Revocatoria riformataClaudio Cecchella
Professore di diritto processuale civile e fallimentare, Università degli Studi di Pisa
La revocatoria fallimentare
Vorrei partire da una battuta iniziale ereditata da mio padre, economista per trent’anni alla facoltà di economia di Pisa, e che diceva sempre che l’impresa in crisi impone sul piano dalla scienza economica tre regole fondamentali:
a) la prima regola è che una impresa irreversibilmente in crisi deve essere eliminata dal mercato, perché la crisi dell’impresa è un virus che si propaga, che contamina altre imprese e quindi deve subito essere annientata come antidoto alla propagazione del male.
b) La seconda regola fa eccezione alla prima perché quando una impresa ha certe dimensioni e certe caratteristiche, come quella bancaria o quella assicurativa, la regola è invece inversa: bisogna fare in modo di far sopravvivere l’impresa perché le turbative al mercato e all’economia dal venir meno improvviso dell’impresa bancaria o assicurativa sono molto più gravi.
Su queste due regole economiche molto semplici, noi sappiamo che si innestano nell’ordinamento la procedura fallimentare, in funzione dell’eliminazione dell’impresa, e la procedura dell’amministrazione straordinaria o della liquidazione coatta, per quanto riguarda invece la regola economica applicabile alle grandi imprese.
c) Poi c’è una terza regola, che è quella che interessa di più oggi che dobbiamo affrontare il tema della revocatoria, quella della par conditio creditorum. Esiste una regola economica che vuole che le conseguenze dell’insolvenza siano spalmate sul ceto creditorio in maniera proporzionale ancora una volta per evitare turbamenti al mercato e all’economia è necessario che le conseguenze della crisi dell’impresa siano accettate in qualche modo da tutti i creditori in maniera proporzionale. Non ci devono essere i furbi che si avvantaggiano perché sono riusciti più rapidamente ad imporre una prestazione all’imprenditore, tutti devono essere collocati nella stessa posizione, le conseguenze dell’insolvenza se le devono digerire tutti proporzionalmente, quanti sono i creditori.
Questa terza regola io credo sia quella che fonda l’azione revocatoria, e la fonda ancora oggi dopo questo intervento di riforma. Non credo infatti che l’azione revocatoria, che ha come bene giuridico di fondo la par condicio, sia in realtà scalfita nella sua ratio fondamentale dalla riforma che stiamo per esaminare.
La riforma ha certamente attenuato le conseguenze più estreme, e perciò più inique, dell’azione revocatoria così come concepita, come azione che serve per ricondurre tutti i creditori allo stesso livello, per distribuire proporzionalmente ai creditori le conseguenze della crisi fallimentare. Certo, ha attenuato alcuni aspetti che portano l’impostazione della regola economica che si fa regola giuridica alla sua estremizzazione, qualche volta a detrimento delle concrete prospettive di risanamento dell’impresa, quando essa è ancora risanabile.
Resta inalterata dietro l’azione revocatoria fallimentare, anche dopo la riforma, questo principio di fondo: la par condicio creditorum, la proporzionale redistribuzione delle conseguenze dell’insolvenza verso tutti i creditori.
In effetti, se andiamo ad esaminare le norme che sono interessate dalla riforma, passandole brevemente in rassegna, scopriamo che l’intento della riforma non è quello di sovvertire questo principio fondamentale della redistribuzione, ma forse, per certi versi, di confermarlo, pur volendone attenuare le conseguenze più gravi.
E quali sono le norme riformate in materia di revocatoria?
- L’art. 67, 1° e 2° comma, della legge fallimentare, norma cardine, attraverso la riduzione dei periodi sospetti nei quali gli atti di disposizione vengono compiuti e quindi sono assoggettati agli effetti dell’azione revocatoria, allineando l’ordinamento italiano ad altri ordinamenti come quello tedesco, belga, francese che prevedono tempi in cui si configura la possibilità di rendere inefficacie l’atto di disposizione più brevi.
- Prevede inoltre l’art. 67 terzo comma alcune esenzioni dall’azione revocatoria che però evidenziano una variabilità notevole delle ragioni che le hanno ispirate. Non sono tutte unificabili in un'unica ratio.
Ad esempio, all’interno di queste esenzioni, si intravede la tutela di creditori particolari per la particolarità degli interessi di cui sono portatori. Penso ad esempio ai lavoratori, penso a coloro che hanno perfezionato un contratto di compravendita o un preliminare trascritto su un bene immobile destinato ad essere la propria abitazione o quella dei propri parenti o affini e che hanno pagato un prezzo giusto. Qui ci sono esigenze che attengono alla peculiarità del creditore, dell’interesse tutelato.
Ci sono poi esigenze di favore verso l’autonomia privata come soluzione della crisi dell’impresa. E’ l’intento di favorire la soluzione concordata, la soluzione dettata da scelte compiute dall’autonomia privata, anziché dal giudizio di organi pubblici. E’ la esenzione dalla revocatoria fallimentare degli atti che discendono dai piani di risanamento, dagli accordi di ristrutturazione, dai concordati, in modo da rafforzare questa via, la scelta alternativa verso una soluzione privata anziché pubblicistica ex lege della crisi, quale è il fallimento.
