Assegno divorzileSUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Sentenza 13 maggio - 17 luglio 2009, n. 16800
(Presidente Vittoria - Relatore Forte)
Svolgimento del processo
Con sentenza del 6 aprile 2005, il Tribunale di Ravenna pronunciava la cessazione degli effetti civili del matrimonio di V.L. e A.M. e respingeva la domanda di questa di assegno divorzile a carico dell'ex coniuge, ritenendo le parti entrambe economicamente autosufficienti e condannando la donna al pagamento delle spese di causa.
Contro tale pronuncia proponeva appello la M., per il mancato riconoscimento, in suo favore, dell'assegno di divorzio e censurando la condanna alle spese subita in primo grado: la Corte d'appello di Bologna, con sentenza dell'8 novembre 2005, ha rigettato il gravame e condannato l'appellante alle spese del grado.
In primo grado la domanda di assegno della M. era stata respinta perché il V. aveva dedotto che, dopo la separazione consensuale del omissis nella quale si era concordato un suo contributo al mantenimento della moglie di L. 350.000 mensili, essendo stata a lui assegnata la casa familiare, di cui fruiva come dipendente dell'Azienda agricola omissis che ne era proprietaria, egli era andato in pensione e aveva quindi ridotto i suoi redditi, ricevendo mensilmente la somma di Euro 852,00, che non gli consentiva di corrispondere alcunché alla M. che, come operaia stagionale agricola percepiva un reddito mensile maggiore del suo di Euro 1.200,00 circa, contribuendo oltre tutto l'ex marito al pagamento delle rate di acquisto dell'auto della figlia K..
La M., in primo grado, aveva replicato a tali deduzioni del V., affermando che lo stesso aveva ricevuto il trattamento di fine rapporto nel omissis di L. 47.000.000 e nulla le aveva riconosciuto per tale introito, e comunque svolgeva attività di lavoro retribuito in nero; il tribunale aveva respinto la domanda di assegno per la posizione economico - patrimoniale sostanzialmente pari delle parti alla data della pronuncia del divorzio.
Con l'appello la M. ha insistito nella richiesta di assegno per le ragioni già dedotte in primo grado e la Corte d'appello ha rilevato che, in ordine al trattamento di fine rapporto, nulla spettava all'appellante, che non aveva neppure richiesto una quota di esso, affermando inoltre che la continuazione di fatto dell'attività lavorativa dell'uomo, in favore dell'ex datore di lavoro, non solo non era stata provata ma risultava smentita dalla istruttoria espletata in primo grado, avendo i testi escussi negato che il V. svolgesse un lavoro retribuito.
Correttamente quindi era stata rigettata in primo grado la richiesta di assegno e la soccombente era stata condannata alle spese e altrettanto doveva decidersi in appello con il rigetto del gravame e la condanna della M. alle spese del grado.
Per la cassazione di tale sentenza, la M. propone ricorso di un solo articolato motivo, notificato il 14 febbraio 2006 e illustrato da memoria, cui resiste, con controricorso, notificato il 24 marzo 2006, il V..
Motivi della decisione
1.1. Con il ricorso della M. è denunciata violazione dalla sentenza impugnata dell'art. 5 della legge 1 dicembre 1978 n. 898, come modificato dalla legge 6 marzo 1987 n. 74, in rapporto all'art. 2697 c.c., pure per insufficiente motivazione, ex art. 360, n. 3 e 5, c.p.c.
Erroneamente la Corte d'appello ha negato esservi la prova di maggiori redditi attuali, rispetto a quelli della ricorrente, per il V., dopo che in primo grado il tribunale aveva rifiutato di disporre indagini di polizia tributaria sulla situazione economico-patrimoniale di ciascuna delle parti.
La Corte di merito avrebbe dovuto rilevare che la M., quale casalinga, aveva contribuito alla formazione del patrimonio familiare e, separata dal marito dopo 36 anni di matrimonio e all'età di omissis anni, non aveva trovato un lavoro adeguato e svolgeva l'attività di salariata agricola già esplicata durante la vita comune, per la quale percepiva un reddito che non le consentiva una soluzione abitativa conforme alle sue esigenze e avrebbe poi ricevuto una pensione modesta, senza trattamento di fine rapporto.
Il V. aveva ancora nella sua disponibilità una casa colonica in un parco di mq. 5.000, di cui era detentore con il consenso dell'Azienda agricola omissis, della quale era stato in passato dipendente a tempo indeterminato, abitazione familiare a lui rimasta con la separazione e in rapporto alla quale e all'esigenza della M. di procurarsi un'altra casa, fu concordato dalle parti in sede di separazione consensuale il contributo in favore della donna nella somma mensile prima indicata.
