è che il termine di dieci giorni debba riferirsi alla udienza indicata dall'attore, ovvero la comparsa dovrà essere notificata almeno dieci giorni anteriori, in modo da rendere necessario il suo deposito in cancelleria entro il giorno della udienza fissata, consentendo al giudice di averne nozione all'udienza.
Nel caso in cui tale termine non sia rispettato non riusciamo ad intendere una conseguenza diversa dalla necessità che il processo prosegua con le regole del rito ordinario, con il rischio per il convenuto di essere ormai decaduto dalle preclusioni fissate nell'art. 167 c.p.c. e che, come è noto, maturano con lo scadere di venti giorni anteriori dalla udienza. Il rispetto dei termini quindi assurge a profilo assolutamente centrale delle difese del convenuto, se egli non intendere incorrere in decadenze per mancato perfezionarsi del rito eletto. La necessità di una costituzione nei dieci giorni anteriori all'udienza per tutti i convenuti esclude che possa residuare qualche dubbio in relazione alla diversa data di notifica della citazione e quindi alla udienza il giudice dovrebbe avere definitiva nozione della effettiva elezione del diverso rito.
Il giudice alla udienza non potrà fare altro che cancellare la causa dal ruolo ai sensi dell'art. 1, 5° comma, d. lgs. n. 5 del 2003.
Una certa macchinosità deriva poi dalla conseguenza, in caso di pluralità di convenuti, che le preclusioni per il rito ordinario maturino (venti giorni anteriori) prima del deposito della comparsa con manifestazione di volontà adesiva alla proposta dell'attore (dieci giorni), per cui nella incertezza della adesione di tutti il convenuto diligente dovrà in primo luogo depositare la comparsa con tutti i contenuti imposti dall'art. 167 c.p.c. novellato (a pena di decadenza, formulazione di domande e eccezione riservate alla parte), onde non incorrere in preclusioni e quindi di fatto il deposito della comparsa dovrà avvenire almeno venti giorni prima della udienza, seguita dalla notifica alle altre parti con la manifestazione di volontà adesiva al rito eletto dall'attore.
Dovendo infine il convenuto comunque notificare la comparsa (essendo questa la forma della sua volontà di adesione al rito eletto dall'attore), ne deriva l'impossibilità di subito instare per la fissazione di udienza ex art. 8 d. lgs. n. 5 del 2003, approfittando delle lacune difensive dell'atto di citazione, con conseguente inevitabile, ed indotto dalla legge, rilancio delle facoltà difensive dell'attore, il quale potrà notificare la memoria di cui all'art. 6 dello stesso decreto legislativo e potrà adagiarsi ai recuperi consentiti nel successivo atto.
Qualche perplessità suscita inoltre la possibilità che l'opzione del convenuto si lasci ispirare alla nomina del giudice che ai sensi dell'art. 168 - bis c.p.c. deve effettuarsi dopo che l'attore ha iscritto la causa al ruolo, provocando l'adesione alla proposta di elezione del rito il risultato della revoca del giudice nominato, nella speranza della nomina di altro magistrato all'esaurimento dell'iter di scambio delle memorie e di istanza di fissazione di udienza, secondo le forme del rito societario. la disciplina lascia ampi margini di dubbi sulla sua opportunità.
La disposizione, inoltre, nel secondo comma consente lo svolgimento del processo secondo il rito proposto dall'attore, nel caso di litisconsorzio passivo iniziale, solo a seguito del consenso di tutti i convenuti. Si è opportunamente osservato che la norma lascia impregiudicati i casi del litisconsorzio attivo o del litisconsorzio successivo per chiamata o intervento.
Dall'art. 70 - ter in commento sembra possa ricavarsi un principio di generale applicazione: quello del consenso delle parti al rito proposto dall'attore, per cui la mancanza del consenso anche di una sola parte del processo, sia essa presente nel processo ab initio, oppure nel suo corso, esclude che esso possa seguire le forme del rito fondato su basi conensuali.
Ma questo principio deve calarsi nelle concrete fattispecie del liti litisconsortili, poiché non tutte con l'incremento dei soggetti che acquistano la qualità di parte provocano un mutamento oggettivo. Ci riferiamo alla distinzione dottrinale, ben delineata sul piano del diritto positivo dagli artt. 14 e 15 d. ls. n. 5 del 2003 tra interventi novativi e interventi non innovativi, nel senso che i primi implicano la introduzione di una nuova causa ovvero di un autonoma domanda nel giudizio, ciò che non è fatto conseguire dagli altri.