- Solo due ipotesi paiono scalfire l’originaria ratio dell’azione, introducendo attenuazioni all’azione revocatoria, concepita come azione che garantisce la par condicio creditorum : si tratta delle le due esenzioni che riguardano le rimesse in conto corrente (salvo alcune peculiarità della rimessa) e i pagamenti nei termini d’uso a favore dell’imprenditore, che come sappiamo all’art. 67, terzo comma, esclude dalla revocatoria.
Le rimesse di conto corrente certo è il tema più spinoso, sul quale ci dovremo soffermare e sul quale probabilmente si cerca di incidere (eliminandoli) sugli effetti eccessivi di una revocatoria, concepita solo ed esclusivamente come azione destinata alla par condicio creditorum, alla proporzionalità, alla redistribuzione delle conseguenze dell’insolvenza presso tutti i creditori. Ugualmente per il caso dei pagamenti nei termini d’uso. Ma dovremo tornare su questi temi.
- Abbiamo poi altri importanti interventi, quelli di cui all’art 69 e all’art. 70: la loro novellazione riguarda gli atti di disposizione dei coniugi e la presunzione muciana, ormai allineati ad un orientamento giurisprudenziale consolidato negli ultimi tempi, ispirato alla moderna concezione del diritto di famiglia, non più coerente con le scelte del legislatore fallimentare.
- Certamente l’art. 67 bis, prevede, unica disposizione che lo mette molto chiaramente in luce, una azione revocatoria contro gli atti di costituzione di patrimoni separati quando pregiudicano la garanzia patrimoniale. La disposizione lo dice in modo espresso, ma non mi pare che questo sia un segno nella direzione di uno sconvolgimento della azione revocatoria, nel senso convertirla in una azione ordinaria, dove l’elemento del pregiudizio patrimoniale è essenziale, essendo protetta non la par condicio, ma la garanzia patrimoniale. Lo si dice dunque in una ipotesi particolare, quella dei patrimoni destinati ad uno specifico affare, che noi sappiamo essere regolati in modo specialissimo dalla legge fallimentare, tant’è che agli articoli 156 e 157 questi patrimoni delle società, destinate a specifici affari non sono assoggettate alla liquidazione fallimentare, ma ad una liquidazione alla pari di una liquidazione societaria e sono tutelati anche dopo il fallimento nella loro destinazione, sono soggetti quindi ad un regime del tutto originale che sconvolge lo stesso regime speciale fallimentare. Quindi non mi pare che la disposizione dell’art. 67-bis, dove pure l’aspetto del pregiudizio al patrimonio è collocato come aspetto centrale, dove l’aspetto della par condicio sfuma, dove sembra emergere l’elemento costitutivo dell’azione revocatoria ordinaria, sia indice di uno sconvolgimento dell’azione revocatoria. Troppo specifico il caso in cui si inserisce questa disposizione. La lettura dell’articolo 67-bis non può essere disgiunta dalla lettura degli articoli 156 e 157.
- Abbiamo poi il tema delle decadenze e prescrizioni della disciplina, che finalmente colmano il vuoto normativo che caratterizzava la disciplina precedente, dove la giurisprudenza ci aveva suggerito l’applicazione quinquennale prevista nell’art. 2902 c.c. anche all’azione revocatoria fallimentare; oggi all’art. 69-bis si regola specificamente prescrizioni e decadenze, sulla falsariga di tale orientamento.
- Abbiamo l’art. 70, che non si occupa più di presunzione muciana ma di effetti della revocatoria, facendo trasmigrare nella disposizione - salvo qualcosa di più particolare sulle rimesse di conto corrente - norme che già erano inserite nella legge fallimentare: mi riferisco in particolare a quanto stabilito a suo tempo nell’art. 71.
- Abbiamo infine il richiamo dell’azione revocatoria in altre disposizioni, quando è regolata la cessione dell’azione revocatoria, che ha luogo nell’ambito del concordato, art. 124 della legge fallimentare o nell’ambito della liquidazione dell’attivo fallimentare, art. 106 della legge fallimentare. L’istituto diventa semplicemente un modo di liquidazione dell’attivo, concordato o imposto in sede di procedura falimentare ex lege.
Alla luce di questa disamina un pò rapida di disposizioni, a me pare che non vi sia uno sconvolgimento di quella che è la caratteristica di fondo dell’azione revocatoria. Io credo che la Corte di Cassazione, per quanto dovrà ridimensionare certi orientamenti, mi riferisco particolarmente alle rimesse sul conto corrente bancario, non arriverà a sconvolgere le caratteristiche di questa azione, che continuano ad essere quello che già era, sulla base di quella regola economica che mio padre economista mi ricordava, in forza della quale, per l’equilibrio del sistema è necessario che quando una impresa è insolvente la redistribuzione delle conseguenze di insolvenza avvenga in capo a tutti i creditori in modo proporzionale. Pertanto la giurisprudenza che ha revocato atti di compravendita il cui ricavato è pur destinati al soddisfacimento di creditori che avevano prelazione sul bene compravenduto, continuerà a revocare tale tipo di atto, dovendosi tutto ricondurre alle leggi del concorso.