Dal raffronto delle posizioni economico-patrimoniali delle parti, ad avviso della ricorrente, era emerso che il marito aveva migliorato le sue condizioni dalla data della separazione, avendo ricevuto il trattamento di fine rapporto nel omissis e continuato l'attività lavorativa in nero, mentre la ricorrente era rimasta nell'identica instabile situazione reddituale e patrimoniale, che fruiva all'epoca della separazione.
In occasione della fine della convivenza, era stato consensualmente fissato il contributo a carico del V., del cui incremento patrimoniale la Corte d'appello non ha tenuto conto in concreto, non avendo considerato che esso risultava dalla ricezione da parte sua del trattamento di fine rapporto (da ora: T.F.R.).
Replica il controricorrente che nulla spetta a titolo di assegno alla M., fruendo la donna di redditi adeguati a conservare il tenore di vita goduto nel matrimonio ed avendo invece egli ridotto le sue entrate mensili rispetto all'epoca della vita comune, per essere ormai pensionato, e dovendo servirsi del trattamento di fine rapporto per compensare la riduzione degli introiti derivata dalla cessazione del rapporto di lavoro.
La sentenza impugnata non presenta carenze motivazionali in ordine al rigetto della domanda di assegno, correttamente fondata sulla pari attuale condizione economica delle parti che ha determinato la negazione del diritto della M. a tale introito, perché allorché fu concordato dalle parti un contributo a suo favore all'atto della separazione, l'uomo fruiva, quale lavoratore dipendente dell'Azienda agricola omissis e detentore di una casa fornitagli dal datore di lavoro, di redditi sicuramente più alti di quelli che riceveva invece all'atto della cessazione degli effetti civili del matrimonio.
2. Il ricorso è infondato e da rigettare.
La Corte territoriale ha esaminato i due motivi di gravame per cui la M. insisteva nella richiesta di assegno di divorzio, facendo riferimento al preteso svolgimento di lavoro retribuito in nero del V. e alla percezione da questo del trattamento di fine rapporto, ritenendo il primo non provato e la seconda irrilevante, per riconoscere alla donna il diritto all'integrazione domandata in suo favore e esattamente ha respinto l'appello.
In ordine al T.F.R. ricevuto dal V., la Corte ha ritenuto irrilevante la circostanza di tale entrata straordinaria dell'uomo, sulla quale la donna aveva fondato la richiesta di assegno, perché, avendo la prova testimoniale assunta in primo grado smentito la esistenza di altre entrate del V. in corrispettivo di prestazioni di lavoro eseguite in nero per la Azienda agricola di cui era stato già dipendente, il piccolo capitale ricevuto integrava solo in parte i redditi perduti a causa del pensionamento.
Tale accertamento del giudice d'appello non è censurato con il richiamo specifico di eventuali deposizioni testimoniali incompatibili con le affermazioni della sentenza impugnata in ordine alla riduzione delle entrate periodiche del V. o con la indicazione di altre circostanze di fatto che possano condurre ad una diversa conclusione.
La decisione negativa per la domanda della M. si fonda sulla affermazione, non contestata dalla ricorrente neppure con il ricorso per cassazione, dell'attuale sostanziale parità di condizione economica - reddituale e patrimoniale - dei due ex coniugi, difforme da quella esistente all'epoca della convivenza matrimoniale, nella quale l'uomo percepiva uno stipendio fisso superiore agli introiti occasionali della donna che all'epoca, come all'attualità, svolgeva attività di salariata agricola.
Il peggioramento delle condizioni del V. che comporta un'attuale situazione reddituale e patrimoniale dello stesso livello delle parti, è ostativo al riconoscimento del diritto all'assegno per la M. che attualmente percepisce con il proprio lavoro un reddito di circa Euro 1.200,00 mensili, superiore a quello di pensione, di circa Euro 852,00 mensili, del suo ex marito.
Il godimento dell'abitazione familiare, di proprietà della datrice di lavoro dello stesso V. e costituente all'epoca della separazione una utilità economicamente valutabile, ai sensi dell'art. 12 della legge 30 aprile 1969 n. 153, parificabile in sostanza ad un reddito, permane ancora, ma, essendo cessato il rapporto di lavoro, cui era connessa la fruizione della casa, la detenzione di questa deve considerarsi a titolo di precario e può venir meno in ogni momento a richiesta della proprietaria, salvo a presumere che l'immobile sia divenuto oggetto di una locazione, essendo venuto meno il rapporto di lavoro dipendente che ne giustificava l'uso.