Ora nella prima ipotesi, consentita oltre tutto in applicazione della disposizione citata per prima solo nei termini per la notifica della comparsa (1° comma), il terzo avrà agio di aderire o meno alla proposta dell'attore, manifestandola nella comparsa notificata alle altre parti in caso affermativo oppure, in caso di dissenso, nella comparsa depositata in cancelleria ai sensi dell'art. 267 c.p.c. ribadendola in udienza innanzi al magistrato e in tal caso la cuasa dovrà seguire con le regole del rito ordinario.
Diverso il caso dell'interveniente che non incrementa l'oggetto del giudizio, limitandosi ad un intervendo ad adiuvandum di una delle parti. Egli secondo il citato art. 15 potrà intervenire sino al deposito della istanza di fissazione di udienza, ma non potrà interferire con la scelta pregressa delle parti sul rito applicabile e accettare il processo nelle condizioni di rito (anche agli effetti delle preclusioni) in cui si trova, salvo dimostrare il dolo e la colluzione delle parti per pregiudicarlo (ai soli effetti però di una rimessione nei termini).
Nel caso di intervento coatto, avvenga esso per chiamata di parte o per ordine del giudice (rispettivamente artt. 106 e 107 c.p.c.), la soluzione dipenderà dal carattere innovativo o meno dal punto di vista oggettivo del litisconsorzio successivo. Se la chiamata avrà portata innovativa - ciò che accadrà per lo più se effettuata ai sensi dell'art. 106 c.p.c., ma potrà accadere se effettuata anche ai sensi dell'art. 107 c.p.c. - non è pensabile (alla luce della generalità del principio sancito dal 2° comma dell'art. 170 - ter in commento) che il terzo non possa esprimere il suo rifiuto ad un rito che deve avere basi consensuali se volto ad accertare un diritto che coinvolge la sua sfera giuridica, con il rischio anche di una retrocessione del processo (infatti la chiamata per iniziativa di parte può avvenire soltanto a seguito della notifica della comparsa del convenuto e la chiamata iussu iudicis esclusivamente all'udienza che sopravviene al completo esaurimento della fase di trattazione).
Se invece la chiamata non è innovativa, la volontà del terzo è irrilevante ed egli deve accettare la causa nel rito in cui si svolge.
Se infine la chiamata è utile (come l'intervento volontario) a sanare un vizio di litisconsorzio necessario è evidente che il litisconsorte necessario pretermesso, in qualunque momento venga chiamato o intervenga deve esprimersi sul rito applicabile e quindi in caso di suo rifiuto debba procedersi alla conversione del rito.
L’articolo 70 – ter non è stato espressamente abrogato dalla novella, per cui è da pensare una sopravvivenza del rito societario, esclusivamente fondato sulla volontà delle parti formatasi in limine litis.
4. La concentrazione della trattazione in un'unica udienza e la oralità del processo civile.
Ma contemporaneamente il legislatore ritorna sui suoi passi e riprende la disciplina, innovandola, di un processo interamente “governato”, anche nella fase della trattazione dal giudice.
La novella del 2005, a distanza di dieci anni dalla entrata in vigore della riforma del 1990/1995, apre sul piano positivo semplicemente la prospettiva di un abbandono del modello dovuto alla legge 20 dicembre 1995, n. 534 e che abbiamo commentato in precedenza e di un ritorno al modello della legge 26 novembre 1990, n. 353.
Ma essa sancisce ulteriormente il de profundis al rito societario, poiché costituisce baluardo insuperabile all’idea di una proliferazione di quel modello anche in altre materie per divenire il rito unico del processo civile.
Esso coglie l'antieconomicità e inutilità della triplicazione delle udienze di trattazione, con i tempi che ne conseguono nei fori maggiormente soggetti a carichi giudiziari, oltre tutto senza neppure il vantaggio di una migliore svolgimento delle difese delle parti, poiché spesso la meccanica successione di udienze scandita da consequenziali termini per il deposito di memorie non corrisponde affatto ad effettive esigenze postulate dal diritto di contraddire o anche soltanto di precisare o modificare le difese o infine di dare svolgimento ad una proficua trattazione di questioni; intuisce anche il profondo malcontento in magistrati e avvocati nella pratica del rito societario, che diffonde una forte spinta per l’abrogazione, poi attuata con la novella del 2009.
L'art. 180 c.p.c. non regola più un'udienza di prima comparizione delle parti, che viene soppressa, poiché non si trae neppure dagli articoli successivi e particolarmente nelle nuova formulazione dell'art. 183 c.p.c.
L'art. 184 c.p.c. non regolamenta più una seconda eventuale udienza di trattazione, agli effetti della formulazione dei mezzi istruttori ad iniziativa di parte, bensì regola già un'udienza in cui viene eventualmente raccolta la prova già dedotta dalla parte e ammessa dal giudice, ipotizzando soltanto le conseguenze di un'iniziativa officiosa non soggetta a termini preclusivi (2° comma), secondo una previsione già contenuta nell'articolo, secondo il tenore previgente.