Pertanto non è soppianta la tradizionale ricostruzione. Se l’azione revocatoria è esercitata nei confronti di un soggetto che non è imprenditore o di un soggetto che è un imprenditore ma non è insolvente, la par condicio creditorum diventa ipotesi assolutamente nello sfondo della ragione della tutela. La ragione della tutela dell’azione revocatoria ordinaria, perché esercitata nei confronti di un debitore non imprenditore o di un imprenditore non insolvente, è infatti esclusivamente quella di ricostituire la garanzia patrimoniale al creditore che agisce e l’aspetto della par condicio creditorum, del concorso, della proporzionalità della redistribuzione non esiste. Pensiamo ai mezzi di tutela del creditore nell’ambito delle azioni individuali ordinarie o esecutive dove il creditore agisce sulla base di impulsi individuali e dove non necessariamente sono coinvolti tutti gli altri creditori. Pensiamo all’efficacia dell’azione revocatoria ordinaria, destinata a consentire l’azione esecutiva al solo creditore che ne ha beneficiato come attore o come interveniente volontario in causa. Pensiamo a come è disciplinato l’intervento volontario nell’ambito dell’esecuzione, che è fortemente diminuito rispetto agli spazi che aveva nel recente passato dopo la riforma del processo esecutivo individuale dovuto alla legge 80 (rendendosi necessario il possesso di un titolo esecutivo o la sua costituzione all’interno del processo esecutivo, mediante un incidente di cognizione). Pensiamo infine agli effetti del sequestro conservativo, i cui benefici ricadono solo sul creditore sequestrante.
In questo ambito, come nell’azione revocatoria ordinaria, il profilo relativo alla par condicio creditorum non è centrale, ma resta in secondo ordine (nel senso che non viene abbandonato all’iniziativa individuale). Il profilo centrale è invece la ricostituzione delle garanzia patrimoniale.
Quando l’imprenditore è insolvente e incorre nella situazione di crisi che contraddistingue l’insolvenza e che quindi necessita che sia avviata una procedura di carattere concorsuale, allora ecco che l’azione si modifica. Non ha più come ragion d’essere, come bene giuridico di fondo, la tutela della garanzia patrimoniale, bensì come assolutamente centrale la tutela della par condicio creditorum.
Credo che le ragioni di fondo che ispiravano coloro, prevalentemente la giurisprudenza, ma anche una certa dottrina, nel ricostruire l’azione revocatoria fallimentare in senso anti-indennitario, nella quale il pregiudizio patrimoniale è irrilevante, sono ragioni che persistono anche nell’attuale sistema.
1) Perchè nell’attuale sistema resta l’esenzione dalla revocatoria ordinaria dei pagamenti di debiti scaduti, in base all’art 2901 del codice civile che invece sono revocabili in base all’art. 67 secondo comma della legge fallimentare: queste scelte di fondo hanno un enorme peso nella ricostruzione delle due azioni. Un atto dovuto, che come tale non altera la garanzia patrimoniale, quando è reso nel contesto dell’insolvenza è un atto revocabile, perché favorisce un creditore rispetto agli altri creditori, perché il bene giuridico non è la ricostituzione della garanzia patrimoniale, ma la proporzionale redistribuzione dell’insolvenza nell’ambito dei creditori e la legge del concorso; quindi se un creditore ha ottenuto un pagamento è giusto che restituisca e partecipi anch’egli ai riparti, come gli altri.
2) Ugualmente norme come quella in materia di azione revocatoria ordinaria che escludono il terzo contraente che subisce gli effetti della revocatoria dalla possibilità di essere ricollocato nella stessa posizione dei creditori pregiudicati dalla revocatoria (art. 2902, 2° comma, c.c.), non si espandono oltre l’ipotesi regolata. Noi sappiamo che colui che subisce l’azione revocatoria ordinaria e che ha avuto un rapporto contrattuale con il debitore è collocato in una posizione deteriore rispetto al creditore che ha beneficiato dell’accoglimento dell’azione e degli altri creditori. Nell’ambito della revocatoria fallimentare questo non esiste ed è ben ribadito nell’art. 70, nel senso che costui può partecipare al concorso mediante domanda di ammissione al passivo. È chiaro che nella partecipazione al concorso, colui che ha subito gli effetti dell’azione revocatoria fallimentare come prima, ancora oggi, si trova collocato esattamente nella stessa posizione di altri creditori. Quindi questi principi di fondo che caratterizzavano l’azione revocatoria fallimentare persistono nell’attuale sistema, dovuto alla riforma.
Quindi la ragione di essere dell’ azione in esame non è quella di ricostituire la garanzia patrimoniale, dove il pregiudizio, l’eventus damni, è assolutamente sullo sfondo, sostituito dalla violazione della par condicio creditorum.
L’elemento veramente centrale è la violazione della proporzionalità, la violazione della parità della posizione dei creditori, che continua ad ispirare l’azione revocatoria fallimentare, oggi come non molto tempo fa, perché i principi fondamentali che ho cercato di enunciarvi brevemente, che noi ricaviamo dall’art. 2901 c.c. e dall’art. 67, sono principi che continuano a persistere pienamente.