In ordine al tenore di vita goduto dalle parti nel corso della vita comune, esso è stato desunto anche dal contributo di L. 350.000 a carico del V. e a favore della M., concordato con la separazione consensuale per integrare i minori guadagni di questa e al fine incontestato di procurarsi un'abitazione, essendo stata assegnata al marito quella familiare, il cui uso costituiva per l'uomo anche corrispettivo del lavoro alle dipendenze dalla proprietaria dell'immobile e concorreva ad evidenziare la migliore condizione di lui rispetto a quella della moglie durante la loro convivenza.
La Corte d'appello ha valutato le condizioni economico-patrimoniali e i redditi delle parti al momento della decisione e a quello della separazione, ritenendo le condizioni concordate per questa una prova della posizione economica su cui si fondava il treno di vita delle parti durante la convivenza e per la quale si era concordato il contributo al mantenimento della moglie e a carico del marito, cui era rimasta la casa familiare, dovendo quindi la ricorrente cercarsi un'altra abitazione.
Tale situazione economica della M., meno buona rispetto a quella del V. all'epoca della comune vita matrimoniale, deve ritenersi modificata nel raffronto con quella dell'altra parte al momento del divorzio, essendo ormai sostanzialmente identica a quella del V., anche tenendo conto del T.F.R. ricevuto dall'uomo, per compensare in parte la riduzione dei redditi mensili di lui connessa allo stato di pensionato, mentre la donna aveva conservato i suoi redditi di salariata agricola, ormai maggiori di quelli dell'ex marito.
Pur rilevando che la donna non aveva diritto ad una quota del T.F.R. da lei neppure richiesta, non fruendo dell'assegno di divorzio che, ai sensi dell'art. 12 bis della legge 1 dicembre 1970 n. 898 come poi modificata, è il presupposto per pretendere detta quota, la Corte d'appello ha negato l'esistenza del diritto a tale assegno in ragione del fatto che la istante ha una posizione reddituale e patrimoniale analoga a quella fruita nel matrimonio mentre quella del V. è divenuta meno buona e non gli consente di integrare le entrate della ex moglie, non fruendo egli stesso di redditi adeguati a conservare il tenore di vita già avuto in precedenza.
La Corte territoriale ha negato, come è nei suoi poteri e analogamente a quanto deciso sul punto dal tribunale, la esigenza di indagini di polizia tributaria ritenute non necessarie (Cass. 18 giugno 2008 n. 16575, 25 maggio 2007 n. 12308, 28 aprile 2006 n. 9861) e, sulla base della prova orale assunta in primo grado, che ha escluso la percezione di altri redditi oltre quelli pensionistici per il V. per lavoro retribuito e in ragione della documentazione prodotta dalle parti, ha ritenuto allo stato di pari livello le posizioni economico - patrimoniali degli ex coniugi, che erano invece differenti e a vantaggio dell'uomo, all'epoca della vita matrimoniale comune e fino alla separazione.
In sostanza la Corte non ha potuto, per l'attuale pari condizione economica delle parti, imporre all'uomo, che fruisce di introiti minori di quelli già fruiti nel corso della convivenza con la donna, di integrare le entrate di questa con un assegno di natura assistenziale che fornisca le maggiori entrate necessarie a mantenere il livello di vita che le condizioni di entrambi consentivano durante la vita comune e che attualmente nessuno dei due può permettersi (sul diritto all'assegno di divorzio, cfr. Cass. 12 luglio 2007 n. 15611, 28 febbraio 2007 n. 4764, 28 marzo 2006 n. 7117).
Il ricorso non fornisce elementi per giungere ad una diversa soluzione sulla esistenza del diritto all'assegno di divorzio per la ricorrente, con conseguente irrilevanza anche della denunciata carente motivazione della sentenza di merito che, in base ai fatti esaminati e valutati in sede di merito come emersi dai mezzi di prova assunti in primo grado e ai documenti in atti, ha esattamente denegato che alla donna spetti l'assegno divorzile da porre a carico dell'ex coniuge.
Se le condizioni economiche della M. e del V. sono attualmente dello stesso livello, a differenza che durante la vita comune, allorché l'uomo fruiva di maggiori entrate mensili di quelle della moglie e aveva potuto quindi contribuire al suo mantenimento, esattamente si sono negati l'obbligo di lui e il diritto della donna a ricevere l'assegno divorzile integrativo delle sue entrate e necessario a mantenere un tenore di vita simile a quello goduto manente matrimonio.
2. In conclusione, il ricorso deve rigettarsi, anche se per le evidenziate ragioni della decisione, basata sul sostanziale modesto livello economico di entrambe le parti, appare equo compensare interamente tra loro le spese del presente giudizio di cassazione, in deroga alla regola della soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del presente giudizio di cassazione tra le parti
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