Di conseguenza è l'art. 183 la sede in cui trasmigano tutte le disposizione sulla trattazione preliminare delle questioni nel processo, vi trasmigra il primo comma dell'art. 180 nel suo tenore previgente sulle questioni di rito implicanti lo svolgersi di attività destinate a sanare il vizio processuale (cfr. l'art. 183, 1° comma), come anche il primo comma dell'art. 184 sempre nel regime previgente, sul termine concesso a seguito di istanza di parte per la formulazione dei mezzi istruttori riservati alla parte e sull'ulteriore termine per la formulazione dei mezzi in controprova, esso diventa il sesto comma dell'art. 183 c.p.c. nel tenore dovuto alla riforma del 2005.
Quindi tutto si concentra nella (unica) udienza di trattazione regolata dall'art. 183 c.p.c. ove - alla luce delle attività assertive sui fatti rilevanti contenute a pena di decadenza negli atti introduttivi - le parti possono esercitare il diritto di contraddire (formulando l'intero ventaglio delle difese, dalle domande, alle eccezioni, alle prove) o un limitato ius poenitendi (nei limiti della precisazione o modifica di domande, eccezioni e conclusioni), anche eventualmente con memoria da depositarsi nel termine perentorio di trenta giorni, infine dedurre i mezzi di prova o chiedere la concessione di un termine perentorio, ancora di trenta giorni, per il deposito di memoria nella quale a pena di decadenza oltre alle produzioni documentali procedere alle iniziative istruttorie riservate alla parte e ulteriore termine per dedurre in controprova.
Le attività che erano diluite in tre udienze, vengono concentrate in una sola.
L'art. 183 c.p.c. in commento ipotizza solo casi eccezionali di differimento della udienza di trattazione che perciò nella generalità dei casi deve esaurire la trattazione delle questioni di rito e di merito.
Una prima eccezione al principio si impone, ai sensi del 2° comma, quando il giudice verifica l'esistenza di un vizio processuale sanabile (pretermissione del litisconsorte necessario, nullità della citazione o della comparsa di costituzione, nullità della notifica, difetto di rappresentanza, assistenza o autorizzazione), in tal caso si rende inevitabile la sanatoria, che implica un ulteriore svolgimento di attività processuale nelle more del quale l'udienza deve essere differita.
E' opportuno osservare come in coerenza con il nuovo regime della trattazione il legislatore, per esigenze di semplice coordinamento, intervenga sull'ultimo comma dell'art. 167 c.p.c., imponendo al giudice che ordina la integrazione della domanda nulla di fissare l'udienza del secondo comma dell'art. 183 (e non più del 5° comma della stessa disposizione).
Una seconda eccezione ha origine dall'eventualità che i difensori congiuntamente chiedano la comparizione delle parti ai fini dell'interrogatorio libero, rendendosi necessario l'inevitabile differimento per il carattere preliminare di questo mezzo, avente una funzione di chiarificazione dei fatti rilevanti e soprattutto veramente contestati (il differimento tuttavia poteva essere ovviato semplicemente imponendo all'attore l'onere di invitare in citazione il convenuto ad aderire alla opportunità di far comparire la parti personalmente in limine litis per l'interrogatorio libero con libertà di aderirvi o meno da esprimere in comparsa; in caso affermativo all'udienza sarebbero dovute comparire le parti senza necessità di rinvio).
Non si propone invece una terza eccezione al divieto di rinvio e alla concentrazione in unica udienza della trattazione, per la necessità di concedere un termine che la parte, ai sensi del 6° comma della disposizione in esame, può chiedere per esercitare in forma scritta il diritto di contraddire oppure lo ius poenitendi o infine il diritto alla formulazione dei mezzi probatori, poichè il giudice, come testualmente la norma, si riserva immediatamente di provvedere sulle richieste. Ma è noto come la prassi non si sia adeguata alla previsione normativa.
Resta salva l'applicazione dell'art. 187 c.p.c., sul rilievo di questioni pregiudiziali e preliminari ai fini di un immediata fissazione di udienza di precisazione delle conclusioni, senza il passaggio attraverso una fase istruttoria.
In mancanza di questioni assorbenti o di un processo documentale o solo in diritto, il giudice, nel riservarsi sulle istanze probatorie delle parti, in caso di loro ammissione fisserà, come successiva udienza, necessariamente quella - oggi regolata dall'art. 184 c.p.c. - di assunzione della prova.
Oltre a superare il frazionamento della trattazione in una pluralità di udienze e ad imporre che esso abbia luogo all'interno di un unica udienza, differibile solo per sanare i vizi che colpiscono gli atti introduttivi o per consentire l'interrogatorio libero della parte, la riforma del 2005 pone fine allo svolgimento in forma scritta della trattazione.