Quello che probabilmente è modificato rispetto all’azione revocatoria fallimentare di un tempo, sono alcune conseguenze un pò perniciose, portate alle estreme conseguenze dall’ azione revocatoria fallimentare, concepita come azione a tutela della par condicio creditorum, rispetto alle quali qualche responsabilità, se così si può dire, l’ha senz’altro la giurisprudenza e rispetto alle quali l’ordinamento ha in qualche modo voluto porre rimedio con delle attenuazioni, senza però modificare la ratio di fondo di questa azione.
Si deve infatti prendere atto che un’azione revocatoria portata alle estreme conseguenze, dove cioè non sono precisate alcune esenzioni, potrebbe essere sicuramente portatrice di una dinamica verso la crisi dell’imprenditore. Non si può cioè negare che portare alle estreme conseguenze questo concetto di azione revocatoria è fattore di crisi dell’impresa e merita di essere attenuato; almeno l’interprete oggi deve razionalizzare la scelta del legislatore, quella di non favorire il progressivo, lento, giungere dell’impresa all’insolvenza.
1) Perché quando noi concepiamo come revocabili anche atti che l’imprenditore compie in via ordinaria – non penso soltanto ai pagamenti nei termini d’uso che sono stati oggi esentati esplicitamente nell’art. 67, 3° comma, ma anche agli atti ordinari di scambio di beni o servizi che siano fatti a prezzo giusto: si tratta di attività assolutamente normali nell’ambito dello svolgimento dell’attività imprenditoriale. Queste attività sono fondamentali per l’imprenditore e per la sua sopravvivenza; sono poi alla base della possibilità per l’imprenditore che vive i primi sintomi della crisi ancora reversibile di una spinta in qualche modo per superarli. Se concepiti severamente come atti suscettibili di azione revocatoria fallimentare, potrebbero favorire il lento progressivo passaggio verso la crisi definitiva dell’impresa, perché nessun fornitore di beni o servizi è disposto a entrare in rapporto con l’imprenditore per i rischi degli effetti della revocatoria, e quest’ultimo è destinato ad una crisi irreversibile, quella insolvenza che è alla base del procedimento per la dichiarazione di fallimento.
Allora il nostro legislatore ha un po’attenuato queste conseguenze, ma non in senso generale, perché se voi leggete bene l’art. 67, 3° comma, c.c., gli scambi di beni o servizi a prezzo giusto non sono esentati da revocatoria, continuano a esserne soggetti; dunque in questo caso persiste nello sfondo l’esigenza della tutela della par condicio creditorum. Il legislatore esclude solo almeno oggi i pagamenti nei termini d’uso, i pagamenti ordinari che l’imprenditore effettua senza alterare il modo in cui ha condotti in concreto i suoi rapporti in tutto il corso della sua attività.
3) Nello stesso modo mi pare debba essere interpretata la disciplina che riguarda le rimesse sul conto corrente bancario. Anche in questo ambito la reazione del legislatore non è di sconvolgimento della azione revocatoria in senso generale. È una reazione di fronte ad una impostazione giurisprudenziale che con tutta onestà ha portato alle estreme conseguenze il rilevato concetto di azione revocatoria, che ora deve essere ricondotta maggiormente ad equità e ad una maggiore correttezza di impostazione. Perché certamente una revocatoria delle rimesse in conto corrente concepita come la concepiva la giurisprudenza della Corte di cassazione negli ultimi anni è ancora un fattore che favorisce la insolvenza che crea le condizioni per modificare uno stato reversibile di crisi dell’imprenditore verso uno stato definitivo. Ad esempio la banca è portata a non consentire gli sconfinamenti (perché proprio essi nel vecchio regime consentivano la revocatoria, nel loro perverso cumulo giornaliero) o la banca nell’ipotesi migliore cerca di favorire una sopravvivenza del conto corrente, limitandosi a controllarlo e proiettare sempre più in là nel tempo il fallimento per mantenere in vita l’agonizzante impresa che poi presto o tardi arriva sicuramente all’insolvenza (in questo caso per evitare il c.d. “periodo sospetto” per l’esercizio dell’azione). Oggi non ha più rilievo lo sconfinamento o meno dal fido autorizzato per iscritto dalla banca oppure il cumulo degli sconfinamenti giornalieri, bensì – pur con un concetto troppo elastico per non suscitare pericoli di un ritorno al passato – la riduzione “consistente e durevole” dell’esposizione anche sotto la soglia del fido, come matrice della fattispecie che genera l’azione; quanto agli effetti invece questo non sono determinata dal cumulo dei picchi giornalieri ma dalla differenza tra la pretesa residua e la massima pretesa nel periodo per il quale vi era conoscenza dello stato di insolvenza). L’imprenditore in crisi reversibile potrà quindi ancora attingere al prestito bancario anche fuori dal fido, quando i versamenti sono solo destinati a consentire la provvista per le operazioni che deve compiere e non sono destinate a ridurre in modo consistente anche nel tempo la pretesa della banca.
E’ opportuno un maggiore approfondimento dell’istituto.