Non vi è più spazio per il deposito di una memoria per dedurre le eccezioni riservate alla parte o semplicemente per una replica dell'attore alla comparsa del convenuto ai sensi del previgente art. 180 c.p.c.; oppure per il deposito di (separate) memorie al fine dell'esercizio dello ius poenitendi in udienza di prima trattazione (art. 183, 5° comma c.p.c. nel vecchio tenore) o per consentire la formulazione dei mezzi istruttori (art. 184, 1° comma c.p.c. previgente). L'unica possibilità per una trattazione scritta è rappresentata dalla memoria che la parte può farsi autorizzare nella (unica) udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c., ai sensi del 6° comma, ai fini di esercitare il diritto di contraddire, di precisare o modificare le difese, di formulare i mezzi istruttori.
A fronte di un numero imprecisato di memorie, la nuova trattazione ne ammette quindi una sola, autorizzata in applicazione del disposto di cui al 6° comma riformato dell'art. 183 c.p.c.
Ma vi è di più. L'art. 180 c.p.c. non contiene la previsione generale contenuta nel tenore previgente del suo 2° comma di un potere del giudice di autorizzare la comunicazione di comparse o memorie, esercitato assai liberalmente nel concreto svolgersi del processo civile. Questa norma è soppressa e l'art. 180 c.p.c, si risolve eloquentemente in un unico comma che declama: "la trattazione della causa è orale", come estrema e radicale reazione alle degenerazioni del modello offerto con la riforma del 1995 e che contraddistingue il processo societario.
Si impone la fisionomìa di un processo, salvo le degenerazioni che la pratica potrà manifestare e sempre in agguato all'uscio delle concrete prassi giudiziarie, concentrato in un'udienza di trattazione, in un'udienza istruttoria e, infine in un'udienza di precisazione delle conclusioni (a cui la discussione, com'è noto, potrà seguire soltanto se voluta dalle parti, ai sensi dell'art. 281 - quinquies, 2° comma, c.p.c.), per lo più governata dall'oralità e ove le manifestazioni scritte della difesa, oltre che in occasione degli atti introduttivi, si concretizzano nella (unica) memoria interlocutoria autorizzata ai sensi dell'art. 183, 6° comma, c.p.c, e alla fine, in occasione della comparsa conclusionale e memoria di replica ai sensi dell'art. 190 c.p.c. Il giudice peraltro può, nel rito moncratico, ai sensi dell'art. 281 - sexies, 1° comma, c.p.c., escludere che la discussione si svolga in forma scritta, provvedendo ad una decisione a seguito di trattazione orale delle parti.
Si tratta di una modificazione di indirizzo (se confrontata sia con la riforma del rito ordinario del 1995 e con la riforma del rito societario di cui al d. lgs. n. 3/05) di non poco momento.
5 Il nuovo regime delle preclusioni e i riflessi sulla disciplina degli atti introduttivi.
La costruzione del processo civile dovuta alla novella del 2005, come è stato possibile anticipare, con un ritorno alle scelte della novella del 1990 modifica il regime delle preclusioni alle attività difensive delle parti.
Ora non più soltanto le domande in senso lato (rivolte alle parti del processo, ma anche, mediante chiamata, ai terzi) devono essere formulate a pena di decadenza con gli atti introduttivi, atto di citazione e comparsa, ma anche le eccezioni riservate alle parte (quindi non rilevabili d'ufficio) devono essere dedotte dal convenuto in comparsa di costituzione.
Ne risulta modificato il secondo comma dell'art. 167 c.p.c. con l'inciso secondo il quale in comparsa a pena di decadenza devono essere formulate non soltanto le domande riconvenzionali ma anche "le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio".
Si impone ancora una volta la summa divisio tra i poteri di rilevazione del giudice privi di limiti temporali e i poteri di parte, se ad essa riservati, da esercitarsi entro precisi termini di decadenza e richiamandosi la distinzione, quanto alle eccezione di merito, imposta dall'art. 112 c.p.c. (essendo dalla legge esplicitamente riservate alla parte le eccezioni nella sua esclusiva disponibilità, mentre tutte le altre in mancanza di siffatta esplicita riserva sono rilevabili anche d'ufficio) e quanto alle eccezione di rito i vari regimi dettate dalle disposizioni regolatrici (cfr. ad esempio i diversi regimi della eccezione di incompetenza ex art. 38 c.p.c., anche dopo la novella del 2009).
In conclusione tutte le attività assertive delle parti, volte alla allegazione dei fatti costitutivi del diritto di cui si chiede tutela, ma anche dei fatti che costituiscono eccezione, i fatti estintivi, modificativi e impeditivi, quando la rilevazione per questi ultimi è riservata alla parte, devono necessariamente esaurirsi con gli atti introduttivi a pena di decadenza.