Ricordiamo tutti la distinzione tra conto corrente passivo e conto corrente scoperto, ricordiamo come fossero soggette a revocatoria solo le rimesse di conto corrente scoperto, con l’affidamento come limite, come soglia dell’azione revocatoria della banca, da intendersi come affidamento scritto e non tacito, come nell’affidamento la giurisprudenza abbia fatto riferimento alla sola apertura di credito non alle altre forme di affidamento di cui poteva godere l’imprenditore, come l’ammontare dei titoli scontabili, o l’anticipazione su operazioni di esportazione o importazione. Severissima la lettura, poi, delle conseguenze dell’azione revocatoria, nella previsione di un conteggio plurimo dei vari saldi giornalieri, saldi non contabili ma disponibili, cioè, quando realmente l’imprenditore aveva la disponibilità della somma sul conto, la sommatoria di questi saldi portava in molti fallimenti le banche a trasformarsi in finanziatrici a fondo perduto delle procedure. È chiaro che a questo punto il legislatore è intervenuto e seppur qualcuno ha ritenuto questa una scelta ideologica a favore del ceto bancario, io credo che sia una scelta che probabilmente il legislatore non avrebbe adottato se l’orientamento della giurisprudenza fosse stato meno drastico, essendoci pure spazio per un diverso orientamento nel regime pregresso.
Il legislatore ha reagito con due disposizioni, l’art. 67 terzo comma lettera d) e l’art. 70, disposizioni che qualcuno vorrebbe leggere come contraddittorie tra di loro, ma che io mi sento di leggere in maniera consequenziale. Io credo che il nostro compito di interpreti debba essere, di fronte ad disciplina che è quello che è - dobbiamo prendere atto che purtroppo nell’ultimo decennio il materiale normativo che ci viene propinato dal legislatore, particolarmente in queste materie, è di difficile interpretazione -, quello di dare un minimo di ragionevolezza a quello che è offerto dal diritto positivo.
A questo punto l’art. 67, terzo comma, fissa la fattispecie e l’art. 70 si preoccupa più precisamente degli effetti, del quantum delle conseguenze del suo accoglimento.
Quindi nel primo caso si stabilisce che sono soggette a revocatoria - senza più distinguere tra rimesse in conto corrente passivo e in corrente scoperto - quelle rimesse in senso lato su di un conto corrente passivo che abbiano, dice la norma, in maniera consistente e durevole ridotto l’esposizione dell’imprenditore. Quindi le rimesse che non hanno per lo più lo scopo di ricostituire la provvista, che rientrano nelle modalità attraverso cui l’imprenditore, nella singola fattispecie, da valutare caso per caso, aveva instaurato con la banca, ma quelle che sono all’origine di un andamento anomalo, perché creano una riduzione consistente del passivo. Allora scatta l’an dell’azione revocatoria e quindi la fattispecie.
La soluzione relativa alla quantificazione è una soluzione abbastanza chiara dettata dall’art. 70 terzo comma, dovuto alla novella del 2007, che ha chiarito certi dubbi che la norma proponeva prima, esplicitando la regola dell’azione sulla rimessa in conto corrente dove, a questo punto, la quantificazione è la differenza tra l’ammontare del massimo dalle pretese raggiunto della banca nel peridodo di riferimento e l’ammontare residuo delle stesse.
Per concludere da un punto di vista generale l’azione revocatoria fallimentare è rimasta inalterata. E’ l’azione giurisdizionale che ha come bene giuridico di fondo la tutela della par condicio creditorum: leggendo l’art. 67 in lungo e in largo continuo a pensare non abbia rilievo costitutivo l’elemento del danno patrimoniale, l’eventus damni, ma al contrario altri elementi costitutivi dell’azione hanno rilevanza, quale è (a) il compimento dell’atto in certi periodi in cui l’ordinamento presume essersi verificata l’insolvenza e (b) la conoscenza della insolvenza dell’imprenditore da parte del contraente, elementi nei quali l’eventus damni non compare.
La riforma coincide con un intervento del legislatore, volto ad attenuare le conseguenze più estreme di questa concezione dell’azione revocatoria che è ancora tuttavia ben presente nell’ambito del sistema, in forza delle quali laddove l’atto rientra nella ordinarietà dell’esercizio dell’impresa (pagamento nei termini d’uso la rimesse con scopo di ricostituzione della provvista anche extra fido) non sono soggette alla revocatoria.
L’atteggiamento del legislatore è ancora timido perché il legislatore esime solo i pagamenti e non gli scambi di beni e servizi a prezzo giusto, forse l’estensione doveva comprendere questa categoria di atti, dando il segno di un intento di non sovvertire il senso dell’azione ma di attenuarne gli aspetti più estremi in quella che ne è la sua applicazione giurisprudenziale (particolarmente per le rimesse in conto corrente).
Fatta questa premessa di carattere generale vediamo ora di vedere un po’ più da vicino la disciplina della azione revocatoria, cercando di dare delle indicazioni di massima sugli aspetti forse più importanti e sulle loro ricadute interpretative, in quello che è un compito lasciato alla fantasia dell’interprete, perché non abbiamo in questo momento il fondamentale materiale giurisprudenziale che è guida dell’interprete.
Il primo tema su cui mi vorrei soffermare è quello relativo ai termini decadenziali che il legislatore ha introdotto nella nuova disciplina: mi riferisco in particolar modo all’art 69 bis della legge fallimentare. Sappiamo che la legge fallimentare originaria non prevedeva alcun termine prescrittivo esplicitamente dell’azione revocatoria e sappiamo anche che la giurisprudenza ha sempre applicato il termine prescrittivo stabilito nel codice civile per l’azione revocatoria ordinaria, cioè in via analogica all’art. 2903 c.c. prevedendo che la prescrizione fosse quinquennale, naturalmente facendola maturare dal momento in cui è dichiarato il fallimento con la sentenza, perché prima non è possibile esercitare l’azione revocatoria.
Oggi su questa disciplina interviene l’art. 69 bis ed interviene prevedendo una duplice regola. Una regola che fissa il termine, definito decadenziale in rubrica, non più di cinque, ma di tre anni dalla dichiarazione di fallimento, che quindi attenua i suoi effetti, sempre in quella logica di ricondurre ad equità le conseguenze drastiche dell’azione revocatoria fallimentare. Però aggiunge una norma secondo la quale dall’azione si decade comunque decorsi i cinque anni dal compimento dell’atto. Quindi per un verso la norma attenua la durata del termine fissandolo in tre anni anziché cinque dalla sentenza dichiaratrice di fallimento, ma prevede anche che l’azione revocatoria non può essere esercitata dopo che siano decorsi cinque anni dal compimento dell’atto. La previsione è un pò anomala perché non è possibile esercitare un’azione revocatoria fallimentare finché la dichiarazione di fallimento non abbia avuto luogo. Ora, fare decorrere un termine quando ancora l’azione non è esercitabile forse sul piano dell’opportunità o della costituzionalità pone seri problemi. Ma a ben pensare l’ipotesi non può configurarsi in relazione al fallimento dove il termine sospetto massimo è di due anni dal perfezionamento dell’atto (artt. 64 e 65); essa ha un altro significato che sarà ben messo in luce tra breve.
Un altro aspetto relativo ai termini su cui mi vorrei soffermare è quello relativo alla applicazione dei termini sospetti che noi sappiamo sono stati ridotti in modo significativo nell’art. 67 primo e secondo comma, dimezzandoli per lo più.
Esiste inoltre il problema del loro computo, quando c’è una consecuzione di procedure concorsuali, cioè quando il fallimento è l’epilogo di un concordato non andato a buon fine e per quanto riguardava la vecchia disciplina di una amministrazione controllata non andata a buon fine. Il legislatore avrebbe avuto l’occasione di chiarire questi profili interpretativi riguardanti il computo del periodo sospetto quando c’è una consecuzione di procedure concorsuali. Questo non lo ha fatto e dunque ci dobbiamo porre il problema di come risolvere questa lacuna ricordandoci come la giurisprudenza si era espressa fino ad oggi. Una giurisprudenza molto severa, volta a conteggiare il termine dalla prima di queste procedure, ancorché questa, secondo il vecchio orientamento fosse l’amministrazione controllata che non ha come presupposto l’insolvenza, ma la temporanea difficoltà di adempiere dell’imprenditore, che è un concetto diverso dall’insolvenza.
Il problema è oggi attualissimo perché, pur essendo stata soppressa l’amministrazione controllata, il concordato preventivo prevede tra i suoi presupposti, la crisi dell’imprenditore e con un chiarimento successivo dato dal legislatore, di fronte ad una interpretazione un po’ oscillante della prima disposizione, all’ultimo comma dell’art 160 si dice chiaramente che la crisi dell’impresa può coincidere con l’insolvenza, ma non solo. L’insolvenza è un caso di crisi dell’impresa che può aversi anche in situazioni che evidentemente sono assimilabili alla vecchia temporanea difficoltà presupposto dell’amministrazione controllata e sono egualmente presupposto per l’avviarsi di una procedura di concordato.
L’idea è che la giurisprudenza ribadirà l’orientamento, nel senso di conteggiare i periodi sospetti dal momento dell’ammissione alla procedura di concordato preventivo, una giurisprudenza, come lo era ancora ieri, da esaminare criticamente perché una cosa è una procedura che si innesta necessariamente sull’insolvenza e una cosa è una procedura che si innesta su qualcosa di diverso dall’insolvenza. E ho detto all’inizio che l’azione revocatoria è concepita in maniera così rigorosa e così diversa dalla azione revocatoria ordinaria, perché presuppone che vi sia una insolvenza.
Un dato positivo a sostegno dell’interpretazione giurisprudenziale è oggi il termine decadenziale di cinque anni dal compimento dell’atto ex art. 69 – bis, che non ha molto senso se si applica al fallimento (dove il periodo sospetto più lungo è di due anni!!), e quindi dalla quale è possibile desumere una riesumazione dell’antico orientamento giurisprudenziale.