La progressività del maturarsi delle decadenze è riservata esclusivamente alle iniziative probatorie le quali, ancora se riservate alle parti, possono svolgersi anche in udienza di trattazione o addirittura - in relazione alla possibilità che il thema probandum possa subire modifiche in udienza per l'esercizio del diritto di contraddire di un limitato ius poenitendi - nel termine perentorio per la comunicazione di memorie che il giudice fissa su istanza delle parti, secondo il disposto del 6° comma dell'art. 183 c.p.c.
Oltre questo termine non è data più la possibilità di iniziative probatorie, salvo le prove siano anche nella disposizione dell'ufficio (arg. ex art. 184, 2° comma, c.p.c.) oppure l'eccezionale rimessione in termini di cui all'art. 184 bis (oggi 153, 2° comma) c.p.c. Peraltro la facoltà delle parti in appello di dedurre nuove prove, se indispensabili ai fini della decisione (art. 345, 3° comma c.p.c.), apre la prospettiva di un ulteriore deroga, non potendosi seriamente supporre che il processo debba condursi in primo grado su di un piano diverso, per recare necessariamente in appello ad un diverso giudizio finale alla luce di prove indispensabili non potute esaminare in primo grado. Quindi se "indispensabili" al fine del decidere le prove sono deducibili anche tardivamente: penso soprattutto al recente revirement della Corte di cassazione sulla produzione dei documenti in appello, recepita con la novella del 2009 che ha di conseguenza modificato l’art. 345 c.p.c..
L'attività di deduzione della prova deve condursi a verbale alla udienza di trattazione oppure in memoria autorizzata su istanza di parte, da depositarsi nel termine perentorio fissato dal giudice, non oltre i trenta giorni dalla udienza.
6. Il nuovo regime delle deroghe alle preclusioni per ragioni di contraddittorio e ius poenitendi.
La costruzione del sistema di preclusioni in due tappe, con gli atti introduttivi gli atti assertivi in ordine ai fatti rilevanti e in udienza di trattazione (o nel termine in essa fissato) gli atti di svolgimento dell'onere della prova che grava le parti, colloca su un piano di equilibrio lo svolgimento del sistema preclusivo, allontanando lo spettro delle degenerazione del principio di eventualità (quando le difese devono essere formulate "alla cieca" per l'eventualità di non decadere, per cui si affastellano mezzi difensivi poi del tutto inutili rispetto al quadro effettivo della controversia che si rileva solo successivamente) in linea con la profonda diversità di tipologia delle controversie affidate al rito ordinario e dovuta in alcuni casi alla scarsità della normativa avente fonte nella legge applicabile e nel prevalere di una regolamentazione dovuta all'autonomia dei privati.
Ma con lo stesso equilibrio il sistema consente in udienza di trattazione o al massimo nella memoria in essa autorizzata i necessari adattamenti alle difese di parte resi necessari dall'attuazione del contraddittorio o dall'esercizio dello ius penintendi.
Vediamone più da vicino la disciplina.
Si rende anzitutto necessario sottolineare il diverso ambito della deroga al sistema delle preclusioni quando l'esigenza è postulata dal contraddittorio anziché dall'esercizio di uno ius poenitendi.
Nel primo caso, in funzione dell'attuazione del contraddittorio, alla parte deve essere consentito tutto lo spettro delle difese possibili, senza limite alcuno. Per cui alla domanda o all'eccezione avversaria, l'altra parte può replicare con una nuova domanda o una nuova eccezione, nel senso pieno del termine. Ugualmente alla nuova prova richiesta ex adverso, deve essere possibile replicare con la richiesta di una controprova (in tal caso, tuttavia, non potrà aversi nuova attività assertiva in ordine ai fatti di causa).
Al contrario, nel caso di esercizio dello ius poenitendi, coincidente con gli inevitabili adattamenti delle difese della parte nel corso del procedimento, non potendo essere esse soffocate da una rigidità che non ammette ripensamenti, il ventaglio delle iniziative è fortemente limitato (nella dizione "precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate"). Precisare e modificare non vuol dire introdurre ex novo la difesa, è la scolastica distinzione tra mutatio e emendatio che ha in questo ambito rilievo, e non solo in relazione alle domande, ma anche alle eccezioni e conclusioni. E' consentita la emendatio e non la mutatio.