Resta una disciplina peculiare dell’azione revocatoria fallimentare, sul piano processuale, che è la legittimazione ad agire del curatore e la competenza attrattiva del tribunale fallimentare. Queste due regole processuali legate alla legittimazione e alla competenza sono inalterate dopo la riforma. Sulla competenza, regolata nell’art. 24, bisogna dire che il legislatore aveva nella prima riforma, accanto al primo comma, volto ad estendere i casi di vis actractiva della competenza del tribunale anche alle azioni reali immobiliari, previsto al secondo comma una regola sulle forme del processo attraverso le quali deve essere avviata e condotta l’azione revocatoria fallimentare.
Si trattava di forme che richiamavano il rito camerale; però qui il legislatore al secondo comma dell’art. 24 non prevedeva il rito camerale ritoccato e rivisto nell’esperienza concreta e normativa della riforma. Penso al procedimento per la dichiarazione di fallimento, all’accertamento del passivo, ai reclami degli atti degli organi giurisdizionali dove il rito camerale è una etichetta, dove dietro esiste la corposa realtà di un processo a cognizione piena aperto a tutte le garanzie, anche sul piano della prova e della trattazione delle difese, semplicemente di rito speciale. Il legislatore ha inventato una serie di riti speciali, innanzi a numerosi altri riti speciali di cognizione piena di diritto comune, perché l’uno è diverso dall’altro anche nello stesso ambito della legge fallimentare.
La soluzione dell’art. 24 secondo comma non era in questa direzione, non era nella direzione di un rito camerale rivestito nella sostanza di processo a cognizione piena, ma richiamava gli art. 737 e ss. del codice di procedura civile, cioè un rito camerale puro, privo di disciplina, lasciato totalmente alla discrezionalità del giudice probabilmente in violazione dell’art. 111 Cost., quantomeno quanto alla riserva di legge sancito da tale disposizione. Il rito per la mancanza di una disciplina all’interno degli articoli a cui faceva rinvio, era abbandonato alla libertà del giudicante.
Questa norma è stata oggetto di asprissima critica da parte degli interpreti i quali hanno immediatamente evidenziato l’inopportunità della soluzione, lasciando una controversia così delicata a pochissime regole - in fondo si tratta solo dell’art. 738 c.p.c., l’unica norma che disciplina il rito camerale puro -, lasciando in balia di forme inesistenti sul piano legislativo una controversia delicata come quella dell’azione revocatoria fallimentare.
Per fortuna il legislatore del correttivo nel 2007 (d. lgs n. 169) ha soppresso - anche se porrà problemi devastanti sul piano transitorio, ma su questo non mi vorrei pronunciare - questo secondo comma risollevando il “morale” dell’interprete, per cui oggi le regole restano quelle ordinarie, di un processo a cognizione piena, con tutte le sue garanzie.
Un’altra previsione di un certo interesse è quella della cessione dell’azione revocatoria che noi troviamo disciplinata, come accennavo all’inizio, nell’art. 124, per quanto riguarda il concordato fallimentare e nell’art. 106, per quanto riguarda le modalità di liquidazione dell’attivo.
1) L’art. 106 prevede, tra le modalità di liquidazione dell’attivo – la norma si spinge verso forme nuove di liquidazione che noi non conoscevamo nell’ambito dell’esecuzione individuale - anche il caso della cessione di azioni revocatorie autorizzate già pendenti. Questa è una modalità di liquidazione assolutamente originale nella disciplina del fallimento, cioè quella di cedere l’azione revocatoria, purché questa sia stata già autorizzata e già penda come procedimento.
2) L’art. 124 prevede invece la possibilità che, nel caso che terzi si facciano promotori del concordato fallimentare, vista la legittimazione allargata del concordato fallimentare a soggetti diversi dall’imprenditore, nella proposta i terzi chiedano di rendersi cessionari delle azioni revocatorie. Direi più ampiamente delle azioni della massa che possono essere esercitate dal curatore, purché dice la norma già autorizzate. In questo caso la norma non dice pendenti.
A ben riflettere questa previsione non deve far pensare a uno sconvolgimento dell’azione revocatoria rispetto a quando è esercitata da un curatore allo scopo di recuperare un bene alla par condicio creditrorum , alla liquidazione e al riparto dei creditori. Quando l’azione revocatoria viene ceduta ad un acquirente in vendita forzata (o a un terzo che propone un concordato), può dare la sensazione che ne sia modificata la ratio. Non si avrebbe più un’azione volta a tutelare la par condicio creditorum, ma un’azione di invalidazione di un atto di disposizione che retroceda la titolarità del bene al fallito, una sorta di azione di rivendicazione che il terzo acquirente o proponente del concordato esercita allo scopo di conseguire detta titolarità. Io credo che questa disciplina non deve portare a concepire ancora una volta una modificazione delle caratteristiche dell’azione revocatoria. A ben pensare, l’azione revocatoria resta quella che è. L’unica particolarità della disciplina sta nel fatto che l’atto di liquidazione per certi versi è perfezionato prima che l’azione revocatoria sia accolta, con lo scopo di recuperare il bene alla liquidazione. È una sorta di atto di liquidazione a tutela della par condicio creditorum che è condizionato all’accoglimento successivo dell’azione revocatoria da parte del proponente del concordato o da parte dell’acquirente di vendita forzata, ma la ratio dell’azione revocatoria resta sempre quello di acquisire un bene alla liquidazione, in funzione del soddisfacimento dei creditori in modo paritario.
Due ultime considerazioni prima di terminare il mio intervento, una riguardante la disciplina della revocatoria fallimentare in relazione agli atti compiuti nell’ambito della famiglia, tra coniugi; l’altra considerazione è quella di riflettere, ancora una volta, per cercare di rafforzare quella impostazione che ho cercato di dare sulla azione revocatoria fallimentare, intorno alla forma ordinaria quando è esercitata in sede fallimentare sottolineando come perda la purezza che la contraddistingueva come azione revocatoria ordinaria.
Quanto al tema del diritto di famiglia, è eliminata la presunzione muciana, con la totale novellazione dei contenuto dell’art. 70; questo è il risultato di una scelta che ormai la giurisprudenza da tempo aveva offerto. Quest’ultima aveva colto, anche se con una certa progressività, gli effetti perversi della presunzione muciana nell’ambito dei regimi patrimoniali del diritto di famiglia, dopo la legge del 1975. Quando il regime patrimoniale della famiglia è quello della comunione dei beni, cumulandolo con la presunzione muciana, l’automatica conseguenza era costituita dall’appropriazione dell’intero patrimonio familiare da parte della curatela fallimentare (il 50% in forza della comunione ex lege, il residuo 50% in forza della nominata presunzione) e quindi quei valori di tutela del coniuge debole e di preservazione di una parte del patrimonio familiare venivano drasticamente eliminati dalla legge fallimentare. Tra l’altro la giurisprudenza era giunta a queste valutazioni anche nel caso di regime di separazione patrimoniale dei coniugi.
Il legislatore poi razionalizza all’art. 69 la disciplina degli atti compiuti tra i coniugi. Noi sappiamo che nell’ambito degli atti di disposizione compiuti nell’ambito matrimoniale, per la ovvia complicità che si crea tra i coniugi, si manifestano le iniziative più insidiose e pregiudizievoli per la procedura fallimentare e i creditori, donde la necessità di un regime più rigoroso.
Allora ecco che la norma non fa altro che innestare un coordinamento di questa disciplina con gli artt. 67, 64 e 65. Che era mancato nel passato. Ad esempio laddove non era richiamata la disciplina degli atti a titolo gratuito, l’art. 64, o il pagamento di debiti non scaduto e con scadenza coincidente o successiva alla dichiarazione di fallimento, art. 65 della legge fallimentare, cui sembrava esentato il coniuge. Oggi vengono richiamati espressamente nella norma, sulla scia peraltro di una sentenza della Corte cost.
A) La norma, poi, introduce un criterio di severità esteso a tutti i casi, nel senso che il periodo sospetto a questo punto salta, perché ciò che conta è che l’atto sia compiuto durante il matrimonio e quando l’imprenditore era imprenditore, cioè quando ha iniziato a svolgere una attività di impresa. Quindi il periodo sospetto si trasforma in una fattispecie nella quale gli elementi sono il matrimonio unito alla qualità di imprenditore del coniuge interessato (unici elementi sui quali il curatore ha un onere di allegazione e prova).
B) Dal punto di vista soggettivo, infine, si presume sempre la conoscenza dello stato di insolvenza. Questo è l’altro aspetto di maggiore severità della norma. Semmai quello che si può notare è che proprio il richiamo alla disciplina degli atti gratuiti resta un richiamo più favorevole al coniuge, perché noi sappiamo che nell’ambito degli atti gratuiti non ha rilievo l’elemento soggettivo, qui invece sembrerebbe avere rilievo, perché quando si dice che per il coniuge è presunto lo stato di insolvenza si lascia comunque la facoltà al coniuge di dimostrare che non conoscesse lo stato di insolvenza, anche nell’ipotesi dell’art. 64 (e 65).
Ultimo aspetto è quello della ricaduta del contesto fallimentare dell’azione revocatoria pauliana. Anche l’azione revocatoria ordinaria quando vive del contesto fallimentare subisce inevitabilmente degli effetti modificativi del suo regime comune, il che forse deve far rimeditare certe teorie che vorrebbero ricondurre tutto alla ratio, ai principi dell’art 1901 c.c.
Intanto la legittimazione e le regole processuali dell’azione revocatoria ordinaria esercitata nell’ambito fallimentare sono le stesse dell’azione revocatoria fallimentare, però quello che preme evidenziare è che anche nell’azione revocatoria ordinaria esercitata in costanza di fallimento esiste quel regime di tutela del contraente che ha avuto modo di contrarre con l’imprenditore che è stato destinatario degli effetti della revocatoria di essere collocato in maniera paritetica rispetto agli altri creditori.
Quindi questo evidentemente fa balzare un po’ l’attenzione ad un ricollocamento di colui che ha subito il pregiudizio di una azione revocatoria in una posizione che è quella di parità rispetto agli altri creditori.
Poi è da ritenere che il regime della prescrizione, perché la norma è generale, a questo punto diventi regime della prescrizione dell’art. 69- bis. Quindi non si applica più il regime dell’art. 2902 ma quello particolare dell’art. 69-bis, il quale richiama espressamente le azioni di cui alla sezione, e quindi si deve pensare anche all’azione revocatoria ordinaria.
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