In relazione alle domande e alle conclusioni formulate negli atti che le contengono si tratta, quanto al petitum, di una variazione sul piano qualitativo o quantitativo in qualcosa di meno rispetto all'ambito originariamente preteso; ad esempio anziché la condanna a pagare 100, la condanna a pagare 50; oppure, ancora, sostituire una domanda di condanna con una domanda meramente dichiarativa oppure ad un accertamento con efficacia di giudicato far seguire un accertamento incidentale. Quanto alla causa petendi la parte potrà dedurre nuovi fatti generatori del diritto tutte le volte in cui questi fatti non identificano il diritto (ciò che accade nei diritti reali o assoluti che si autoindividuano con il solo loro oggetto e quindi non necessitano di una specificazione della fattispecie che li costituisce), ad esempio allegare inizialmente un acquisto a titolo originario della proprietà non impedisce in sede di ius poenitendi di indicare un diverso fatto di acquisto a titolo derivativo. Ciò ovviamente non vale per il caso in cui il diritto sia eteroindividuato (i diritti di credito), poiché in tal caso allegare un nuovo fatto costitutivo vuol dire formulare una nuova domanda, ovvero richiedere la tutela di un nuovo diritto.
E' altresì indice di emendatio, la indicazione di un fatto secondario precendentemente non dedotto, quando attraverso ragionamento presuntivo sia possibile criticamente risalire ad una fatto principale rilevante.
In relazione alla eccezione, vale il principio della deducibilità di un nuovo fatto quando esso sia già contenuto in quello allegato, ad esempio avendo dedotto una prescrizione decennale, dedurne una breve quinquennale o per lasso di tempo ancora inferiore; non sembra invece postulabile quando cambi la natura della eccezione, passando ad esempio da una prescrione estintiva ad una prescrizione presuntiva, oppure da una prescrizione ad una decadenza. Ugualmente la parte potrà emendare la sua difesa indicando un fatto secondario dal quale con prova critica sia possibile desumere l'esistena di un fatto principale rilevante come eccezione.
Orbene, come recita il 5° comma, entrambe le attività, in esercizio del contraddittorio o del diritto di precisare o modificare le difese, sono consentite in udienza di trattazione.
Tuttavia l'attore potrà contraddire alle difese del convenuto solo nel contesto della udienza, non essendogli consentito oltre, avendo egli consapevolezza di tali difese sin dal deposito della comparsa di costituzione del convenuto nei venti giorni anteriori (il principio si desume dal mancato annovero di tale attività nel primo termine che su richiesta di parte il giudice può fissare per la comunicazione di memorie in udienza di trattazione, cfr. il 6° comma della disposizione).
Al contrario il convenuto, in relazione ai nova dedotti dall'attore quale sviluppo della sua facoltà di contraddire, potrà inevitabilmente beneficiare del termine offerto su istanza di parte dal giudice ai sensi del 6° comma dell'art. 183 c.p.c., ovvero al secondo termine offerto alla memoria di replica (come recita la norma: "per replicare alle domande ed eccezioni nuove... per proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande ed eccezioni medesime").
Per entrambe le parti la facoltà di esercitare lo ius poenintendi, senza distinzione alcuna, è consentita sia in udienza, sia nel termine perentorio fissato dal giudice con memoria comunicata all'altra parte.
Quindi se la facoltà di contraddire è consentita ad entrambe le parti, ma rigorosamente nel primo atto difensivo successivo, per l'attore le deduzioni in udienza, per il convenuto invece la successiva memoria autorizzata per replicare ai nova dedotti dall'attore all'udienza, lo ius poenitendi può essere diluito anche oltre la prima difesa, esercitandosi senza limiti anche con la memoria autorizzata in udienza di trattazione, ai sensi del 6° comma.
Anche per le prove si pone un problema di replica, assecondato sempre grazie alla disciplina del più volte richiamato 6° comma: infatti i termini fissati per le deduzioni istruttorie riservate alla parte è duplice. Nel primo termine la parte scambia una memoria contenente le deduzioni in prova diretta e le produzioni documentali, in entrambi i casi a pena di decadenza; nel secondo termine sono invece deducibili i mezzi in controprova (come si legge: "l'indicazione di prova contraria"), ma anche indotti dalle modifiche al thema probandum , per esercizio del contraddittorio o dello ius poenitendi, provocate dalle iniziative di attore e convenuto in udienza o nella prima memoria.
In relazione sia alle allegazioni e sia alle iniziative funzionali alla prova dei fatti allegati, ma si tratta di una regola che sopravvive alla riforma del 2005, non si deve dimenticare le riapertura ai termini imposte da esigenze di contraddittorio lungo tutto il corso del processo, particolarmente se indotte da iniziative officiose (di cui l'art. 183, 4° comma e l'art. 184, 2° comma c.p.c., entrambi nel tenore dovuto alla riforma, offrono pur in contesti particolari il segno), oppure le riapertura imposte da decadenze incolpevoli della parte secondo il dettato dell'art. 184 - bis c.p.c. (nella formulazione ampia, ovvero riferita a tutti i tipi di difesa, dovuta alla modifica realizzata con la legge 20 dicembre 1995, n. 534, ma oggi, come vedremo nel cap. che segue, la regola è trasmigrata nell’art. 153 c.p.c.), particolarmente quando il fatto o il mezzo istruttorio sopravviene al processo.
7. Le vere ragioni del fallimento del rito societario
E’ stato così compiuta una breve rassegna delle traversie normative subite dal processo di cognizione, in una stagione di continue riforme caratterizzate da soluzioni antagoniste, sino all’assetto che ha preceduto la novella del 2009 e che è stato in larga parte fatto sopravvivere.
Infatti la recentissima riforma è subito apparsa meno propensa ad intervenire sulla cognizione (se si esclude l’abrogazione del rito societario), quanto all’aspetto della trattazione delle difese, che invece ha costituito il tema principale se non esclusivo degli interventi pregressi.
E’ opportuno in chiusura, tuttavia, compiere un ultima riflessione sull’abrogazione del rito societario, perché il dibattito critico qualche volta ripetuto con formule stereotipate, a sommesso avviso dello scrivente, non si è radicato su di una piena consapevolezza delle ragioni autentiche che hanno condotto a tale fallimento.
L’esperienza di una trattazione dominata dalle parti e di un intervento del giudice solo al momento in cui insorgono difficoltà nel contraddittorio o nella corretta progressione del processo sino ad una decisione di merito (per la sanatoria di qualche presupposto processuale) o quando si tratta di concedere qualche provvedimento anticipatorio oppure, infine, quando si tratta di decidere, non pare dovesse essere del tutto abbandonata e sotto questo profilo l’abrogazione è parsa troppo precipitosa.
Merita una attenta riflessione la esperienza di processi dominati in fase preliminare dallo scambio delle difese tra le parti, particolarmente negli ordinamenti inglesi e nord-americani, tradotta, come di consueto, con peculiarità assolutamente originali nel processo italiano, che hanno certamente contribuito al suo fallimento.
Due sono, si ritiene, le ragioni vere di questo fallimento:
- avere irrigidito il dibattito tra le parti in un sistema di preclusioni concretamente concentrato, mediante il diabolico meccanismo della istanza di fissazione dell’udienza, che poteva essere proposta anche in occasione dei primi atti difensivi e che riduceva il rito alle peculiarità di un processo del lavoro;
- ma soprattutto avere imposto alle parti un tempo, a pena di estinzione del processo, per rovesciare sul tavolo del giudice i risultati del dibattito difensivo ai fini della decisione.
In tal modo l’utilità di un vasto e temporalmente illimitato dibattito delle parti – che non nuoceva in alcun modo ai tempi della tutela giurisdizionale perché interamente voluta dalle parti stesse le quali non avrebbero potuto lamentarsene né con il giudice, né con lo Stato – è caduta, tanto esse si sono trovare soffocate dalle preclusioni e dal pericolo di uno scacco matto da un momento all’altro nel gioco, coartate a giungere al tavolo del giudice in un termine a pena di estinzione.
Al contrario quel processo, se costruito senza preclusioni e termini a pena di estinzione:
- avrebbe consentito di condurre liberamente la dialettica e il contraddittorio difensivo che è la forza pulsante del processo civile, e che, in un regime dispositivo, sono il solo metodo per avvicinare la realtà formale alla realtà reale (a cui invece il gioco a scacchi della istanza di fissazione di udienza con il suo effetto di introdurre preclusioni la allontana in modo difficilmente giustificabile, come uno scacco matto che avvilisce il dibattito e le mosse difensive);
- avrebbe consentito di condurre al giudice solo cause “pronte” per essere decise favorendo una sorta di conciliazione “tacita” quando le parti nel dibattito non si sentono, ognuna per ragioni proprie, di formulare istanza di fissazione di udienza (quanti processi nel mondo anglossassone muoiono sul dibattito tra le parti senza confluire nella decisione).
Che le parti si chiariscono in un contraddittorio e poi non giungano a proseguire nella lite chiedendo ad un giudice un giudizio che dia ragione all’una e torto all’altra, non è forse l’auspicio di un ordinamento attento ad un ordinato svolgimento dei rapporti civili? Un ordinamento che sembra tra l’altro volgere verso un favore per uno sviluppo conciliativo o latamente stragiudiziale della controversia.
Se fosse stato costruito in questo modo quel processo avrebbe potuto avere prospettive di vita e diventare, come avrebbe voluto, il modello a cui riferirsi per un rito civile unitario, che da tempo incontra gli auspici di molti interpreti e molti operatori pratici.
8. La delega sui riti. L’occasione mancata.
In relazione ai riti, tuttavia, il progetto del legislatore è più ambizioso, anche se ad una lettura attenta della delega, contenuta nell’art. 55, l’occasione assai ghiotta per la riconduzione ad unum della diaspora dei riti, come già si era tentato sul piano ordinamentale con la riforma del giudice unico, che ha introdotto una grande semplificazione delle regole sulla competenza e sul rito, appare solo abbozzata e ben lungi da essere compiuta in tutte le sue potenzialità.
Lo scopo del decreto legislativo è, tuttavia, quello della “riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione che rientrano nell’ambito della giurisdizione ordinaria e che sono regolati dalla legislazione speciale”.
Dunque non dovrebbero subire modifica i riti disciplinati nel codice di rito: il rito ordinario comune di cognizione regolato dagli artt. 163 e ss c.p.c., il rito del lavoro regolato dagli artt. 409 e ss. c.p.c., il rito delle locazioni e rapporti assimilati, art. 447-bis c.p.c. e il rito di famiglia artt. 708 e ss. c.p.c. (peraltro quest’ultima materia è comunque espressamente esclusa dalla lett. d) del 4° comma in esame, unitamente alle materie concorsuale, di proprietà industriale e del consumo, che restano regolate dalle leggi speciali).
Ne risulta, al di là del programma altosonante, una razionalizzazione dei riti fortemente attenuata, tanti sono i riti che devono sopravvivere alla delega, per cui la vera rivoluzione resta quella della abrogazione del rito dei sinistri stradali fonte di morte o lesioni e del rito c.d. societario, a cui la stessa legge ha già provveduto, per quanto è stato possibile già evidenziare.
9. Principi direttivi.
I criteri che dovranno ispirare l’esecutivo conducono ad una definizione del processo di cognizione piena nell’ambito di due riti, quello ordinario e quello speciale.
Il rito ordinario dovrà avere carattere generale e residuale, per quelle materie per le quali non sia previsto il rito speciale antagonista; a quest’ultimo dovranno (espressamente) riferirsi i procedimenti contraddistinti da concentrazione e officiosità dell’istruzione.
Inoltre il rito speciale antagonista diventa per elezione, sulla base di una scelta tradizionale a cui il legislatore non si è sentito di sottrarsi, quello del lavoro (artt. 409 e ss. c.p.c.).
La scelta è assai criticabile.
1. E’ da domandarsi la ragione per la quale si debba, innanzi allo stato in cui versa la giustizia e alla difficoltà di giungere ad una pronuncia di merito in tempi accettabilmente brevi, ancora porre l’impaccio di un rito speciale alternativo al rito ordinario, con tutti i problemi applicativi conseguenti.
2. Particolarmente quando il rito ordinario, nelle ondate di riforme che si sono susseguite, ha perso molto dei caratteri originari, presentandosi fortemente concentrato (con l’unica diversità di una lieve diversificazione delle preclusioni che sono fissate alla domande e alle eccezioni riservate alla parte, rispetto alle prove) e con un' evidente accentuazione dei poteri istruttori del giudice, solo che si pensi, quanto alla prova testimoniale, che il giudice monocratico di rito ordinario può assumere d’ufficio testimoni cui si sono riferiti non soltanto i testimoni medesimi (art. 257, 1° comma, c.p.c.), ma anche le parti (art. 281 – ter c.p.c.) e dunque esercita un potere che non differisce molto da quello del giudice del lavoro ex art. 421, 2° comma, c.p.c. (anzi in relazione al 3° comma della stessa disposizione, gli accessi ai luoghi di lavoro che costituiscono l’omologo dell’ispezione nel rito del lavoro, sono assoggettati ad istanza di parte, in contrasto con l’art. 118 c.p.c. che affida nel rito ordinario l’ispezione all'iniziativa del giudice).
3. Il rito del lavoro, in relazione alle incertezze di tecnica che ha contraddistinto la normazione dedicata alla udienza di discussione, sul piano formale appare assai meno garantistico per la parte: non è codificato in modo chiaro una riapertura dei termini per l’esercizio del contraddittorio o per errore scusabile, sulla falsariga di artt. 183, 5° e 6° comma, c.p.c. o, nel vecchio tenore,184-bis c.p.c. Mentre tutto sembra essere relegato ad un potere discrezionale del giudice di concedere per gravi motivi un ridotto ius poenitendi (cui ha fatto giustizia una giurisprudenza attenta ai valori costituzionali del giusto processo).
4. Non si è risolto il nodo dei riti camerali, destinati ad un assorbimento nel rito sommario (art. 55, 4° comma, n. 2 legge n. 69 del 2009), che trascina con sé tanti dubbi, in se per sé considerato, i quali non potranno non riproporsi anche per il processo in camera di consiglio.
I vincoli posti all’esecutivo è da sperare conducano ad un nulla di fatto, nell’auspicio di una rivisitazione dei riti con uno spessore e un’incisività ben diversa in una futura legge delega.
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